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www.ildialogo.org VACLAV HAVEL: IL RIVOLUZIONARIO "DI VELLUTO", UN PADRE EUROPEO. Note di Sandro Viola e di Timothy Garton Ash e il testamento politico del presidente ex-dissidente,a c. di Federico La Sala

RIPENSARE L’EUROPA. PER UN "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO...
VACLAV HAVEL: IL RIVOLUZIONARIO "DI VELLUTO", UN PADRE EUROPEO. Note di Sandro Viola e di Timothy Garton Ash e il testamento politico del presidente ex-dissidente

Le corporation globali, i cartelli dei media stanno trasformando i partiti in organizzazioni il cui compito è la protezione di determinate clientele e interessi particolari. La dimensione morale della politica e il coinvolgimento della società civile sono indispensabili per controbilanciare i partiti e le istituzioni di Stato. Libertà, eguaglianza e solidarietà, fondamenti stessi della stabilità e della prosperità delle democrazie occidentali, devono essere applicati a livello planetario. Sognammo un ordine internazionale più giusto. Invece il processo di globalizzazione provoca scompigli economici e devastazione ecologica in molte aree del pianeta


a c. di Federico La Sala

NOTE  SUL TEMA: 

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. (Federico La Sala)

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Un padre europeo


di Sandro Viola (La 
Repubblica, 19.12.2011)

DIFFICILE dire quanti sono, se pochi o molti, gli europei che sentiranno il vuoto lasciato dalla morte di Vaclav Havel. Di certo, l´Europa laica e liberale ha perduto un personaggio che negli ultimi vent´anni aveva rappresentato un costante punto di riferimento. Non era restato che lui, infatti, a incarnare un modello nuovo di statista.


Lo statista che va al potere portandosi dietro non soltanto gli interessi di parte, l´ambizione personale, la capacità di galleggiare tra le miserie della politica, ma anche una visione dell´uomo e del mondo più ampia, più alta, di quelle che cogliamo nei governanti europei. Era rimasto solo lui a ribadire nei suoi discorsi e scritti che la congiunzione tra morale e politica, tra politica e verità, non è la pia illusione di qualche intellettuale con fiato e tempo da sprecare, o addirittura un controsenso. Bensì un legame che dovrebbe e potrebbe realizzarsi in ogni paese civile.


Erano queste le idee con cui s´era presentata sulla scena all´inizio degli Ottanta, nella fase pre-agonica del comunismo, la pattuglia dei "filosofi" che dall´89 in poi guidò il ritorno dell´Europa Centrale in seno all´Occidente. Gli intellettuali di Varsavia, Budapest e Praga - Mazowiecki, Geremek, Kis, Konràd, Havel - cui toccò di dare l´ultima spinta al fatiscente edificio del potere comunista. Riuscendo a rianimare l´appartenenza delle loro nazioni, dopo i quarant´anni della dominazione sovietica, alla civiltà occidentale, così da riportarle - come scrisse poi Havel - «a casa, in Europa».


Di tutto quel gruppo, Havel sarebbe divenuto, una volta insediatosi al Castello di Praga come presidente della Cecoslovacchia, la figura più emblematica. Intanto perché restò al vertice dello Stato (della Federazione cecoslovacca sino al ‘93,e poi - dopo la scissione - della Repubblica Ceca) per ben tredici anni. E poi perché non smise mai di riaffermare i principi, i valori, le speranze con cui gli intellettuali centro-europei dell´´89 s´erano levati contro la putrefazione della politica avvenuta nel quarantennio comunista. Senza mutare d´una virgola, da capo dello Stato, i discorsi che aveva fatto da intellettuale dissidente nei periodi bui della repressione e del carcere.


Né avrebbe mai potuto mutare linguaggio, perché Havel era un moralista. Un intellettuale che s´era levato contro il comunismo non con un progetto politico alternativo, non con una critica radicale del sistema leninista, ma col rifiuto morale di quel sistema. Il rigetto della menzogna, della violenza, della stupidità di cui era fatto in parti uguali il comunismo. Il rifiuto che Havel aveva formulato (con una forza e uno spessore di pensiero paragonabili all´opera di Solgenytsin) nei suoi testi più importanti: "Il potere dei senza potere", l´"Anatomia della reticenza", e le stupende "Lettere a Olga" scritte dal carcere alla prima moglie. Pagine di cui si può prevedere una vita ben più lunga di quella che avranno invece i suoi testi teatrali.


Dei giorni dell´autunno 1989 in cui Havel prese la testa del movimento popolare che fece cadere a Praga il regime comunista, ho nella memoria molte e straordinarie immagini. A cominciare da quelle della sua prima conferenza stampa, nella sua bella casa sul lungofiume (l´unico bene del cospicuo patrimonio familiare che il regime non gli avesse espropriato),la mattina del 18 novembre. L´aspetto timido, una leggera balbuzie, la nuvola di fumo che si sprigionava dalle sue innumerevoli sigarette, e la vaghezza delle sue dichiarazioni politiche. Per me che in quella stessa casa l´avevo incontrato due anni prima, in uno dei suoi molti va e vieni dal carcere, non fu una sorpresa. Ma lo fu per la trentina d´altri giornalisti stranieri che erano accorsi per ascoltare uno dei principali esponenti dell´opposizione anticomunista, e uscirono dall´incontro delusi dalla sua mancanza di chiarezza, di mordente.


D´altronde erano i suoi stessi amici ad escludere che Havel fosse adatto a capeggiare quella che più tardi venne chiamata la "rivoluzione di velluto". Il giudizio era tanto affettuoso quanto negativo. No: Havel era un intellettuale che poteva scrivere appelli e manifesti, ma in quei giorni di scontri con un regime che tentava disperatamente di mantenersi in piedi, un uomo come lui, così inadatto, con le sue esitazioni, sottigliezze e sfumature al dialogo con la folla, serviva a poco.


Non era vero, e lo si vide nei giorni successivi quando Havel cominciò a tenere i suoi comizi da un balcone della piazza San Venceslao. La balbuzie svanita, il gesto fattosi sicuro, la folla che sotto il nevischio impazziva quando lui lanciava l´antico grido hussita: Prava vitezi, la verità vince. Era la stessa frase pronunciata da Tomàs Masaryk il giorno della proclamazione della Prima Repubblica, nel 1918. Ed era anche per questo che nel gelo di quei pomeriggi, i praghesi esultanti, le speranze che prorompevano, tutto sembrava evocare la Cecoslovacchia emersa dai Trattati del Trianon. La "piccola nazione" che sarebbe stata per vent´anni, sino al suo strangolamento per mano di Adolf Hitler, uno dei lembi d´Europa più prosperi, colti e civili. Grazie alla democrazia, al ruolo insostituibile della cultura nella società, alle virtù borghesi: la tolleranza, l´individualismo, la dignità, l´humour.


Salito poi al Castello come presidente della Federazione, la impoliticità di Havel riaffiorò. Il modo in cui gestì la spaccatura della Cecoslovacchia, che nelle sue memorie avrebbe descritto come la prova più tormentosa della sua vita, gli venne rimproverato dalla classe politica praghese in quanto troppo arrendevole, remissivo. E poi cominciarono i malintesi, le incomprensioni con i partiti politici e i loro leader, la fatica di districarsi nei gineprai dell´attività parlamentare. Le stesse difficoltà di rapporti che aveva avuto, ai suoi tempi, Masaryk.


Continuava a stare molto bene sulla scena, su quella internazionale soprattutto, quasi - dicevano gli amici - come il protagonista d´una delle sue piéce teatrali. Ma la sua popolarità in patria s´andava man mano erodendo. Cominciò il lungo, logorante scontro col primo ministro Vaclav Klaus, che negli anni si sarebbe rivelato come qualcosa di più d´un confronto politico. L´economista Klaus (che lo avrebbe sostituito nel 2003 alla presidenza della Repubblica Cèca) vedeva Havel come un artista, un dilettante della politica, sempre circondato - e consigliato - da gente di teatro invece che da politici, e gli invidiava l´enorme prestigio internazionale. Mentre Havel considerava il primo ministro un parvenu, grossolano nei modi, piuttosto incolto e irrimediabilmente noioso. Un disprezzo reciproco, quindi, una serie infinita di sgarbi e contestazioni (da parte di Klaus innanzitutto),che rese gli ultimi anni della presidenza Havel sempre più amari.


Qui conviene fermarsi, attenersi al titolo delle memorie di Havel: "Per favore, sia breve". E ricordare soltanto che il sogno di Havel d´una Praga infine restituita all´Occidente, questo riuscì a realizzarlo. Prima l´ingresso nella Nato, poi quello nell´Unione Europea. Perché non c´è dubbio che sia stato lui, l´intellettuale che nei gelidi pomeriggi del novembre ‘89,provvisto della sua sola forza morale, parlava dal balcone della piazza San Venceslao ancora circondata dalla polizia comunista, ad aver traghettato il suo paese dalla notte del totalitarismo sino "a casa, in Europa".
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Il dissidente liberale


di Timothy Garton Ash
 (la Repubblica, 19.12.2011)


MULINANDO le mani quasi fossero due eliche, Vaclav Havel attraversa nella sua andatura a piccoli passi rapidi il foyer rivestito di specchi del teatro Lanterna Magica, quartier generale della rivoluzione di velluto. Appena un po´ curvo, tarchiato, in jeans e felpa, si ferma, inizia a parlarmi di "importanti negoziati": neppure tre frasi ed è trascinato via.
Mi lancia un sorriso di scusa da sopra la spalla, quasi a dire "non posso farci niente". Spesso, parlando, aveva il tono ironico del critico teatrale che osserva lo spettacolo della vita ma lì, alla Lanterna Magica, nel 1989, divenne primo attore e regista di una pièce che cambiò la storia.


Havel è stato un personaggio chiave dell´Europa del tardo ventesimo secolo. Non era solo un dissidente, era l´epitome del dissidente, nell´accezione assunta da quel nuovo termine. Non è stato solo il leader di una rivoluzione di velluto, è stato il leader della madre di tutte le rivoluzioni di velluto, quella che ha dato il nome a tante altre proteste di massa non violente dal 1989 in poi. (Havel sottolineava sempre che il termine era stato coniato da un giornalista occidentale). Non è stato solo un presidente; è stato il presidente fondatore dell´attuale Repubblica Ceca. Non è stato solo un europeo; è stato un europeo che con l´eloquenza del drammaturgo e l´autorità del prigioniero politico ci rammentava la dimensione storica e morale del progetto europeo. Di fronte alle difficoltà in cui questo progetto versa oggi, non posso che invocare, parafrasando Wordsworth, "Havel! Tu dovresti vivere quest´ora: l´Europa ha bisogno di te".


Havel è stato anche una delle persone più affascinanti che io abbia mai conosciuto. Quando lo incontrai per la prima volta, all´inizio degli anni ´80, era appena uscito dal carcere dopo vari anni di prigionia. Parlammo nel suo appartamento lungo il fiume, con grandi tavoli ingombri di libri e una vista mozzafiato su Praga. Benché la polizia segreta comunista quantificasse il nucleo del movimento Charta 77 in qualche centinaia di attivisti, una stima probabilmente realistica, Havel sosteneva con sicurezza che il sostegno popolare silenzioso era in crescita. Un giorno le fiammelle delle candele avrebbero sciolto il ghiaccio. È importante ricordare che nessuno allora sapeva quando quel giorno sarebbe giunto. Arrivò solo sei anni dopo, ma avrebbero anche potuto essere ventidue, come è stato per Aung San Suu Kyi – della quale Havel sostenne a suo tempo la candidatura al premio Nobel per la pace, con grande altruismo, potendovi aspirare lui stesso.


L´onore del dissidente non è dato dalla corona del vincitore. Havel è stato l´epitome del dissidente perché ha proseguito la sua lotta con pazienza, in maniera non violenta, con dignità e arguzia, senza sapere se e quando la vittoria esterna sarebbe giunta. Il successo stava già in quella tenacia, nell´esercizio dell´"antipolitica" – ossia della politica come arte dell´impossibile. Nel frattempo analizzava il sistema comunista in saggi di grande profondità ma anche di grande concretezza, nonché nelle lettere inviate dal carcere alla sua prima moglie, Olga. Con l´emblematico verduraio de Il potere dei senza potere che decide un bel giorno di non esporre più il cartello "Proletari di tutto il mondo unitevi", Havel coglie la tesi fondante di ogni movimento di resistenza civile, ossia che anche i regimi più oppressivi dipendono in una qualche misura dalla remissività dei loro sudditi.


Quando ebbe occasione di praticare la resistenza civile in prima persona Havel le diede un´entusiasmante connotazione teatrale. Il palcoscenico era Piazza Venceslao a Praga: 300.000 interpreti, una sola voce, da far impallidire Cecil B. deMille. Nessuno dei presenti dimenticherà mai Havel e Aleksander Dubcek, l´eroe dell´89 e l´eroe del ´68, fianco a fianco, affacciati al balcone: «Dubcek-Havel! Dubcek-Havel!». Né il suono di 300.000 portachiavi fatti tintinnare come campanelle cinesi. Raramente una piccola minoranza ha saputo trasformarsi così rapidamente in una grande maggioranza. Possa accadere lo stesso presto in Birmania.


Ma la Cecoslovacchia – ancora era tale – ebbe il vantaggio di arrivare in ritardo alla festa del 1989. I polacchi, i tedeschi dell´Est e gli ungheresi avevano già fatto gran parte del lavoro, cogliendo l´opportunità offerta da Gorbaciov. Giunto a Praga, cercai Václav nel suo locale preferito e ironizzai sul fatto che in Polonia c´erano voluti dieci anni, in Ungheria dieci mesi, in Germania Est dieci settimane, forse da loro sarebbero bastati dieci giorni per uscire dal comunismo. Mi fece immediatamente ripetere la battuta davanti alle telecamere di un´emittente clandestina. Il caso volle che sette settimane dopo fosse presidente. Ricordo perfettamente che quando apparvero i primi distintivi artigianali con la scritta "Havel presidente", ne chiese educatamente uno allo studente che li vendeva.


«Il governo è tornato alla gente!», dichiarò nel 1990 nel discorso di inizio anno che tenne da capo dello Stato appena nominato, richiamando le parole del primo presidente della Cecoslovacchia, Tomas Garrigue Masaryk. Le prime settimane al Castello di Praga furono frenetiche, elettrizzanti, incoraggianti e caotiche. Mi mostrò quella che era stata un tempo la camera delle torture: «Credo che la useremo per i negoziati», disse. Ma arrivarono ben presto le difficoltà dell´ardua impresa di smantellare il comunismo. Tutti i veleni accumulati in oltre quarant´anni vennero a galla. Entrarono in scena politici più duri, come Václav Klaus. E spuntò il nazionalismo, slovacco e infine anche ceco. Havel lottò con tutta la sua eloquenza per tenere in piedi il sogno di Masaryk di una repubblica civica, multinazionale – ma invano.


Havel tornò da presidente fondatore dell´attuale Repubblica Ceca, emersa dal cosiddetto divorzio di velluto dalla Slovacchia. Reputava, a buon diritto, di dover presenziare a quella nascita. Penso che sia rimasto troppo a lungo nel ruolo. Il troppo stroppia. Con il peggiorare delle sue condizioni di salute era logorato dagli incessanti impegni di protocollo e dalle meschine rivalità interne e, col tempo, i suoi si erano stancati di lui.
Nel corso degli anni ´90 abbiamo discusso a distanza se fosse possibile essere attivi in politica mantenendo al contempo la propria indipendenza intellettuale. Lui sosteneva di sì. Ma ogni volta che ci vedevamo mi prometteva che, una volta lasciata la politica, avrebbe scritto un´opera teatrale sulla commedia di cui era stato spettatore di prima mano, sull´impotenza dei potenti.


Col passare degli anni ho iniziato a dubitare che l´avrebbe mai fatto. Ma ha mantenuto la promessa. Recentemente ha girato da regista Leaving – un film sulla perdita del potere e il desiderio di riacquistarlo, raccontato con la sua caratteristica ironia, con la seconda moglie, Dagmar, in un ruolo da protagonista.
Oggi, davvero troppo presto, Havel se ne è andato per sempre. Ma pochi ci hanno lasciato tanto valore in eredità.


(Traduzione di Emilia Benghi

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1

Il testamento politico dell´ex dissidente
Ecco cosa resta della mia rivoluzione




In questo articolo, pubblicato da Repubblica nel 2004, in occasione del quindicesimo anniversario della Rivoluzione di velluto di Praga, Vaclav Havel esprime le sue preoccupazioni per il destino della democrazia minata dalla globalizzazione

Le corporation globali, i cartelli dei media stanno trasformando i partiti in organizzazioni il cui compito è la protezione di determinate clientele e interessi particolari
La dimensione morale della politica e il coinvolgimento della società civile sono indispensabili per controbilanciare i partiti e le istituzioni di Stato
Libertà, eguaglianza e solidarietà, fondamenti stessi della stabilità e della prosperità delle democrazie occidentali, devono essere applicati a livello planetario
Sognammo un ordine internazionale più giusto Invece il processo di globalizzazione provoca scompigli economici e devastazione ecologica in molte aree del pianeta


di Vaclav Havel (la Repubblica, 19.12.2011)


Dopo la Rivoluzione di velluto del 17 novembre 1989, che pose fine a 41 anni di dittatura comunista in Cecoslovacchia, oggi viviamo in una società democratica. Eppure sono in molti - e non soltanto nella Repubblica ceca - a credere ancora adesso di non essere i veri padroni del proprio destino, ad aver perso la fiducia di poter influenzare effettivamente gli sviluppi politici, tanto meno influenzare la direzione nella quale si sta avviando la nostra civiltà.


In epoca comunista la maggior parte delle persone credeva che gli sforzi individuali miranti a indurre un cambiamento non avessero senso. I leader comunisti sostenevano che il sistema fosse il risultato di leggi storiche oggettive e incontestabili che non potevano in alcun modo essere messe in discussione, e tutti coloro che rifiutavano questa logica erano puniti, giusto per sicurezza.


Purtroppo, il modo di pensare che aveva sorretto la dittatura comunista non si è dissolto interamente: alcuni politici e alcuni sapientoni affermano ora che il Comunismo è semplicemente crollato sotto il proprio stesso peso - dunque piegandosi, ancora una volta, alle «leggi incontestabili» della Storia.


Ancora una volta, perciò, la responsabilità e le azioni del singolo individuo ne escono del tutto irrilevanti. Il Comunismo - così ci è stato detto, in sostanza - è stato soltanto uno dei vicoli ciechi del razionalismo occidentale: bastava attendere passivamente che venisse meno da solo.


Le medesime persone credono spesso in altre manifestazioni dell´ineluttabilità, per esempio in presunte leggi di mercato, in altre «mani invisibili» che dirigono il corso della nostra vita. Poiché in questo tipo di ragionamento non vi è spazio alcuno per l´azione morale dell´individuo, spesso chi critica la società è deriso alla stregua di un ingenuo moralista o di un élitista.


Forse questo è uno dei motivi che spiega, a tanti anni di distanza dalla caduta del Comunismo, perché ancor oggi assistiamo a un´apatia politica. Sempre più spesso la democrazia è ritenuta un puro e semplice rituale. In linea generale, tutte le società occidentali stanno sperimentando - così pare, almeno - una certa seria mancanza di ethos democratico e di partecipazione attiva della cittadinanza.


È anche possibile che ciò cui stiamo assistendo sia una mera trasformazione paradigmatica, provocata dalle nuove tecnologie, e che pertanto non vi sia motivo di preoccupazione. Forse, però, il problema ha radici più profonde: le corporation globali, i cartelli dei mezzi di informazione, i potenti apparati burocratici stanno trasformando i partiti politici in organizzazioni il cui compito principale non è più il servizio pubblico, bensì la protezione di determinate clientele e interessi particolari. La politica sta diventano il terreno di battaglia dei lobbisti; i media banalizzano i problemi più seri; la democrazia spesso sembra più un gioco virtuale per consumatori che una seria attività per cittadini impegnati.


Quando sognavamo un futuro democratico noi, che all´epoca eravamo dissidenti, sicuramente nutrivamo alcune illusioni utopistiche di cui oggi siamo più che consapevoli. Tuttavia, non ci sbagliavamo quando affermavamo che il Comunismo non era soltanto un vicolo cieco del razionalismo occidentale. Nel sistema comunista la burocratizzazione, la manipolazione anonima, l´enfasi sul conformismo di massa arrivarono a un livello di «perfezione», ma alcune di queste stesse minacce sono tuttora presenti tra noi.


Già allora eravamo convinti che se la democrazia è svuotata di valori, se si riduce a mera rivalità tra partiti politici che hanno soluzioni «garantite» per qualsiasi problema, di fatto non si tratta più di democrazia. Ecco la ragione per la quale abbiamo voluto dare un´enfasi tutta particolare alla dimensione morale della politica e al coinvolgimento della società civile, due elementi indispensabili per controbilanciare i partiti politici e le istituzioni dello Stato.


Sognammo anche qualcosa di più: un ordine internazionale più giusto. La fine del mondo bipolare rappresentò la grande occasione di rendere più umano l´ordine internazionale. Invece, abbiamo assistito a un processo di globalizzazione economica che è andato sfuggendo al controllo politico e che, in quanto tale, sta provocando scompigli economici e devastazione ecologica in molte aree del pianeta.


La caduta del Comunismo ha offerto l´opportunità di creare istituzioni politiche globali più efficienti, che avessero le loro premesse nei principi democratici, e fossero in grado di arginare quella che nella sua forma attuale appare una tendenza autodistruttiva del nostro mondo industriale.


Se non intendiamo essere travolti da forze sconosciute, i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà - fondamenti stessi della stabilità e della prosperità delle democrazie occidentali - devono iniziare a essere applicati a livello planetario. Cosa ancor più importante, oggi è indispensabile, come già in epoca comunista, non perdere fiducia nell´importanza dei centri alternativi di pensiero e di azione civile. Non dobbiamo consentire di essere manipolati al punto da essere indotti a credere che i tentativi di cambiare l´ordine «costituito» e le leggi «incontestabili» non hanno importanza. Cerchiamo piuttosto di realizzare una società civile a livello globale, e ricordiamoci di insistere su un punto: la politica non è soltanto l´aspetto tecnologico del potere. La politica deve avere una dimensione morale.


Al tempo stesso, i politici dei Paesi democratici devono riflettere seriamente sulla riforma delle istituzioni internazionali, perché abbiamo disperatamente bisogno di istituzioni in grado di occuparsi di una vera governance globale.


Potremmo iniziare, per esempio, dalle Nazioni Unite che nella loro forma attuale sono soltanto la reliquia di una situazione risalente alla fine della Seconda guerra mondiale. Questa istituzione non riflette adeguatamente l´influenza e il peso di alcune nuove potenze regionali, mentre mette immoralmente sullo stesso piano Paesi i cui rappresentati sono stati democraticamente eletti e Paesi i cui rappresentanti parlano soltanto per sé stessi o, quanto meno, per le loro giunte.


A noi europei spetta un incarico del tutto particolare. La civiltà industriale che ora si estende a tutto il mondo, ebbe le sue origini in Europa. Tutti i miracoli che essa rende possibile, così come tutte le terribili contraddizioni che essa comporta, possono essere considerati il frutto di un ethos che in origine è stato europeo. Perciò, l´unificazione dell´Europa deve essere di esempio al resto del mondo, deve dimostrare come far fronte ai vari pericoli e alle barbarie di cui oggi siamo preda.


In realtà, una simile missione - strettamente correlata al successo dell´integrazione europea - costituirebbe l´effettiva concretizzazione del senso europeo di responsabilità globale, e senza alcun dubbio rappresenterebbe una strategia migliore rispetto a quella di limitarsi a stigmatizzare l´America per i problemi che affliggono il mondo contemporaneo. 



Lunedì 19 Dicembre,2011 Ore: 12:04
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/12/2011 12.36
Titolo:Vaclav Havel l’eroe di Praga che sognava l’Europa ...
La Storia si leva il cappello

Addio Vaclav Havel l’eroe di Praga che sognava l’Europa

Da scrittore detenuto a capo di Stato. Guidò la rivoluzione di velluto

di Paolo Soldini (l’Unità, 19.12.2011)

Chi ha conosciuto e amato Praga fra il 21 agosto del 1968 e il 17 novembre del 1989 conosce e ama Vaclav Havel in un modo tutto speciale. Anche se magari non lo ha incontrato, non lo ha sentito parlare, forse non ha neppure letto le sue poesie o i suoi drammi.


Il fatto è che in quei ventuno anni, l’età di un ragazzo che arriva all’età adulta, Praga e Havel hanno vissuto la stessa storia con gli stessi dolori, le stesse inadeguatezze, le stesse irrequietudini e speranze.

La città sembrava addormentata nelle cupezze del tardo comunismo di Gustav Husak e della nomenklatura che si vendicava della Primavera del ’68. Ma se appena appena si grattava la superficie, se si percorrevano, certe sere d’estate, i vicoli della città vecchia o le salite di Mala Strana, ci si accorgeva che sotto la morta bellezza dell’antica capitale brulicava la vita.

Nei teatrini improvvisati e un po’ clandestini, nelle vinarne alla moda e nelle birrerie da vecchi ubriaconi, nelle sale da concerto, in tante case private dove si invitavano anche gli sconosciuti e gli stranieri, e se magari si intrufolava qualche spia, pazienza. Si incontravano poeti, ingegneri e rockettari. Scrittori pubblicati solo in Germania e in Austria, economisti che lavoravano in fabbrica, filosofi che coltivavano di nascosto i rapporti con la scuola di Francoforte, attori cui era proibito recitare roba “seria” e ragazzi che sapevano dei Rolling Stones e di Frank Zappa.

Il primo clamoroso episodio di dissidenza avvenne nel ’76, quando molti intellettuali Havel era fra loro protestarono in difesa di un gruppo rock, i Plastic People emuli dei Velvet Underground di Lou Reed. Praga non era morta: era una grande città europea tagliata fuori dall’Europa.

Questa separatezza, costretta a scivolare nella genialità per non diventare pazzia e disperazione, fu il ventre nel quale visse, in quegli anni, Havel. «Nemico del popolo» per il solo fatto di essere nato in una famiglia borghese e, forse, un poco tedeschizzante. Escluso dalle scuole superiori e dall’università che lui avrebbe voluto. Scrittore non pubblicabile, drammaturgo senza scena, costretto a fare il macchinista per frequentare un teatro, il Na Zabradlì (Alla Ringhiera) in perenne sospetto di eresia.

Dopo la breve illusione con Dubcek, quando avrebbe voluto fondare un partito da affiancare ai comunisti sul versante democratico, bollato come dissidente per così dire “ufficiale”, e in quanto tale arrestato più volte, costretto in una detenzione tanto dura da provocargli l’infezione respiratoria che si sarebbe portato fino alla morte. Insomma: un uomo represso e prigioniero, come la sua Cecoslovacchia “normalizzata” dalle truppe del Patto di Varsavia e dalle durezze brezneviane.

E però liberissimo. Neppure nei momenti peggiori, il regime riuscì a soffocarne la voce e la presenza. A metà degli anni 70, Havel, poco più che quarantenne, era conosciuto nella sua patria più di qualsiasi esponente della nomenklatura. Ed era famoso anche all’estero, dove il movimento di Charta ‘77, creatura di cui era stato il padre più famoso, diventò presto il referente di ogni speranza di riforma democratica nell’allora impero sovietico. Per la sua liberazione, dopo l’ennesimo arresto e una pericolosa condanna, si mobilitò, in Europa occidentale, un fronte di intellettuali e di politici ampio come non si era mai visto.

Era tanto popolare, Havel, e tanto rispettata e ammirata era Charta ‘77 perché si intuiva che l’obiettivo dell’uomo e del movimento era rompere la separatezza di Praga, della Cecoslovacchia, di tutti i Paesi centro-orientali da quell’insieme di storia, culture, tradizioni, lingue, abitudini, gusti, senso comune che fanno quello che chiamiamo Europa.

La vera “normalizzazione” non era l’oscena pretesa con cui era stata schiacciata in Cecoslovacchia la speranza del ’68, ma, per così dire, una normalizzazione senza virgolette: il ritorno alla normalità, il superamento della rottura provocata dagli orrori della guerra, la ricomposizione del continente in una verità nella quale non si dovesse più, come i popoli dell’est erano stati costretti a fare, «vivere nella menzogna».

L’idea dell’unità europea, nell’ambito di una più ampia unità occidentale in cui un ruolo importante è riconosciuto agli Usa, è stato il vero fil rouge della sua politica, ha fatto tutt’uno con la resistenza all’arbitrio della dittatura, con la battaglia per la democrazia e il rispetto dei diritti civili e umani, in un ripudio non solo del comunismo, ma anche del nazionalismo e delle insidie delle pretese “radici” affondate in egoismi colorati di etnìa.

Il momento più triste, nella vita di Havel dopo la conquista della libertà, fu il 1993, l’anno della separazione tra la Repubblica cèca e la Slovacchia, separazione che lui, da presidente della Cecoslovacchia, non voleva e che giudicò un vile cedimento a ragioni della Storia che lui non condivideva: il sovvertimento di una unità voluta soprattutto, dopo la prima guerra mondiale, per tenere a bada le minoranze, tedesca in Boemia e ungherese in Slovacchia. Come se la storia dell’Europa non avesse insegnato, specie proprio da quelle parti, la ricchezza delle diversità.

Ebbe questo segno la ricomposizione, il «ritorno in Europa» oltre che la conquista delle libertà democratiche, il momento della liberazione dal regime, nell’autunno dell’89, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino.

Va detto che, come lui stesso ammise, Havel fu còlto di sorpresa dagli eventi. La grande manifestazione che il 17 novembre a Praga dette il via alla Rivoluzione di velluto rompeva un po’ lo schema, più “politico”, con cui gli uomini di Charta ‘77 avevano immaginato il percorso dalla dittatura alla democrazia. E però la saldatura fu immediata.

Gli slogan degli studenti che il 17 novembre partirono dall’Università Carlo e conquistarono la città coniugavano il ripudio del regime con la speranza che ci fosse già un’alternativa. «I dittatori sono al Castello» gridavano all’inizio, indicando la collina di Hradcany dove avevano sede le autorità dello stato e del partito e lo slogan presto diventò: «Havel al Castello».

Da quel momento la vicenda dell’uomo che nelle sue opere per il teatro aveva portato le ragioni della dignità individuale, è diventata la storia. Poco più di un mese dopo la rivoluzione Havel viene insediato alla presidenza, con l’assenso del partito comunista, dal governo provvisorio. L’anno successivo viene confermato dalle prime elezioni libere e resterà quasi ininterrottamente presidente della Cecoslovacchia e poi della Repubblica cèca fino al 2003.

Con il suo vezzo di non prendere troppo sul serio la sua propria vita così tremendamente seria, dalle durezze del carcere ai tormenti della malattia che lo ha tenuto per anni sul filo della morte, Havel negli ultimi anni si raccontava come una specie di dilettante della politica e della vita pubblica: «Metto il naso dappertutto diceva ma in realtà non so fare quasi nulla: talvolta mi occupo di filosofia ma non sono un filosofo; scrivo di letteratura ma non sono un critico e non parliamo del mio senso musicale, che fa ridere. In fondo non sono un vero esperto neppure in quello che considero il mio mestiere: scrivere per il teatro». Simpatica manifestazione di modestia tipica dell’uomo che però una cosa sicuramente l’ha fatta molto bene: la politica, nel senso più alto e profondo.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 20/12/2011 18.12
Titolo:Addio a Havel ...
Addio a Havel

Un poeta sul palcoscenico dell’anticomunismo

di Piero Benetazzo (il Fatto, 20.12.2011)

Era entrato al mitico Castello con il passo felpato del mimo, trascinandosi dietro rockettari, Franz Zappa, una banda di amici sgualciti con cui aveva condiviso galera, birrerie, speranze e paure. La “rivoluzione di velluto” di Vaclav Havel fu certamente la più straordinaria di quelle rivolte popolari che in pochi mesi abbatterono, nel 1989, i regimi comunisti in tutto l'Est: la più breve, del tutto indolore guidata da uno scrittore che sedeva sul palcoscenico di un teatro, “Lanterna magica”, in una nuvola di fumo, di strepiti, di sudore. Lui, Havel, da poco uscito di prigione, lanciava da quel palcoscenico i suoi slogan, dettava le sue condizioni a un regime ormai allo stremo ed era affascinante vedere come la società si armonizzasse velocemente con le sue parole d'ordine, che descrivevano il comunismo come un “grande inganno”, ansiosa quindi di recuperare se stessa, la sua identità e la sua cultura.

Poche settimane dopo era già al Castello. Spesso ne percorreva i corridoi e le solenni stanze in monopattino per smitizzare - diceva - la paura delle istituzioni, riavvicinarle alle gente, convincerla a uscire dall'apatia. Vaclav Havel era nato in una famiglia molto ricca in quella borghesia che il regime comunista considerava il suo più acerrimo nemico.

Era dunque un cittadino di “secondo ordine” senza diritti all'istruzione, seguito spesso dalla polizia, isolato. Lo stato si ricordò di lui solo per costringerlo al servizio militare e, proprio in casema, egli scoprì e coltivò la sua passione per la scrittura e soprattutto per il teatro, il luogo più tradizionale delle opposizioni ceche ai soprusi della storia (nei teatri si difese l'identita nazionale sia sotto gli Asburgo che durante la “normalizzazione” stalinista).

In uno dei suoi lavori più conosciuti descriveva come la tortuosa lingua della burocrazia comunista avesse tolto ogni vero significato alle parole, istupidendo l'individuo, privandolo della sua identità.

Coniugare morale e politica: era questo il suo messaggio continuo e battente, risollevando quella bandiera (“pravda vitezi”, la verità vince) già di Giovanni Hus (bruciato sul rogo come eretico) e di Thomas Masaryk, il primo Presidente della Repubblica cecoslovacca. Ma quando i suoi lavori cominciavano a entrare nei teatri, l'invasione delle truppe sovietiche schiacciò la “primavera di Praga”. Era la fine del tentativo, guidato da Alexander Dubcek, di coniugare socialismo e democrazia e della speranza che il comunismo fosse in grado di rinnovare se stesso.

Quella che veniva considerata una battaglia per la libertà e l'identità nazionale si trasferì dal partito alla società civile e Vaclav Havel ne fu l'interprete intransigente e coraggioso: fu tra i fondatori di Charta 77 il manifesto delle libertà civili, punto di riferimento di tutti i dissidenti dell'Est e che Havel, nonostante le pressioni poliziesche, continuò sempre a difendere e a diffondere.

Per anni, entrava ed usciva di galera, ma continuava imperterrito a dare interviste a ricevere i giornalisti occidentali nella sua casa in riva alla Vltava, del tutto indifferente alla minacciosa sorveglianza delle macchine della polizia. Si parlava e si dibatteva spesso in cucina, come con tutti gli altri dissidenti, un ambiente che forse suggeriva intimità e protezione, stemperava le tensioni.

E così - come amava ironizzare - dalla cucina salì al Castello. Vi è rimasto quasi 14 anni, un tempo forse troppo lungo che ha reso più fragile e discutibile il bilancio della sua Presidenza. Egli stesso scriveva della sua delusione per la grande apatia della società che usciva dal comunismo, una società “minata da una cieca esplosione di ogni immaginabile vizio umano”. Ed era impaziente, innervosito, dalla resistenza che incontrava il suo messaggio di riscatto morale per uscire dall'"immoralità del comunismo”.

I suoi critici lo hanno sempre accusato di “dilettantismo”. Vaclav Havel è rimasto a lungo alla Presidenza, ha ancorato il suo paese all'Europa e al mondo occidentale, ma si è anch'egli impigliato nei piccoli e grandi cinismi del potere. In particolare molti gli rimproverano di aver accettato - dopo aver minacciato le dimissioni - la divisione del paese dalla Slovacchia, ma soprattutto di aver voluto una legge criticata anche dalle organizzazioni umanitarie: la ha chiamata lustarace e impedisce l'ingresso in politica di chiunque abbia avuto un ruolo dirigente nel partito comunista.

La legge ha duramente punito, in particolare, quel mezzo milione di persone che non si erano piegate, avevano rifiutato di accettare l'invasione sovietica, erano state espulse e ora riemergevano, dopo un ventennio, dai cantieri della metropolitana, dalle miniere, dai portierati di notte. Nemmeno Alexander Dubcek avrebbe potuto rientrare in politica. Forse per ragioni ideologiche ha privato un paese confuso di questo forte e raro messaggio di coraggio e resistenza. Poi sono venute le liti famigliari sulle proprietà recuperate, il matrimonio con una giovane attricetta, le piccole miserie quotidiane. La sua popolarità era un po’ svanita, ma il suo messaggio sul primato della morale sulla politica resta sempre forte e urgente.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 23/12/2011 17.21
Titolo:Praga dice addio a Vaclav Havel, città in silenzio per il presidente
Praga dice addio a Vaclav Havel

città in silenzio per il presidente

Ventun colpi di cannone sono stati sparati dalla collina di Petrin di fronte al castello, per salutare l'uomo che traghettò la Cecoslovacchia fuori dal comunismo. Il corpo sarà cremato e le ceneri deposte nella tomba di famiglia dopo natale. Papa Benedetto XVI: "Leader visionario, padre di democrazia" *


PRAGA - Con le bandiere a mezz'asta in segno di lutto nazionale, un minuto di silenzio e le campane del paese che l'arcivescovo Dominik Duka ha ordinato suonino a lutto, Praga oggi dice addio a Vaclav Havel, primo presidente della Cecoslovacchia post-comunista e protagonista della "rivoluzione di velluto" del 1989. L'ex dissidente diventato capo di Stato è morto nel sonno domenica scorsa a 75 anni 1, nella sua casa di campagna a Hradecek, 150 chilometri a nord-est dalle capitale.



In questi giorni migliaia di persone si sono messe in fila per rendergli omaggio nella camera ardente allestita nella sala Vladislas del castello di Praga. Il feretro oggi è stato trasferito per i funerali solenni nella cattedrale di San Vito al castello, per secoli teatro dell'incoronazione dei re di Boemia. Ventun colpi di cannone sono stati sparati dalla collina di Petrin, di fronte al castello, per salutare il drammaturgo dissidente, l'uomo che ha traghettato la Cecoslovacchia fuori dal comunismo.

Anche Papa Benedetto XVI ha mandato un telegramma di cordoglio per rendere omaggio all'ex presidente: "Ricordando quanto coraggiosamente Havel difese i diritti umani in un tempo in cui erano sistematicamente
negati al popolo della vostra nazione, e rendendo tributo alla sua visionaria leadership nel forgiare una nuova politica democratica dopo la caduta del precedente regime, ringrazio Dio per la libertà di cui ora gode il popolo della Repubblica Ceca", ha scritto il pontefice al presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, "mi unisco a coloro che si sono raccolti nella cattedrale di San Vito per il solenne rito funebre, affidando l'anima del deceduto all'infinita misericordia del nostro Padre celeste".

All'ultimo saluto sono arrivati molti leader internazionali 3. Dalla Francia il presidente Nicolas Sarkozy, con ll celebre attore Alain Delon che negli anni si era incontrato con Havel più volte ed era lui a definire Dagmar Havlova, attrice e moglie di Havel, "la più bella primadonna nel mondo". Dagli Usa sono arrivati il segretario di Stato Usa Hillary Clinton con il marito Bill e l'ex segretario di Stato americano Madeleine Albright. Dalla Gran Bretagna il premier David Cameron, e per l'Italia il presidente della Camera Gianfranco Fini. Ai funerali anche il presidente della Commissione europea Josè Barroso, e i presidenti di Germania, Austria, Slovenia, Georgia, Slovacchia, Lituania ed Estonia.

La messa di requiem è stata celebrata da monsignor Duka e dal vescovo ausiliario di Praga Vaclav Maly, entrambi prigionieri politici sotto il regime comunista, crollato con la rivoluzione di velluto guidata proprio da Havel, a fine 1989. Solo dopo natale, invece, le ceneri del presidente-dissidente saranno deposte nella tomba di famiglia nel cimitero di Vinohrady.

* la Repubblica, 23 dicembre 2011
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 14/2/2012 20.11
Titolo:Verità e libertà interiore. Vaclav Havel lascia un vuoto ...
Verità e libertà interiore

di Gaston Piétri, prete della diocesi di Ajaccio

in “La Croix” dell’11 febbraio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

Vaclav Havel lascia un vuoto che va al di là dell’eco suscitato nell’opinione pubblica dalla sua scomparsa. Lui stesso diceva, al tempo della sua dissidenza, che era con i suoi compagni in una “zona grigia”, cioè in una zona in cui le azioni da fare non erano affatto evidenti. Non era da parte sua mancanza di coraggio, ma preoccupazione fondamentale di preservare con il suo modo di resistenza non violento i valori stessi che davano senso alla sua lotta. Charta 77 si basava infatti su un’opzione etica, la cui radicalità può ancora oggi sconcertare coloro che pensano che la politica non abbia altra molla che il realismo.

Dov’è infatti la realtà più sicura? Nella linea di Martin Luther King e Nelson Mandela, è il “potere dei senza-potere” che Vaclav Havel e i suoi amici hanno voluto risvegliare. Sorprendente potere quello, che, escludendo la violenza, scommette sulla sola forza della verità per far vacillare il regno della menzogna eretto a istituzione. Una realtà che sfugge a coloro che il denaro e la forza delle armi hanno conquistato al loro potere.

Vaclav Havel voleva aprire una breccia e, attraverso quella, rifondare la politica. Mentre quella ha come scopo di forgiare la storia, il totalitarismo stava al contrario congelando la storia. Havel racconta che, diventato presidente, è entrato in un palazzo in cui non ha trovato neanche un orologio.

Strana assenza e terribile lezione questo simbolo: “Per lunghi anni, non c’è stato bisogno di guardare l’ora perché, per molto tempo, il tempo si era fermato. La storia si era interrotta.” Le certezze non erano mancate, al contrario. È la prova che, da sole, non bastano e che, perfino, possono trasformarsi in peggio. Delle certezze di cemento armato, suscettibili di essere imposte agli altri se le circostanze ce ne dessero il potere, non potrebbero essere, ancora oggi, il rimedio infallibile alla miseria spirituale delle nostre società. Tanto più che, secondo l’espressione del Vaticano II, “la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore (1)”.

Certezze che pretendono di “fermare il tempo”, come scrive Havel, non hanno, per i credenti, alcuna chance di testimoniare il Dio che è entrato nel corso del tempo. È in questo tempo, con i suoi limiti e le sue opportunità, che Di si fa conoscere a coloro che accettano di essere i suoi compagni come artigiani della storia. La storia si scrive a partire dalle contingenze che, a volte, hanno a che fare con l’imprevedibile. Sono loro che chiedono la capacità di inventare e di innovare, mentre l’obbedienza al potere può limitarsi alla docilità statica.

Oggi, preoccupati nel vedere tanti spiriti senza bussola e senza punti di riferimento, potremmo dubitare della pertinenza delle parole di Vaclav Havel quando se la prende col “corto circuito del pensiero” rappresentato “dalla verità già completa e confezionata sotto forma di ideologia o di dottrina”. Se la prende con coloro che vorrebbero “togliere dalle spalle degli uomini il loro fardello di problemi incessanti (2)”. Le “risposte confezionate” contribuiscono ad anestetizzare nello spirito e nel cuore dell’uomo quella libertà interiore che la Buona Notizia di Cristo vuole promuovere.

Il messaggio di Vaclav Havel, indipendentemente dalla sua posizione personale nei confronti della fede cristiana, rimane ancora oggi uno stimolo per coloro che, a causa del Vangelo, cercano di servire la verità scommettendo sulla libertà interiore di ogni uomo. Non c’è evangelizzazione là dove non si accresce la libertà interiore.

L’esperienza del periodo successivo alla liberazione ha mostrato a questo resistente diventato responsabile politico che la libertà ritrovata non è così facile da vivere come si potrebbe sperare.

Infatti, ci dice Havel, l’uomo uscito da quella specie di prigione, dove non aveva più nulla da intraprendere e ancor meno da inventare, viene “preso da indecisione”. Sperimenta la “mancanza di sicurezza”, in fondo “desidererebbe ritornare là dove c’erano muri e limiti”. Lo salverà solo la libertà interiore, da scoprire o da riscoprire. La falsa tranquillità delle “verità ufficiali” lo preservava da questa ricerca.

Ma alla libertà interiore nuocciono anche le false libertà che permettono di errare senza scopo in una vita dove una cosa vale l’altra, dove le mode più effimere dettano legge. Perché, a sua volta, questo tranquillo asservimento, pur diverso, è il contrario della libertà interiore dell’uomo in ricerca di una verità che fa vivere.

(1) Dichiarazione sulla libertà religiosa, n° 1
(2) Essais politiques, Calmann-Lévy, 1994.

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