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www.ildialogo.org LA LEZIONE DI ENZO PACI E LA SUA RIVISTA "AUT AUT": IL CORAGGIO DELLA FILOSOFIA. Un'intervista a Pier Aldo Rovatti di Antonio Gnoli - con alcuni materiali,a c. di Federico La Sala

A PARTIRE DAL LAGER DI WIETZENDORF E DA "NICODEMO O DELLA NASCITA". La domanda sul soggetto che Paci allora sollevava č rimasta aperta in tutto il percorso successivo di aut aut fino a oggi ...
LA LEZIONE DI ENZO PACI E LA SUA RIVISTA "AUT AUT": IL CORAGGIO DELLA FILOSOFIA. Un'intervista a Pier Aldo Rovatti di Antonio Gnoli - con alcuni materiali

Il filosofo ricorda la storia della rivista da lui diretta fondata da Enzo Paci nel 1951. Mentre esce un´antologia con i migliori saggi pubblicati. "Il nome alludeva a Kierkegaard, ma anche all´esigenza culturale di una presa di posizione".


a c. di Federico La Sala

MATERIALI SUL TEMA: 

ENZO PACI: "Parigi 30 marzo 1960. Ho trovato Ricoeur alla Gare de Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane nel mio giaciglio [...]" (Enzo Paci, Diario fenomenologico , Milano 1961, pp. 97-98).

LAGER DI WIETZENDORF, 1944. Basilica di S. Ambrogio, Natale 2000: il Presepio degli Internati Militari Italiani. In memoria di Enzo Paci e a onore del Cardinale Martini. Una nota

VITA E FILOSOFIA. Per il ventennale della morte di Elvio Fachinelli ((1928-1989). 
-  METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
 (Federico La Sala)

__________________________________________________________

intervista

Rovatti: “Sulle pagine di Aut Aut combattiamo dogmi e ideologie”

AUT AUT. Un pensiero contro

Il filosofo ricorda la storia della rivista da lui diretta fondata da Enzo Paci nel 1951. Mentre esce un´antologia con i migliori saggi pubblicati. "Il nome alludeva a Kierkegaard, ma anche all´esigenza culturale di una presa di posizione". "Contribuì a preparare il ´68 ma finì per criticare il movimento degli studenti"

di Antonio Gnoli  (la Repubblica, 22.12.2011) 


È una delle riviste più belle in circolazione. A dire il vero lo è da sessant´anni. Cioè da quando Enzo Paci la fondò nel 1951. Sobria, internazionale, al passo con l´evoluzione dei tempi, aut aut è l´espressione di una filosofia militante attenta alle questioni del soggetto (vedremo in che senso) e dei rapporti con l´altro. Un´antologia di suoi scritti, curata da Pier Aldo Rovatti che ne è il direttore dal 1976, è uscita ora con il titolo Il coraggio della filosofia (il Saggiatore, pagg. 533, euro 25).


Rovatti, perché fu scelto Aut Aut come titolo?


«La testata alludeva a una famosa opera di Kierkegaard, ma il suo significato indicava l´esigenza culturale di una netta presa di posizione. Siamo di fronte a un bivio – diceva Enzo Paci nel primo editoriale – o la strada della barbarie o quella della civiltà. Barbarie per lui era il pensiero dogmatico e tutte le idee di tipo assolutistico del passato e del presente. Formulò un no deciso alle forme di violenza che si riproducono attraverso i pregiudizi. Era il 1951. Sebbene la guerra e il fascismo fossero alle spalle, la cultura continuava ad essere un deserto. Un giovane professore universitario, che aveva coniugato Platone con l´esistenzialismo, e di lì a poco avrebbe scoperto la fenomenologia, ideò e fece nascere aut aut».


Lei è stato allievo di Paci. Che persona è stata?


«Paci ha scritto degli ottimi libri. Era un uomo formidabile per cultura, spirito critico e originalità di idee. Le sue lezioni alla Statale di Milano erano per tutti un´esperienza di vita. Aveva un grande fascino. Io lo subii al punto che lasciai il corso di lettere e mi iscrissi a filosofia. Ricordo che un sabato del 1961 feci con Salvatore Veca un´esercitazione in aula su "Fenomenologia e teatro". Il testo piacque a Paci che ci chiese se volevamo pubblicarlo sulla rivista».


Non ha l´impressione che, aldilà dei meriti, della scuola fenomenologica – del tentativo di Paci di coniugare Marx con Husserl – resti ben poco?


«Marx con Husserl significava rivitalizzare il materialismo storico, salvando il marxismo critico dalla barbarie. La domanda sul soggetto che Paci allora sollevava è rimasta aperta in tutto il percorso successivo di aut aut fino a oggi».


Dopo gli anni della fenomenologia giunse il Sessantotto e aut aut è stato un buon termometro del dibattito allora in corso. Non ritiene però che il ruolo della rivista poteva essere più critico verso il movimento?


«La rivista aveva contribuito a preparare il ´68 ma non si identificò mai con il movimento degli studenti, anzi ne criticò i dogmatismi suggerendo un orizzonte filosofico molto più ampio».


Due figure di quel "decennio rosso" furono Raniero Panzieri e Franco Fortini. Il confronto con loro vi ha svincolato dal condizionamento del Pci. Ma restava il rischio di essere riassorbiti in un´idea di "soggettività rivoluzionaria" che si è mostrata velleitaria e impraticabile.


«Il decennio al quale allude è stato forse il momento più dinamico della rivista: la questione dei bisogni ne rappresentò il filo rosso, il collettore e insieme la provocazione filosofica. Le idee di alcuni allievi di Lukács (Agnes Heller in primo luogo) e le loro critiche al "socialismo realizzato" costituirono un elemento importante di questo filo. Non a caso attorno alla rivista si aggregarono intellettuali di spicco, talora assai dissimili, da Cacciari a Fortini. Eravamo una palestra di posizioni anche conflittuali. E non mi pare che in quegli anni caldi la rivista abbia mai rinunciato alla sua ispirazione critica».


Gli anni Ottanta hanno significato un rapporto privilegiato con Foucault. Lo stesso che, negli anni Novanta, si mostrerà con Derrida. Non c´è stato un eccesso di francesizzazione della rivista?


«Troppa Francia? Non so. Tra l´altro c´è da aggiungere l´interesse per Lacan che continua tuttora. Prima sembrava tutto girare attorno alla fenomenologia, che parlava tedesco, la stessa lingua di Heidegger, al quale abbiamo dedicato successivamente moltissima attenzione. Ma non credo che la geofilosofia sia un sintomo significativo. Foucault entra nelle pagine di aut aut alla fine degli anni Settanta quando il problema centrale diventa per noi quello del potere e della natura dei dispositivi in cui viviamo».

Insieme a Vattimo lei è stato fautore in Italia di un "pensiero debole". Ritiene che questo modo di interpretare il mondo sia ancora valido? O non crede che quell´esperienza si sia consumata dopo il nuovo richiamo alla realtà e ai fatti che la determinano?


«Qui vorrei essere molto netto: il pensiero debole era inattuale nel 1983, quando uscì allo scoperto, e resta inattuale oggi, quando si vorrebbe celebrarne il funerale. Il pensiero debole non è morto semplicemente perché non si è mai permesso che vivesse davvero. Quanto ad aut aut, l´indebolimento delle pretese assolutistiche della filosofia e la critica agli usi "violenti" della verità si intonavano perfettamente con i motivi per cui la rivista era nata, cioè la denuncia di ogni barbarie del pensiero, insomma di tutte le ideologie. E si accordava altrettanto bene con la microfisica del potere e la critica al "Soggetto filosofico" che attraversano l´intero pensiero di Foucault».


I temi dell´alterità e dell´ospitalità sono le coordinate dell´ultima fase della rivista. Non c´è il rischio di un eccessivo buonismo filosofico?


«Non direi proprio che aut aut possa essere accusata di buonismo filosofico. Al contrario, è una rivista che tende a produrre fastidi e lanciare provocazioni. Alterità ha per noi significato apertura ad altri mondi culturali, ma soprattutto bisogno di stanare e descrivere le insidiose e diffuse retoriche dell´alterità che vengono spacciate per supplementi d´anima. Quanto all´ospitalità non ha niente di dolce, non è un cibo per anime belle. Come l´abbiamo intesa noi, sulla scorta di Derrida, vuol dire essere stranieri, appunto ospiti in casa propria».


Chi vi critica sostiene che la rivista sia eccessivamente filosofica. Troppo elitaria.


«È un´obiezione che condivido e che implica anche un aspetto di scrittura. Le molte proposte spontanee che arrivano in redazione sono spesso scritte in filosofese, che la dice lunga sull´idea astratta di filosofia che circola e su come l´università formi studiosi magari bravi ma spesso incapaci di comunicare».


Siamo usciti, forse, da un regime politico ma non da una crisi che ha tratti epocali. Come si posiziona aut aut di fronte alle nuove incertezze, paure e precarietà che stiamo vivendo?


«Credo che l´Italia sia ancora immersa nella cultura-spettacolo e nei suoi tratti, diciamo pure, populistici. Sottovalutare questo aspetto della barbarie sarebbe un errore. Quanto alla precarietà sociale sarebbe sbagliato attribuire alla filosofia, concreta o no che sia, il compito di prefigurare soluzioni teoriche ed etiche. Non è affar suo. La filosofia non deve venir meno al suo ruolo di descrizione e di critica. Il suo compito è individuare linee di resistenza continuando nel contempo lo smascheramento delle retoriche vecchie e nuove, visibili o striscianti. Chiamerei tutto ciò lavoro di "etica minima"».


Cosa significa?


«Un lavoro tutt´altro che di superficie, visto che mette in gioco la domanda più cruciale: che ne è oggi, nella società neoliberale realizzata, della soggettività? Assistiamo a una sorta di falsa pienezza del soggetto che illusoriamente pensa di essere un individuo libero, autonomo e padrone di sé. Quando in realtà tutto va nella direzione opposta. Il soggetto egoistico non è più una storia narrabile. Meglio ripartire dalla sua finitezza e precarietà».



Giovedě 22 Dicembre,2011 Ore: 12:04
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/1/2012 11.14
Titolo:INATTUALITA' DEL PENSIERO DEBOLE.
Un saggio di Rovatti ci mostra perché non possiamo liquidare quelle teorie

Metodo e forza del pensiero debole

Una delle tesi di Freud è che ciascuno viva la realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente"

di Massimo Recalcati (la Repubblica, 05.01.2012)

Quando gli psicoanalisti discutono animosamente tra loro tendono a farlo a colpi di diagnosi. L’avversario non viene solo contestato teoricamente ma viene innanzitutto psichiatrizzato come se fosse un paziente. Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L’ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell’ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere.

In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura.

Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove - era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti -, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto! Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici.

Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull’esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno - per esempio per un feticista - non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico.

E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell’esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità? Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci.

La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l’importanza che sin dalla sua origine i debolisti hanno assegnato all’intreccio tra realtà e dispositivi di potere. «L’appello alla Verità e alla Realtà» - scrive Rovatti - «è un appello astratto» se non tiene conto dell’incidenza dei dispositivi del potere. La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell’assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica.

Anche nel nome della realtà - una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri - si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore. Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa - come ci ricorda Rovatti - come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere. Anche tutto l’interesse che nell’ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l’opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un’evidenza oggettiva - non è una malattia del cervello -, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale.

Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall’essere un capitolo minore della storia più recente dell’ermeneutica o del post-modernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità).
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 07/1/2012 16.12
Titolo:FOCAULT E LA "STORIA DELLA FOLLIA" .....
Cinquant´anni fa usciva uno dei libri più importanti e più pubblicati del pensatore francese Eppure ancora oggi, nonostante gli studi, le sue lezioni non sono state capite fino in fondo

Nostalgia di Foucault

Follia e potere, così tutti lo citano senza conoscerlo

Il rapporto con lui spesso si è limitato ai convegni e agli omaggi evitando di affrontare i nodi del suo pensiero

di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 07.01.2012)

Il 1961, poco più di cinquant´anni fa, fu un´annata eccezionale. Esce Folie et déraison di Michel Foucault (ovvero la Storia della follia nell´età classica), il primo dei suoi grandi libri, il capolavoro. Ma escono anche altri libri epocali come I dannati della terra di Frantz Fanon e Asylums di Erving Goffman. Tutto sembra girare attorno alla condizione del malato mentale e alla critica delle istituzioni psichiatriche, e bisognerebbe ricordare anche che nello stesso 1961 Franco Basaglia inizia a Gorizia quella straordinaria avventura che porterà alla chiusura del manicomio di Trieste e alla "legge 180". Ma c´è molto di più, qualcosa come un cambiamento di passo nella consapevolezza culturale, proprio grazie a una riflessione radicale sugli internati e sugli esclusi.

La Storia della follia di Foucault venne subito tradotta in italiano, non scomparve mai dalle librerie, e adesso disponiamo anche (e finalmente) di un´edizione completa, senza tagli né omissioni (sempre per i tipi Bur Rizzoli, a cura di Mario Galzigna). Tuttavia, quest´opera così importante è rimasta marginale, spesso svalutata, perfino dimenticata: non è mai entrata davvero nel dibattito teorico, come se su di essa fosse subito calato una specie di interdetto, che poi si è perpetuato negli anni, al punto che c´è da chiedersi se ancora oggi - quando ormai Foucault è diventato per tutti un "classico" - non ne resti un´ombra consistente.

Gli storici hanno storto il naso. I filosofi hanno il più delle volte fatto spallucce, domandandosi quale fosse il succo teoretico di quelle 500 pur affascinanti pagine. Storia di un "silenzio" (il silenzio sulla follia)? Racconto di come dal "grande internamento" del xvii secolo nasce la moderna psichiatria? Elogio postromantico di alcuni grandi folli (da Hölderlin a Van Gogh ad Artaud), intesi come voci che gridano nel deserto? Non erano cose per palati filosofici né per quegli intellettuali impegnati che avevano da fare con il marxismo umanistico. Neppure nel ´68 la Storia della follia venne presa davvero sul serio. La leggevano soltanto alcuni operatori intelligenti immersi nelle loro pratiche specifiche, e non erano neanche tanti.

Foucault, con il quale Sartre polemizzava, rimase a lungo lo "strutturalista" Foucault, quel provocatore che aveva sentenziato, nelle ultime righe di Le parole e le cose (1966), la "morte dell´uomo". Lentamente, in seguito, cominciarono a circolare le sue parole chiave: archeologia, genealogia, pratiche discorsive. Intanto lui era entrato nel prestigioso Collège de France, e di lì a poco avrebbe fatto capire anche ai sordi che il suo programma teorico aveva di mira essenzialmente il "potere" e l´obiettivo di costruire una inedita "microfisica del potere". L´etichetta di strutturalista sbiadiva così, ridicolmente, dinnanzi a libri come Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, per non parlare degli ultimi corsi dedicati alla biopolitica e al "governo di sé e degli altri" (fino all´ultimissimo del 1984 sul Coraggio della verità, appena tradotto).

Foucault è oggi noto e apprezzato in tutto il mondo, ha fornito strumenti di lavoro a una moltitudine di ricercatori. Eppure l´interdetto non sembra del tutto caduto. Ogni volta, all´inizio dei suoi corsi, Foucault ha ricordato, con incredibile chiarezza espositiva, le tappe del proprio itinerario, una linea di ricerca senza salti che va dalla follia alle prigioni, alla sessualità, attraverso un´indagine paziente dei dispositivi sociali, delle pratiche che le fanno funzionare piuttosto che sulle filosofie generali con cui pretendiamo di afferrarne dall´alto le ragioni.
Ecco dove, a mio parere, si è annidato il sospetto. Perché Foucault non ci dice cos´è la follia (cos´è il potere, cos´è la sessualità)? Che bisogno c´è di occuparsi del fatto che il folle sia stato trasformato in un malato mentale? Il malato mentale non è forse una realtà per noi acquisita? E perché mai - qui sta l´essenza del sospetto - la malattia mentale dovrebbe agire come un indicatore così importante da trasformarsi in una posta teorica e politica valida per l´intera società?

Mi dispiace affermarlo con tanta nettezza, ma porsi domande come queste, rivolgerle a Foucault, vuol dire rifiutarsi di entrare nel suo discorso e nel suo stile di pensiero. Significa non mettersi in sintonia neppure con una riga delle migliaia e migliaia che ha scritto, nonostante tutti ormai gli rendano omaggio, nonostante gli innumerevoli commenti e i prestigiosi convegni a lui consacrati. Se ragioniamo con attenzione sulla mancata ricezione della Storia della follia (come in parte ha tentato di fare l´ultimo fascicolo della rivista aut aut, dedicato specificamente a questo nodo), vediamo bene che non ha tutti i torti chi dice che non abbiamo ancora cominciato a "leggere" Foucault.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/2/2012 12.41
Titolo:Aut aut, il respiro della filosofia ...
Storia

La rivista fondata sessant’anni fa da Paci: una vasta impronta interdisciplinare

Aut aut, il respiro della filosofia

"Come interlocutore costante il marxismo, si aprì all’esistenzialismo, alle scuole anglosassoni, alla fenomenologia
Primo segretario fu Gillo Dorfles, costante sarà l’attenzione per la psicoanalisi"

Pier Aldo Rovatti (a cura di) IL CORAGGIO DELLA FILOSOFIA. AUT AUT 1951-2011 Il Saggiatore, pp.533, 25

di Gianni Vattimo (La Stampa-TuttoLibri 18.2.12)

Non conosciamo quasi nessun volume dello stesso genere paragonabile, per valore intrinseco e utilità culturale (non solo specialistica) simile a quello che da qualche settimana è stato pubblicato, a cura di Pier Aldo Rovatti, con il titolo Il coraggio della filosofia. Aut aut 1951-2011. Come si sarà capito, è la storia della rivista filosofica nata sessant’anni fa per iniziativa di Enzo Paci, allora professore di filosofia a Milano, che ha continuato a vivere anche dopo la scomparsa del suo fondatore ad opera di un gruppo tra i più interessanti dei giovani filosofi italiani sotto la direzione appunto di Pier Aldo Rovatti.

Il carattere relativamente straordinario di questo volume è anzitutto di essere bensì nato da un intento commemorativo-celebrativo, trasformandosi però in una specie di enciclopedia del pensiero filosofico italiano ed europeo degli ultimi sei decenni. Lo sottolineiamo perché può capitare che un libro simile venga accolto con benevola ma poco impegnata attenzione: una sorta di omaggio dovuto sia alla memoria del fondatore sia all’impegno con cui, nel corso di più di mezzo secolo, li autori vi hanno collaborato.

In fondo, i lettori di Aut aut - che sono rimasti numerosi e costantemente aumentati in questi anni - ritrovano qui una antologia di cose che avevano già letto. Eppure rileggere tanti testi - da quello inaugurale e molto denso con cui Paci iniziava il lavoro della rivista, ai tanti che gli sono succeduti niente affatto caratterizzati da una appartenenza di scuola, è come un ripercorrimento - critico e ancora «inventivo» - della storia del pensiero di una buona metà del secolo passato. Non solo della filosofia, e non solo italiana.

Quando Aut aut comincia le sue pubblicazioni, la cultura italiana è appena uscita dalla lunga parentesi del fascismo e vive anche sul piano politico il clima della ricostruzione, con l’entrata in scena di molte correnti di pensiero che erano rimaste silenti o relativamente ignorate negli anni precedenti: non solo l’esistenzialismo, ma le scuole anglosassoni (filosofia del linguaggio, neopositivismo) e poi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, la fenomenologia.

Un orientamento che ha costitutivamente il «vantaggio», rispetto ad altre linee di pensiero, di aprire la filosofia a una vasta gamma di rapporti interdisciplinari: il primo segretario di redazione di Aut aut, leggiamo nella nota iniziale di Rovatti, fu Gillo Dorfles, un filosofo che era, ed è tutt’oggi, anche un grande critico d’arte. Con Paci lavorò pure il musicologo Luigi Rognoni, e costante fu l’attenzione per la critica letteraria (nella raccolta attuale figura un importante saggio di Fortini) e per la psicoanalisi.

Il libro è scandito in decenni, e l’articolazione stessa mostra la connessione del lavoro filosofico con gli eventi della società italiana. I due blocchi più caratteristici della storia della rivista paiono essere quelli degli anni Sessanta e degli anni Settanta: il primo, centrato intorno alla «scoperta» del rapporto tra marxismo e fenomenologia (marcato dall’incontro con La crisi delle scienze europee di Husserl, che nell’antologia si conclude con un importante saggio di Paci sui movimenti studenteschi del Sessantotto) e il secondo messo sotto la categoria dei «bisogni», dove compaiono Agnes Heller, Toni Negri, Cacciari.

Il marxismo rimane un interlocutore costante della rivista (che va considerata anche, al di là dei singoli contributi personali in articoli e libri, il vero grande lavoro filosofico del suo direttore, Rovatti) ; ma via via entrano in gioco altre voci, non solo l’ermeneutica ovviamente, anch’essa legata alla tradizione fenomenologica, ma più tardi Foucault, Deleuze, Derrida.

Un curioso piccolo articolo di Hans Blumenberg (ripreso da un giornale tedesco del 1987: L’Essere, un MacGuffin) sembra voler prendere le distanze dal primo grande allievo di Husserl, Martin Heidegger. Verso il quale, tuttavia, non ci fu mai alcun ostracismo, in Aut aut, piuttosto una sorta di cauta osmosi che dura anche oggi e che contribuisce a fare della rivista un punto di riferimento indispensabile, non solo italiano, di ogni pensiero militante.

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