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www.ildialogo.org "SHOAH, MODERNITA' E MALE POLITICO": UN MALE SENZA BANALITA'. Una nota di Gianpasquale Santomassimo,a c. di Federico La Sala

27 GENNAIO 2012. Commemorazione istituzionalizzata da un lato e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino ...
"SHOAH, MODERNITA' E MALE POLITICO": UN MALE SENZA BANALITA'. Una nota di Gianpasquale Santomassimo

(...) il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente (...)Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo


a c. di Federico La Sala

 Un male senza banalità

di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27 gennaio 2012)

Per quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile.

Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah.

Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning).

Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente.

Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente.

Antigiudaismo di massa

Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento.

Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale.

Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del «carattere tedesco» (Burgio, anticipato in sintesi su questo giornale il 19 gennaio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio.

Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della «società civile» tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la «denazificazione» del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia.

«Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale - dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola - fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera.

Il secolo della razza

Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi interrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul «secolo assassino» e l’agitarsi del fantasma indistinto del «totalitarismo» onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel «secolo della razza» che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali.

La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire «secolo lungo», è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali.

E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé.

Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli).

Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi - se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione - in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.



Venerdì 27 Gennaio,2012 Ore: 14:31
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/1/2012 19.05
Titolo:Per una memoria viva ...
Per una memoria viva ma senza retorica

di Lia Tagliacozzo (Confronti, n. 1, gennaio 2012)


Questo 27 gennaio, il Giorno della Memoria sarà celebrato per la dodicesima volta: si tratta di un tempo sufficiente per entrare nel calendario civile del Paese ed essere quindi commemorato con
impegno e commozione da istituzioni, scuole di ogni ordine e grado, amministrazioni locali, associazioni, televisioni, giornali e gente di buona volontà.

Nato da un'iniziativa parlamentare di Athos De Luca e Furio Colombo, il Giorno della Memoria è diventato una data importante anche se
il 27 gennaio del 1945 —quando l'armata rossa sovietica liberò il campo di sterminio di Auschwitz — in Italia non se ne accorse nessuno: la Polonia era lontana e le notizie su quanto succedeva nel «campo della morte» e negli altri dell'arcipelago dell'orrore nazista erano scarsissime. Di altri luoghi si sapeva, erano luoghi italiani, tragedie italiane e, spesso, erano i fascisti italiani a compierle
e a permetterle.

Il Giorno della Memoria si è rivelato negli anni un'occasione importante che ha contribuito a interrompere il silenzio delle istituzioni su un pezzo di storia contemporanea europea
che si protraeva da decenni; chi si occupa dei nodi controversi di quella storia, quelli che continuano ad interrogare le nostre coscienze, adesso è, forse, un po' meno solo.

Il Giorno della Memoria, in quanto data del calendario civile del Paese, ha attivato una serie di iniziative fondamentali diffuse negli anni e nel territorio: proiezioni, mostre, rassegne, pubblicazioni di libri e di ricerche, dando loro un'energia nuova, mobilitando storici e istituzioni locali; ha coinvolto decine di migliaia di studenti delle scuole di tutto il territorio nazionale in letture, lavori di ricerca su supporti di tutti i generi, produzioni teatrali e cinematografiche; ha dato occasione per convegni e corsi di formazione per insegnanti. Ha dato cittadinanza sui media — giornali e televisioni — a temi che fino a poco tempo prima faticavano a conquistare poche righe in occasione delle ricorrenze
più significative. Ha consentito il racconto delle vicende dei salvatori. Ha dato parola e voce a storie dimenticate.

E poi. E poi il Giorno della Memoria ha contribuito a sedimentare un senso comune per cui la tragedia della Seconda guerra mondiale è stata solo la Shoah — come se senza la Shoah la guerra non avesse ucciso i milioni di persone che invece ha ucciso — che la Shoah abbia riguardato solo gli ebrei e che i responsabili del terrore siano stati solo i nazisti, lasciando monde e pulite le coscienze ignave, patrie e fasciste. La sua celebrazione si è sovrapposta e ha aiutato lo sdoganamento di una parte politica che fino ad allora poco aveva preso le distanze da quanto accaduto, su quegli stessi temi oggetto del ricordo, durante il fascismo e la guerra.

Il ricordo dei giusti che salvarono ha cancellato quello degli infami che denunciarono e dei vili che ignorarono. Ha suscitato malcelata
insofferenza per «questi ebrei che fanno sempre le vittime» e ha reso impossibile parlare di ebrei ed ebraismo senza parlare di Shoah. Ha costituito l'occasione e la celebrazione di una produzione di
fiction dolciastra e imprecisa.

Il Giorno della Memoria sta rischiando di essere espulso dalla storia: si parla di Shoah — che in ebraico significa distruzione — senza parlare di fascismo, di nazismo, di guerra, di Resistenza, di
sterminio degli zingari, degli handicappati e degli omosessuali, dell'antifascismo e della bomba atomica, degli scioperi nelle fabbriche e delle leggi razziali, dell'esultanza della Liberazione. Si
ricorda la Shoah senza parlare della catena delle esclusioni che consentì la strage finale. E senza discutere dei decenni e dei silenzi che sono stati necessari per iniziare a parlare pubblicamente di
quanto accaduto.

Il Giorno della Memoria rischia di rendere la Shoah appannaggio della categoria del male disumano invece che della realtà umana.

Undici anni sono un'occasione importante per iniziare a fare delle valutazioni, per porsi delledomande, per interrogarsi sulle strategie che consentono la trasmissione di una memoria ricca, non pacificata e per questo capace di interrogare ancora il presente. Facendo attenzione però alle parole di coloro che, nel criticare il nostro — limitato e contemporaneo — 27 gennaio, rischiano di buttare
l'impegno e lo sforzo del bambino insieme all'acqua sporca della retorica di maniera.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 28/1/2012 10.07
Titolo:Dodicesima ricorrenza del Giorno della Memoria. Una memoria senza storia ...
Una memoria senza storia

di Claudio Vercelli (il manifesto, 28 gennaio 2012)

Siamo giunti oramai alla dodicesima ricorrenza del Giorno della Memoria. È quindi possibile un primo bilancio, non tanto nel merito delle iniziative che si sono corposamente susseguite da allora
ad oggi quanto sulla sua funzione pubblica e, pertanto, sulle ricadute che si sono concretamente misurate nel corso del tempo.

Tale bilancio si impone tanto più dal momento che il transito
intergenerazionale fa sì che anche gli ultimi testimoni dell'epoca vadano scomparendo, consegnandoci ad un orizzonte dove le costruzioni di senso saranno attribuite solo alla rielaborazione e alla simbolizzazione di quei trascorsi attraverso la ricerca ma anche, e soprattutto, l'immaginazione collettiva.

Alcuni libri, freschi di stampa, ci aiutano in tal senso. Il primo è quello di Valentina Pisanty, Abusi di memoria. Negare, sacralizzare, banalizzare la Shoah (Bruno Mondadori, pp. 160), la quale affronta di petto una serie di nodi di contesto: il negazionismo, la banalizzazione (così come la trivializzazione) e la «sacralizzazione» dello sterminio. Tutti e tre, sia pure con intensità, segni ed effetti distinti, sono forme diverse di un medesimo costrutto, quello che
cristallizza ciò che è trascorso, consegnandolo ad un tempo senza storia, ovvero privo di un'attenzione agli accadimenti reali che non sia funzionale alla costruzione ideologica del discorso sul presente.

Si tratta di radicalizzazioni che rispondono a dinamiche identitarie, oggi molto pronunciate, in aperta contrapposizione allo schema pedagogico ripetutamente evocato, soprattutto dalle istituzioni pubbliche, che vorrebbe la «memoria della Shoah» come ingrediente della coesione sociale.

Il dovere di ricordare

Il problema di fondo è quindi lo stabilire quale sia l'effettivo campo della memoria nella costruzione di un ethos condiviso che non si riduca alla «commemorazione solenne», alla «cerimonia rituale» così come alla «glorificazione di una qualche identità collettiva». Ma anche cosa implichi il fare di un evento storico così drastico il fondamento di una narrazione del presente. Tanto più in società,
quelle europee come l'americana, in profondo mutamento culturale e sociale, dopo la fine del bipolarismo e l'avvio di un lungo periodo di crisi economica.

I rischi intrinseci alla istituzionalizzazione sono evidenti, tanto più dal momento che la memoria è confusa con la storia (e viceversa). Nei confronti della prima abbondano aspettative ai limiti dell'inverosimile, suffragate dalla precettistica del «dovere di ricordare», quasi in prima persona, qualcosa che oramai quasi più
nessuno può dire di avere vissuto. Il tutto si consuma in una sorta di capovolgimento dell'orizzonte, dove il racconto delle tragedie trascorse sembra sostituirsi al vuoto di aspettativa per il futuro.

In questi ultimi decenni abbiamo peraltro assistito ad un vero e proprio fenomeno di ipertrofia autobiografica, che ha messo in scena il testimone come garante, nella sua più assoluta soggettività,
della veridicità del racconto sul passato. Data al processo Eichmann e a quelli di Francoforte, nei primi anni Sessanta, la progressiva affermazione della centralità del sopravvissuto nella costruzione
di una «storia calda», empaticamente condivisibile (così come l'avrebbe poi riformulata Daniel Goldhagen) ed emotivamente coinvolgente, di contro al ricorso al pluralismo delle fonti ma anche
al distacco dello storico come garanzia di obiettività (Lucy Dawidowicz, Raul Hilberg, Saul Friedländer e molti altri).

L'esposizione del fatto storico alla comunicazione mediatica ha poi
accentuato gli ingredienti manipolatori. Il problema, nell'età dell'immagine, non è solo l'attendibilità del resoconto ma anche e soprattutto l'impatto che esso esercita sull'immaginazione sociale, orientando sensibilità e corroborando atteggiamenti che si riflettono poi sulle scelte collettive. Interessanti riflessioni volte in tal senso ci sono offerte sia da Andrea Minuz con La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (Bulzoni, pp. 222), che da Elena Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alla caduta del muro di Berlino (Diabasis, pp. 180), due tra i migliori testi relativi alla costruzione di un immaginario condiviso della «catastrofe» in età contemporanea.

A quest'ordine diriflessioni si è accompagna peraltro il riscontro della crescente incapacità di pensare all'evento Shoah in termini unitari, elemento che tanto più implicherebbe invece la cognizione del fatto che una tale tragedia storica non è mai la risultante della giustapposizione di una pluralità di fattori strettamente individuali bensì il prodotto di un campo di forze sociali e culturali che vanno identificate nel loro definirsi in quanto soggetti storici collettivi. Non è allora un caso se in Italia alla scoperta del continente Shoah si sia accompagnata una defascistizzazione del fascismo, emendato delle responsabilità peggiori, demandate al nazismo, «male assoluto» e altrui.

L'identificazione con il sofferente, come già rilevava Susan Sontag, non è peraltro necessariamente il segno di una comprensione delle dinamiche storiche e politiche della sofferenza, rinviando
semmai ad una pluralità di motivazioni che a volte trascendono nello sguardo voyeristico, nel compiacimento generato dal kitsch (elemento, quest'ultimo, che è alla base dello stesso gusto nazista), nella seduttività della perversione e della barbarie, quanto meno in effige. È come se il reale si riducesse al simulato, ovvero al simulacro della realtà sia sufficiente, a tale riguardo, rinviare al tracciato del suo Davanti al dolore degli altri (Mondadori).

Non di meno, lo statuto della vittima, ovvero la cogenza della memoria delle offese subite in quanto parte essenziale nella costruzione di un'identità di gruppo, attivata poi nella rivendicazione di uno spazio di autorappresentazione in ambito pubblico, ha accompagnato quel fenomeno variamente conosciuto come «americanizzazione della Shoah» (tra gli altri ne hanno parlato Annette Wieviorka e Peter Novick).

Anche qui la dinamica comunitarista tende a riemergere prepotentemente, incontrandosi con la contrazione della socialità e con la logica della privatizzazione dei diritti, intesi essenzialmente come ambito nel quale si dà corso ad un risarcimento e non alla condivisione di un'esperienza comunicabile.


Pluralità della narrazione


Sul negazionismo, che è ingrediente dei tempi correnti, ritorna Donatella Di Cesare con Se Auschwitz è nulla (il Melangolo, pp. 125). Della negazione è colta la natura di agire politico che fonda non l'oblio ma un pieno di memoria artefatta, basata non solo sul resettamento della realtà fattuale ma anche e soprattutto sulla negazione del diritto alla vita delle vittime di allora come della
storia del loro annientamento. Una prospettiva ulteriore, non alternativa a quelle già esistenti ma capace di consegnarci ad una visione ancora più articolata, è infine quella di genere, dove già Dalia Ofer, Lenore J. Witzman, Giovanna De Angelis, Anna Bravo ed altre ancora si erano impegnate nel recente passato.

È uscito in questi giorni il volume di Lucille Eichengreen, Le donne e l'Olocausto (Marsilio, pp. 154, euro 14) dove a partire dalla sua esperienza di Auschwitz l'autrice dà corpo ad un'osservazione intensa sull'universo femminile nella vicenda concentrazionaria. Più che di
memoria, quindi, parrebbe il caso di parlare di sguardi, da ricomporre nella pluralità della narrazione, non di un altrui passato ma del nostro presente.

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