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www.ildialogo.org IL MAGGIORASCATO! IL GIOVANE MARX, LO "SCORPIONE E FELICE", E "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO. Una nota di Michele Serra e alcune pagine dal romanzo umoristico e satirico di Marx - con una premessa,a c. di Federico La Sala

KARL MARX E LA CRITICA DELL'ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA. "Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo (...)" (K. Marx, "Scorpione e Felice").
IL MAGGIORASCATO! IL GIOVANE MARX, LO "SCORPIONE E FELICE", E "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO. Una nota di Michele Serra e alcune pagine dal romanzo umoristico e satirico di Marx - con una premessa

Ovvio che i sacerdoti del marxismo, nella loro esegesi, non abbiano mai tenuto in gran conto il giudizio (non neutrale ma molto partecipe) che la figlia Eleanor diede del padre Karl Marx: «Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini».


a c. di Federico La Sala

 Premessa sul tema (cliccare sul tittolo per leggere il testo):


Karl prima di Marx

«Proletari di tutto il mondo divertitevi!»

Il romanzo del rivoluzionario da giovane

-  Materialismo comico e socialismo surreale

-  di Michele Serra (la Repubblica, 01.05.2011)

Aveva diciannove anni e odiava le convenzioni: per questo scrisse un breve romanzo satirico in cui si faceva beffe di borghesi, aristocratici e intellettuali. Era un ragazzo molto diverso dall’uomo che avrebbe scritto "Il Capitale" e dalla figura severa tramandata dall’ortodossia. Ora quel libro viene ripubblicato con le vignette disegnate dall’amico di una vita, Friedrich Engels

Quando, nel 1929, venne alla luce Scorpione e Felice, abbozzo di romanzo umoristico scritto dal diciannovenne Karl Marx quasi un secolo prima, le varie accademie del realismo socialista non ne furono certo entusiaste.

D’accordo, si trattava di trenta paginette scritte da uno studente vivace e irriverente (un Marx non ancora marxista...). Quasi uno scherzo letterario, dedicato al padre e in seguito tenuto in pochissimo conto anche dal suo autore.

Ma che il fondatore del "socialismo scientifico" avesse esordito con un testo così sideralmente distante dai dogmi ingessati che il futuro clero comunista avrebbe edificato sulle (alle) sue spalle, non era una sorpresa di poco conto.

Forse anche per questa inclassificabilità - oltre che per l’esilità letteraria - Scorpione e Felice ebbe una vita editoriale molto in sordina. Eccezion fatta per l’Italia, dove questa curiosa operina ora esce per Editori Riuniti, corredata dai disegni satirici del sodale Friedrich Engels, da una nota di Claudio Magris (scritta per il Corriere della sera nel 1968) e da una bella prefazione di Gabriele Pedullà.

Che ci introduce nel clima letterario e culturale della Germania della prima metà dell’Ottocento: le irrequietudini romantiche, il rifiuto del classicismo, l’enorme popolarità di Sterne e del suo Tristram Shandy.

Proprio di Sterne il giovane Marx è un convinto epigono quando prende a scrivere il suo tentativo di romanzo parodistico, anzi di parodia del romanzo, puntando sulla destrutturazione dei luoghi comuni narrativi e sul continuo auto-stravolgimento della trama, che saltabecca da una situazione a un’altra, da un personaggio all’altro, facendosi beffe della compiutezza formale del romanzo classico.

Quasi surrealisticamente, tanto che Pedullà, nella sua prefazione, fa notare che nel vastissimo e variegato mondo della cultura comunista novecentesca, solo Breton e i surrealisti sarebbero stati in grado di apprezzare quello scritto marxiano tanto anomalo e inatteso.

Per il lettore moderno è molto difficile cogliere i riferimenti satirici al mondo politico-culturale dell’epoca: la satira ha quasi sempre un’alta deperibilità perché i modelli che cita e stravolge si sono nel frattempo estinti, o consumati.

Si coglie bene, invece, lo spirito beffardo, anti-accademico, con il quale il ragazzo Marx mette in scena la sua storia strampalata e inconclusa. Si va dalla parodia della pomposità accademica (sull’etimologia di un nome l’autore spende tre noiosissime pagine, facendo il verso alla pedanteria di chissà quale professorone dell’epoca), alla demolizione quasi goliardica del sentimentalismo.

In certi passaggi quasi si indovina nell’autore il futuro Marx "ufficiale", lo svelatore della struttura economica e sociale come motore primo (e spesso occulto) delle idee e dei comportamenti umani (la sovrastruttura). Accade quando i personaggi provano sentimenti che l’autore, perfidamente, attribuisce subito dopo a disturbi corporei o intoppi comunque fisici, divertendosi a ricondurre alla carne vile quegli ideali e quelle passioni che allora (e non solamente allora) la letteratura descriveva come spirituali, eteree.

Fino alla scenetta finale, nella quale si pratica un clistere al cane Bonifacio (chiamato San Bonifacio dal religiosissimo padrone) e si stabilisce - sono le ultime parole del libro - un collegamento tra «ostruzione intestinale del cane e profondità delle idee», beffa anti-idealista che al giovane Karl dovette sembrare impagabile.

Testo a parte, è evidente che l’importanza di Scorpione e Felice sta soprattutto nello stridente contrasto tra l’icona severa e incombente del Padre Marx, sorta di nume barbuto per qualche generazione di uomini e donne di ogni parte del mondo, e il concetto stesso di umorismo.

Pedullà fa notare che il forse più insigne tra i critici letterari marxisti di tutti i tempi, Lukacs, deprezzò Sterne e il Tristram Shandy mano a mano che consolidava il suo lavoro sul realismo socialista come probabile ritorno alla "totalità umana" dei classici. Come se - detto in parole semplici - l’umorismo non fosse all’altezza della serietà dell’impegno politico, né fosse in grado, procedendo per frammenti, per rotture di schemi, di dare dell’umanità una visione "totale".

È in parte vero: alla base dell’umorismo c’è il senso del limite, che nelle sue varie espressioni (da una parte il pudore, all’altro estremo il cinismo) suggerisce di non cedere ad alcun tipo di "totalità".

Eppure Heinrich Heine, poeta romantico tedesco molto amato e frequentato da Karl Marx, vedeva in Sterne «un umorismo assoluto, nel quale si fondono sublime e ridicolo». Sublime e ridicolo, le due facce della medaglia umana, come in un successivo e fortunato aforisma (forse di Karl Kraus) viene detto anche meglio: il comico è solo il tragico visto di spalle.

E in fin dei conti, anche se il Marx apprendista satirico fu, come emulo di Sterne, molto approssimativo e svogliato, sapere che esordì come umorista lo risarcisce, almeno in parte, dell’uso super-strutturato che i suoi emuli fecero del suo pensiero, ossificandolo in precetti para-religiosi che avrebbero trovato degna parodia in Scorpione e Felice. È destino, peraltro, di molti culti umani vedere il fondatore trasfigurato in idolo, e un clero trasformare, nei secoli, l’energia intellettuale degli inizi in una cupa costruzione dogmatica - cioè in puro potere.

Ovvio che i sacerdoti del marxismo, nella loro esegesi, non abbiano mai tenuto in gran conto il giudizio (non neutrale ma molto partecipe) che la figlia Eleanor diede del padre Karl Marx: «Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini». Se non un quinto fratello Marx (ad honorem), certo non un minaccioso pontefice.


Destra e sinistra non sappiamo dove sono

di Karl Marx (la Repubblica, 01.05.2011)

Manca la definizione, la definizione. Chi potrà definirla, chi potrà esaminare quale sia la parte destra e quale la sinistra? E tu dimmi, mortale, da dove viene il vento, oppure se sul volto di Dio c’è un naso, e io ti dirò che cos’è destra e che cos’è sinistra. Null’altro che concetti relativi, è come bersi la follia, la furiosa pazzia, insieme alla saggezza!

Oh! Vano è ogni nostro sforzo, illusione è la nostra nostalgia, fino a che non avremo penetrato che cos’è destra e che cos’è sinistra, giacché a sinistra metterà i capri, a destra invece gli agnelli. Se si gira, se prende un’altra direzione, poiché di notte ha fatto un sogno, allora i capri staranno a destra e i devoti a sinistra, secondo le nostre misere vedute. Perciò definiscimi che cos’è destra e che cos’è sinistra, e l’intero nodo della creazione sarà sciolto, Acheronta movebo, dedurrò con precisione dove andrà a stare la tua anima, da questo concluderò inoltre su quale livello tu sei ora, poiché quel rapporto originario apparirebbe misurabile, in quanto la tua posizione sarebbe determinata dal Signore.

Ma il tuo posto quaggiù può essere misurato secondo lo spessore del tuo capo, mi gira la testa, se comparisse un Mefistofele, diventerei Faust, poiché è chiaro che tutti noi, tutti siamo un Faust, in quanto non sappiamo quale parte sia la destra, quale la sinistra, la nostra vita è perciò un circo, corriamo tutt’intorno, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo sulla sabbia e il gladiatore, la vita appunto, ci uccide, dobbiamo avere un nuovo redentore, poiché - tormentoso pensiero, tu mi rubi il sonno, mi rubi la salute, tu mi uccidi - non possiamo distinguere la parte sinistra dalla destra, non sappiamo dove si trovano...

Lotta di classe

Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo che, affastellando pensieri su pensieri, illuminò il mio sguardo e apparve davanti ai miei occhi una configurazione luminosa.

Il maggiorascato è la lisciviatrice dell’aristocrazia, poiché una lisciviatrice serve solo per lavare. Ma il lavaggio sbianca, dando così una pallida lucentezza al bucato. Allo stesso modo il maggiorascato inargenta il figlio primogenito della casa, dandogli così un pallido color argento, mentre agli altri membri imprime il pallido colore romantico della miseria.

Chi fa il bagno nei fiumi, si getta contro l’elemento scrosciante, combatte la sua furia e lotta con braccia vigorose; ma chi siede nella lisciviatrice vi rimane chiuso e contempla gli angoli delle pareti. L’uomo comune, vale a dire colui che non ha la magnificenza del maggiorascato, combatte con la vita impetuosa, si tuffa nel mare rigonfio, e con il diritto prometeico ruba perle alle sue profondità; magnificamente gli compare davanti agli occhi l’interna configurazione dell’idea, e audacemente crea, ma il signore del maggiorascato fa soltanto cadere le gocce su di sé, teme di slogarsi le membra e perciò si siede in una lisciviatrice. 
-  Trovata la pietra filosofale, trovata!

Autocoscienza

Giungemmo a una casa di campagna, era una bella notte, blu scura. Tu eri appesa al mio braccio e volevi staccarti, ma io non ti lasciavo, la mia mano ti legava, come tu avevi legato il mio cuore, e tu lasciasti che io ti tenessi.

Io mormorai parole piene di nostalgia e dissi la cosa più alta e bella che un mortale possa dire, poiché non dissi nulla, ero sprofondato intimamente in me, vidi sorgere un regno, il cui etere fluttuava così leggero, eppure così pesante, e nell’etere c’era un’immagine divina, la bellezza stessa, come io un tempo l’avevo presagita - ma non riconosciuta - in audaci sogni fantasiosi, sfavillava lampi di spirito, sorrideva, e tu eri l’immagine.

Mi meravigliai di me stesso, poiché ero diventato grande attraverso il mio amore, imponente; vidi un mare infinito, in cui non mugghiavano più flutti, aveva guadagnato profondità ed eternità, la sua superficie era cristallo, e nel suo oscuro abisso erano appuntate tremule stelle dorate, che cantavano canzoni d’amore, che irradiavano ardore, e il mare stesso era caldo! Se quella strada fosse stata la vita!

Baciai la tua dolce, morbida mano, parlai d’amore e di te. Una nebbia leggera fluttuava sul nostro capo, il suo cuore andò in frantumi, pianse una grande lacrima, essa cadde fra noi, ma noi la sentimmo e tacemmo.

La miseria della filosofia

Giacevano davanti a me sul tavolo, proprio quando io mi lambiccavo il cervello sul perché l’ebreo errante sia un berlinese di nascita e non uno spagnolo, ma vedo che questo coincide con la controprova che devo fornire, per cui noi, per amor di precisione... non vogliamo fare nessuna delle due cose, ma ci accontentiamo dell’osservazione che il cielo sia negli occhi delle signore, ma che gli occhi delle signore non si trovano in cielo, da cui risulta che ad attrarci non siano tanto gli occhi quanto piuttosto il cielo, poiché non vediamo gli occhi, ma soltanto il cielo che è in essi.

Se ci attraessero gli occhi e non il cielo, allora ci sentiremmo attirati dal cielo e non dalle signore, poiché il cielo non ha un occhio solo, come è stato osservato sopra, ma non ne ha nessuno, bensì esso stesso è null’altro che un infinito sguardo d’amore della divinità, l’occhio mite e melodioso dello spirito di luce, e un occhio non può avere un occhio.

Il risultato finale della nostra ricerca, perciò, è che noi ci sentiamo attirati dalle signore e non dal cielo, perché non vediamo gli occhi delle signore, ma senz’altro il cielo che è in essi, sicché ci sentiamo dunque, per così dire, attratti verso gli occhi perché non sono occhi, e perché Aasvero, l’errante, è berlinese di nascita, poiché è anziano e malaticcio e ha visto molti paesi e molti occhi, ma continua pur sempre a sentirsi attirato non dal cielo, bensì dalle signore, ed esistono soltanto due magneti, un cielo senza occhio e un occhio senza cielo.

L’uno sta sopra di noi e ci attira verso l’alto, l’altro sotto di noi e ci attira nelle profondità. Ma l’Aasvero è attratto con forza verso il basso, altrimenti fluttuerebbe eternamente sulla terra? E fluttuerebbe eternamente sulla terra, se non fosse un berlinese di nascita e non fosse abituato alle distese di sabbia?

Traduzione Cristina Guarnieri © Editori Riuniti Srl

IL LIBRO

Il romanzo Scorpione e Felice di Karl Marx con disegni e caricature di Friedrich Engels (153 pagine, 9,90 euro) che anticipiamo in queste pagine è pubblicato da Editori Riuniti e sarà in libreria il 25 maggio

L’introduzione è di Gabriele Pedullà con una nota di Claudio Magris

Il libro esce nella collana di letteratura “Asce”, dedicata a opere inedite o dimenticate dei grandi classici. Sono già usciti tra gli altri L’Anticristo di Joseph Roth, Gelosia di Marcel Proust, Il villaggio di Stepancikovo di Fëdor Dostoevskij



Martedì 03 Maggio,2011 Ore: 09:39
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 03/5/2011 17.08
Titolo:GESU' E IL MAGGIORASCATO. Cit. da un intervento di Paolo Farinella .....
CITAZIONE DA:

Il Padre che fu madre

Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo

Trascrizione dell’incontro di presentazione dell’ultimo libro di don Paolo Farinella tenutosi a Roma il 19 gennaio 2011

[INTERVENTO - RIPRESA PARZIALE] *

Paolo Farinella (Autore):


[...] All’epoca di Gesù il patrimonio non poteva essere diviso perché ereditava soltanto il figlio maggiore. Il figlio minore aveva un terzo di eredità, che per non poteva vendere, era titolare ma non poteva disporne, perché la proprietà non poteva essere divisa. Il figlio maggiore rappresentava la tutela della proprietà.

E questo è stato fino a Napoleone. Grosso modo nel XVII secolo i monasteri, i conventi erano pieni di figli secondogeniti per non sperperare il patrimonio. Il motivo per cui nella chiesa cattolica si ostina a difendere il celibato non credete che sia per motivo di assimilazione a Cristo, queste sono balle che hanno voluto far credere! Ma il vero motivo dal X secolo in avanti, con l’XI secolo in modo particolare in Francia, è per garantire la legittimità del figlio del re di Francia e per impedire che il prete sposato possa intaccare il patrimonio della chiesa.

Questo è il vero motivo detto papale papale. E non motivi spirituali. Se poi i teologi o gli spiritualisti o gli ascetici vogliono farci degli arzigogoli sopra sono liberi di fare quello che vogliono, però siano onesti nel dire quali sono i veri motivi. Un Padre aveva due figli, il fariseo e pubblicano che stanno nel tempio. E poi ci sono tanti altri, per esempio Esaù e Giacobbe e via di seguito. Nel libro cerco di spiegare questi rapporti, Pharez e Zerah, quello che nasce prima viene dopo, quello che doveva nascere dopo viene prima, e c’è tutto un casino che si sviluppa proprio per affermare un principio, che è il principio paolino della prima lettera ai Corinzi, che Dio sceglie nel mondo tutto ciò che non conta niente per affermare il regno di Dio. Non dovrebbe essere questo un principio nella chiesa oggi? Non dovrebbe essere questa la pastorale? Non dovrebbe essere questo l’annuncio profetico? Non dovrebbe essere questo quello che il papa dal balcone, o il cardinale Bertone dal balchino, dovrebbero gridare davanti a un Berlusconi su questo governo? Non dovrebbero dire: “E’ il secondogenito che ha diritto, cioè sono i poveri che hanno diritto, che devono essere tutelati”?

Questo dovrebbe dire la chiesa, questo dovrebbe gridare e no semplicemente andare a pranzo, di giorno, di notte, come i carbonari, per sollecitare interessi vergognosi, perché in questo modo noi nascondiamo il vangelo, anzi lo rinneghiamo il vangelo. Dice Paolo: “Dio non sceglie le cose che contano”, anche perché aggiunge poco prima che “soltanto lo Spirito è capace di leggere le profondità di Dio”. Allora bisogna veramente diventare spirituali per poter leggere le profondità di Dio. Perché soltanto nello Spirito del risorto noi possiamo incontrare Dio. Che cosa dice il figlio minore al padre? Il figlio minore guardate non vuole semplicemente andarsene di casa. Il figlio minore fa una richiesta precisa. Purtroppo le traduzioni non rendono. Voi sapete qual è il sistema delle traduzioni? La CEI, prendendo atto che il popolo di Dio non conosce la scrittura, ha fatto la scelta liturgica, cioè quella del testo che si capisca subito e che abbia un buon suono e che sia orecchiabile, anche a scapito del significato. Io preferisco una traduzione più stridente, ma che sia più letterale e profonda e poi magari si spiega.

Allora, invece di perdere tempo a fare lettere pastorali, a fare piani pastorali, a fare progetti culturali e via di seguito ... sono cinquant’anni ormai che facciamo queste cavolate qui. Bastava semplicemente fare un solo documento di una pagina e dire: “Da oggi in poi si fa solo Bibbia, Bibbia, Bibbia. Bibbia la mattino, Bibbia al pomeriggio, Bibbia alla sera. Bibbia prima dei pasti, dopo i pasti. Bibbia prima delle cure, dopo le cure, prima delle vacanze e dopo le vacanze. Bibbia, Bibbia, Bibbia!”

Se avessero formato un gruppo enorme di biblisti e li avessero sparsi per il paese, noi oggi avremmo un popolo di Dio che almeno può prendersi la scrittura e leggersela tranquillamente. Ma è quello che non si vuole, perché la parola di Dio deve essere sempre mediata da qualcuno, perché se non è mediata da qualcuno, l’autorità per come viene intesa, cioè come possesso delle coscienze, va a farsi fottere tranquillamente.

Allora il lavoro che bisogna fare, a mio parere, è proprio questo [...] E’ mio compito oggi restituire tutte queste cose e restituirle con gli interessi! Perché io non appartengo a me stesso, ma appartengo a una comunità, sono figlio di una comunità e non posso tenerle solo per me. Ecco perché nella preparazione di questa grammatica sono arrivato a sei, sette lezioni, che è faticosissimo perché alle volte, in una giornata, scrivi solo due righe, tre righe, perché devi cercare in tutta la Bibbia greca dell’Antico Testamento, in tutti i libri, devi trovare la forma e poi metterla a confronto con testo ebraico. Poi devi dire il passaggio che c’è stato nelle varie poche, e diventa un lavoro appassionante.

Il Card. Martini, quando ci incontravamo in Gerusalemme, mi diceva: “Don Paolo sono queste le cose che dobbiamo fare perché la gente possa avere in mano gli strumenti per poter leggere la Bibbia per conto proprio e non necessariamente andare in una chiesa per avere una spiegazione”. Tu devi andare in chiesa per incontrarti con la tua comunità e condividere la parola perché non è più una parola sola per te, ma una parola che diventa profezia e questa profezia deve essere gridata, deve essere annunciata.

La richiesta che fa il figlio al padre è una richiesta fondamentale: “Padre, dammi la parte di vita che mi spetta”. Non dammi la parte del patrimonio. In greco usa il termine “ousìa - natura”, dammi la parte della tua natura. E subito dopo il padre - notate il gesto eucaristico - “prese la sua vita e la spezzò tra i due figli”. Questo è il compito di Dio, spezzarsi per darsi. E’ l’Eucaristia.

Quando il figlio va lontano non va lontano. Il verbo greco è apedêmēsen. E apedêmēsen è un aoristo che significa ... qui c’è il problema dell’aoristo con cui io ho problemi, perché in base alla scuola di Niccacci, dipende da dove si trova, e cioè nella lettura narrativa bisogna vedere dove è collocato il verbo principale, cioè in quale linea, in una linea di primo piano o secondaria, ecc. Però io qui non voglio fare questo discorso specialistico. Voglio dire solo che il verbo apedêmēsen viene da apò demèō, dèmos - popolo: “Il figlio, andandosene con la vita del padre, si allontanò dal suo popolo”. Non è semplicemente andare lontano, ma è staccarsi dalla sua identità. E infatti, secondo la traduzione italiana, aggiunge che “visse da dissoluto”. In greco non dice che visse da dissoluto, in greco dice che visse da “asôtos”, un avverbio che indica “senza salvezza”. Vi rendete conto che non è semplicemente una parabola. Quando ero giovane prete non ho mai fatto cantare “mi alzerò e andrò da mio padre ...” nel tempo di Quaresima, perché in tempo di Quaresima c’è tutto questo sciorinamento di questo figlio che si converte.

Ma non è così. Il figlio non si converte e non ritorna per amore del amore del padre, non ritorna perché è pentito, non ritorna per la coscienza di aver fatto male, ritorna perché vuole mangiare, ed è disposto anche a diventare schiavo del padre, non più figlio, pur di sbarcare il lunario e avere un piatto di minestra. E non c’è amore in questo, non c’è compassione in questo. E lo vedo sullo stesso piano dell’altro figlio che Rembrandt ... se voi guardate il quadro che si trova all’Ermitage di San Pietroburgo, se voi guardate il quadro per intero, voi vedete che il figlio maggiore è rappresentato dietro, sul nero, con un pugnale in mano.

E questo pugnale indica che il fratello desiderava la morte del fratello minore, cioè c’era una competizione tra di loro. Ed è la competizione che si trova nella chiesa primitiva fra gli ebrei che si considerano figli prediletti e i greci che invece non devono far parte allo stesso titolo della stessa chiesa. Ed è contro questa impostazione che Paolo si scaglia. E oggi è contro un’umanità di fronte a cui ci troviamo e verso cui la chiesa, o parte di essa, fa delle esclusioni perché si identifica in una civiltà e in una cultura. L’eresia di oggi è affermare che il cristianesimo è identificabile come civiltà occidentale. Non esiste un cristianesimo occidentale. Nella mia chiesa noi diciamo il Padre Nostro - per quattro anni l’abbiamo detto - in aramaico. E da domenica scorsa l’abbiamo iniziato in greco, proprio per far capire dal punto di vista dei segni, che la lingua di Gesù, cioè il cristianesimo nasce in Oriente: Avunà di bishmaiàh itkaddàsh shemàch tettè malkuttàch tit’avèd re’utàch, non sembra di sentire un arabo? Come possiamo dire che il cristianesimo si identifica con la civiltà occidentale? Questa è una bestemmia! Il cristianesimo si identifica con Gesù Cristo, il quale deve essere detto e letto in ogni lingua, in ogni cultura e ambiente può essere annunciato.
E deve essere letto con le categorie specifiche di ciascuno [...]


* Il Dialogo, Martedì 25 Gennaio,2011 Ore: 14:41 (RIPRESA PARZIALE).

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