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www.ildialogo.org PER UNA STORIOGRAFIA “CRITICA”: VIDAL-NAQUET, KANT, E CARLO GINZBURG. Un invito a (rileggere Kant e) focalizzare meglio la questione. Alcune pagine da “Un Eichmann di carta” e una nota di Carlo Ginzburg (“La storia non si arrende alla fiction dei negazionisti),a c. di Federico La Sala

STORIA, MITO, E "CRITICA" (KANT): I VISIONARI DELLA METASTORIA COME I VISIONARI DELLA METAFISICA. Come distinguere il romanzo dalla storia? Come è possibile la conoscenza storica? Come distinguere l’illusione dall’apparenza?
PER UNA STORIOGRAFIA “CRITICA”: VIDAL-NAQUET, KANT, E CARLO GINZBURG. Un invito a (rileggere Kant e) focalizzare meglio la questione. Alcune pagine da “Un Eichmann di carta” e una nota di Carlo Ginzburg (“La storia non si arrende alla fiction dei negazionisti)

La lezione di Vidal-Naquet sul confine tra realtà e narrazione. Carlo Ginzburg racconta come l’antichista, confutando le tesi di Faurisson sulla Shoah impresse una svolta alle ricerche sul passato


a c. di Federico La Sala

A.

Un Eichmann di carta

Anatomia di una menzogna.

di Pierre Vidal-Naquet *

 

Ho esitato a lungo prima di accettare di rispondere all’amichevole richiesta di Paul Thibaud, direttore di Esprit (e che fu anche negli anni 1960-1962, direttore di Verité-Liberté, Quaderni d’informazione sulla guerra di Algeria) e di scrivere queste pagine  sul preteso revisionismo, a proposito di un’opera di cui gli editori ci dicono senza ridere: Gli argomenti di Faurisson sono seri. Bisogna rispondere”. Le ragioni di non rispondere erano molteplici […] Rispondere come, se la discussione è impossibile? Procedendo come si fa con un sofista, cioè con un uomo che assomiglia a colui che dice il vero, e di cui bisogna smontare pezzo per pezzo gli argomenti per smascherarne la falsità. Tentando, anche, di elevare il dibattito, di mostrare che l’impostura revisionista non è la sola che orna la cultura contemporanea, e che bisogna capire non solo il come della menzogna, ma anche il perché.

Ottobre 1980

 

Marcel Gauchet ha dedicato la sua prima cronaca su Débat (n. 7, maggio 1980) a quel che ha chiamato "l'inesistenzialismo". Una delle caratteristiche della cultura contemporanea è, infatti, quella di tacciare d'un sol colpo di inesistenza le realtà sociali, politiche, ideali, culturali, biologiche che erano ritenute le più consolidate. Vengono ripiombati nell'inesistenza: il rapporto sessuale, la donna, il dominio, l'oppressione, la sottomissione, la storia, il reale, I'individuo, la natura, lo Stato, il proletariato, l'ideologia, la politica, la pazzia, gli alberi. Questi giochetti sono deprimenti, possono anche distrarre, ma non sono necessariamente pericolosi. Che la sessualità e il rapporto sessuale non esistano non disturba gli amanti, e l'inesistenza degli alberi non ha mai tolto il pane di bocca a un boscaiolo o a un fabbricante di pasta da carta. Talvolta può, tuttavia, succedere che il gioco cessi di essere innocente. Come quando si chiamano in causa non la donna, la natura o la storia, ma questa o quella espressione specifica dell'umanità, o un momento doloroso della sua storia.

In quella lunga fatica che è stata la definizione dell'uomo di fronte agli dei, di fronte agli animali, la frazione dell'umanità cui apparteniamo ha scelto in particolare, almeno da Omero e da Esiodo nell' VIII secolo a.C., di presentare l'uomo come colui che, a differenza degli animali, non mangia il suo simile. Così diceva Esiodo nel suo poema Le Opere e i Giorni: “Tale è la legge che Zeus figlio di Crono ha prescritto agli uomini: che i pesci, gli animali selvatici, gli uccelli alati si divorino, perché tra loro non c'è giustizia". Esistono trasgressioni alla legge, di rado nella pratica, più spesso nei racconti mitici. Esistono soprattutto trasgressori classificati come tali: sono certe categorie di barbari che per ciò stesso si escludono dall'umanità. Un ciclope non è un uomo.

Non tutte le società collocano in questo preciso punto la linea di separazione. Ce ne sono alcune, né più né meno “umane” della società greca o della società occidentale moderna, che ammettono il consumo di carne umana. Non ce n'è nessuna, credo, che riduca questo consumo a un atto come gli altri: la carne umana non appartiene alla stessa categoria di quella degli animali cacciati o d'allevamento. Naturalmente queste differenze sfuggono all'occhio degli osservatori esterni, smaniosi di trattare da non-uomini coloro che sono semplicemente diversi. […] Dividere il reale dall’immaginario, dare un significato all’uno e all’altro è un lavoro che tocca all’antropologo, allo storico, si tratti di antropofagia, di riti nuziali o dell’iniziazione dei giovani […]

[…]  come molti storici, miei predecessori e miei contemporanei, mi sono interessato alla storia dei miti, alla storia dell'immaginario, pensando che l'immaginario sia un aspetto del reale e che se ne debba fare la storia come si fa quella dei cereali e della nuzialità nella Francia del XIX secolo. Certo questo “reale” è, tuttavia, nettamente meno “reale” di quel che siamo soliti chiamare con tale nome. Tra i fantasmi del marchese di Sade e il Terrore dell'anno II c'è una differenza di qualità, ed anche, al limite, un’opposizione radicale: Sade era un uomo piuttosto mite. Una certa  volgarizzazione della psicanalisi è responsabile di questa confusione tra il fantasma e la realtà.

 Ma le cose sono più complesse: una cosa è attribuire all'immaginario una parte nella storia, una cosa è definire immaginaria, come Castoriadis, l'istituzione della società, un’altra è  stabilire, alla maniera di Baudrillard, che il reale sociale è composto solo di relazioni immaginarie. Quest’affermazione estrema ne comporta un'altra che dovrò spiegare: quella che dichiara immaginaria tutta una serie di avvenimenti molto reali. Come storico,  mi sento  in parte responsabile dei deliri di cui mi sto per occupare […] (pp. 5-8).

Sostituire la storia col mito  è un procedimento che non farebbe danno se esistesse un criterio assoluto che permettesse di distinguere a prima vista l’uno dall’altro. La caratteristica della menzogna è quella di presentarsi come verità. Certo, questa verità non ha sempre una vocazione universale. Può essere la verità di una minuscola setta, una verità da non mettere in tutte le mani (p. 48)

Quando un racconto fittizio è fatto come si deve, non contiene in se stesso í mezzi per distruggerlo in quanto tale. È una vecchia storia che si può seguire, volendo, dai tempi dell'antica Grecia. I poeti sapevano che potevano dire il vero e il falso e mischiarli I'un I'altro per virtú di somiglianza. Le Muse, “figlie veridiche del grande Zeus", così parlavano a Esiodo: "Sappiamo raccontare menzogne simili alle realtà; ma sappiamo anche' quando vogliamo, proclamare verità”. Questa prossimità', questa inquietante rassomiglianza è  è combattuta dalla nascente filosofia che separa, che oppone la verità all'apparenza.

Anche la storia interviene in questo dibattito. Mentre in Israele essa appare come espressione dell'ambiguità umanato, in Grecia gioca sull'opposizione del vero e del falso. “Scrivo - dice il primo storico,  Ecateo di Mileto - ciò che credo essere vero, perché le parole dei greci sono,  a quel che mi sembra, numerose e ridicole".  Ma, da Ecateo a  Erodoto e da Erodoto a Tucidide ogni generazione di storici si sforza di squalificare la precedente, come il vero può squalificare il mitico ed il menzognero. Con Platone la filosofia entra a sua volta nel gioco e gli {a fare un passo decisivo. Perché, se Platone deriva da Parmenide l'opposizione di apparenza e verità, il suo discorso tratta prima di tutto il mondo degli uomini, dunque quello dell'apparenza  e di un'apparenza che sta sull'orlo della verità, che ne è il contrappunto, l’imitazione menzognera e ingannatrice. Tra il sofista e colui  che egli imita, ci sono rassomiglianze “come tra il cane e il lupo, infatti, come tra la bestia più selvaggia e l'animale più addomesticato. Ora, per assicurarsi bene, bisogna stare continuamente in guardia più di tutto sulle rassomiglianze. È infatti, un genere di cose assai pericoloso" (Sofista, 231a); tutto il dialogo del Sofista è una riflessione sulla quasi impossibilità di distinguere il vero dal falso, e sull'obbligo che abbiamo, per smascherare il mentitore, di riconoscere al non essere una certa forma d'esistenza. Ma colui che possiede la verità è anche colui che ha il diritto di mentire.  

Platone illustra nella Repubblica la teoria della bella menzogna; scrive nel libro III delle Leggi una storia fabbricata di Atene, in cui la battaglia di Salamina, perché combattuta sul mare sotto la democrazia dei marinai, è eliminata dal racconto della seconda guerra medica. Nel prologo del Timeo e nel Crizia realizza, in questo campo, il suo capolavoro:  inventare di sana pianta un continente sparito, l'Atlantide, avversario di un'antica e perfetta Atene: racconto veridico, dice e ripete Platone, menzogna emblematica in realtà, che il lettore filosofo impara facilmente a decrittare. Ma le affermazioni di Platone sulla realtà dell'Atlantide fanno ancora oggi, dopo piú di ventitré secoli, delle vittime e dei profittatori di queste vittime.

Un tal discorso, certo, diventa pericoloso solo quando si appoggia sul potere di uno Stato e acquista il valore di monopolio. Platone  non fece legge in nessuna città greca, ma è vero che il Basso impero, da Diocleziano in poi, pagano o cristiano, diventò a modo suo platonico. 

Lasciamo passare i secoli. Viviamo oggi "l'era dell'ideologia". Come potrebbe Auschwitz sfuggire al conflitto delle interpretazioni, alla divorante rabbia ideologica? Bisogna inoltre segnare i limiti di questa permanente riscrittura della storia che caratterizza il discorso ideologico. “Sionisti e polacchi ci presentano già versioni molto divergenti su Auschwitz, dice Faurisson (Vérité,  p. 194). È vero. Per gli israeliani, o almeno per i loro ideologi, Auschwitz è lo sbocco ineluttabile e logico della vita di diaspora e tutte le vittime dei campi della morte avevano la vocazione di diventare cittadini d'Israele, il che è una doppia falsità. Quanto ai polacchi, non è sempre facile distinguere in ciò che scrivono quel che deriva dalla verità obbligatoria - per esempio la riverenza davanti alle decisioni ufficiali della commissione sovietica d'inchiesta all'indomani della liberazione - e quel che è ideologia integrata, nazionalista prima di tutto.

La storica polacca Danuta Czech scrive qualcosa di abbastanza sorprendente: “Konzentrationlager Auschwitz-Birkenau serviva a realizzare il programma dello sterminio biologico dei popoli, soprattutto dei popoli slavi, e in particolare del popolo polacco e dei popoli dell'Urss, oltre che degli ebrei e di coloro che erano considerati ebrei secondo i decreti di Norimberga...”.. Ma né i polacchi né gli israeliani, certo, trasformano nella sua essenza la realtà del massacro. […] (pp. 49-51).

 

Si può  certo sostenere che ognuno abbia il diritto alla menzogna e al falso, e che la libertà individuale comporti questo diritto, riconosciuto, nella tradizione liberale francese, all’accusato per la su difesa. Ma il diritto che il falsario può rivedicare non gli deve essere concesso in nome della verità. […] Né l’illusione, né l’impostura, né la menzogna sono estranee alla vita universitaria e scientifica […] Le pubblicazioni di Faurisson sono quelle che sono, - cercate di leggere Nerval nella “traduzione” di Faurisson, - ma esistono e hanno il loro posto nell’ordine universitario. Nessuno è obbligato a rivolgergli la parola.

Vivere con Faurisson? Ogni altro atteggiamento supporrebbe che imponessimo la verità storica come verità legale, atteggiamento questo che è pericoloso e suscettibile di altri campi d'applicazione. Ognuno può sognare una società in cui i Faurisson sarebbero impensabili, ed anche cercare di lavorare per la sua realizzazione, ma esistono, come il male esiste, intorno a noi, e in noi. Riteniamoci ancora fortunati se, in questo grigiore che è il nostro, possiamo immagazzinare qualche particella di verità, Provare qualche frammento di soddisfazione. Giugno 1980, rivisto nel maggio 1987 (pp. 55-56).

* INDICE:  Pierre Vidal-Naquet,  Un Eichmann di carta (1980). Anatomia di una menzogna. 1. Il cannibalismo, la sua esistenza e le spiegazioni che ne sono state date. 2. La Vieille Taupe e i cannibali. 3. La storia e la sua revisione. 4. Il metodo revisionista. 5. Mosca, Norimberga, Gerusalemme. 6. I conti fantastici di Paul Rassinier. 7. La guerra degli ebrei. 8. L’arte di non leggere i testi. 9. Platone, la menzogna e l’ideologia. 10. Vivere con Faurisson?

*Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, Editori Riuniti, Roma 1993 - senza le note.

Pierre Vidal-Naquet (1930-2006), storico dell’antichità, è stato direttore dell’École des hautes études en sciences sociales. Nato da una famiglia ebrea ma laica, all'età di quattordici anni perde entrambi i genitori, deportati ad Auschwitz. Militante nella lotta contro la guerra d’Algeria e per i diritti dei palestinesi, ha scritto numerosi saggi sulla Grecia antica e sulla storia contemporanea.


B.

LA STORIOGRAFIA SOTTO IL COMANDO DELLA "IMMAGINAZIONE": I SOGNI DEI VISIONARI CHIARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA (E DELLA METASTORIA).

 

LINK:

 

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala -A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” 

 

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

 

CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE. Da Emilio Garroni, una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico

_______________________________________________________________

 C.

La lezione di Vidal-Naquet sul confine tra realtà e narrazione. Carlo Ginzburg racconta come l’antichista, confutando le tesi di Faurisson sulla Shoah impresse una svolta alle ricerche sul passato

La storia non si arrende alla fiction dei negazionisti 

di Carlo Ginzburg  (Corriere della Sera, 27 novembre 2008, p. 45)

 Vidal-Naquet mi si è imposto, per così dire, come interlocutore mentale al principio degli anni 80, in coincidenza con un mutamento del clima intellettuale e, in senso lato, politico, che ho percepito per la prima volta (con un ritardo di cui non finisco di stupirmi) leggendo il saggio di Arnaldo Momigliano intitolato La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White.

 Contro la riduzione della storiografia a mera narrazione o a mera retorica, contro una storia della storiografia che ignorava deliberatamente i dati documentari, Momigliano si chiedeva polemicamente: «Ma possiamo veramente credere che Ranke e Tocqueville sarebbero gli stessi se scoprissimo che avevano frainteso i dati documentari che usavano o che avevano lavorato su dei falsi senza accorgersene?». Poco prima aveva scritto: «Ranke era interessato, come ogni storico è sempre stato, a prove nuove e sicure: le prefazioni alle sue opere maggiori insistono su questo punto».

Non era la prima volta che Momigliano affrontava questo tema. Nel 1974, in un saggio intitolato Storicismo rivisitato, egli aveva rapidamente criticato la tesi della riduzione della storia a retorica «assai acutamente sviluppata» da Hayden White nel suo Metahistory (1973). Oggi mi chiedo se la decisione di dedicare nel 1981 un intero saggio a Hayden White possa essere stata sollecitata da uno scritto che Momigliano non menziona: Un Eichmann di carta, che Vidal-Naquet aveva pubblicato su Esprit un anno prima (ma la contiguità cronologica potrebbe essere cosi stretta da invalidare la mia ipotesi).

Certo, allora l’accostamento tra il saggio di Momigliano e quello di Vidal-Naquet  mi s’impose a un certo punto come evidente. Capii che disfarsi della nozione di prova, cancellando il confine tra narrazioni di finzione e narrazioni storiografiche, non era un gesto innocuo. Una delle conseguenze possibili di una posizione del genere era la cancellazione del passato, esemplificata nella maniera più infame dal cosiddetto negazionismo. «Neppure i morti saranno al sicuro» aveva scritto Walter Benjamin in una delle sue tesi sulla storia.

Ricordo di aver cominciato a leggere il saggio di Vidal- Naquet con un senso di dolorosa incredulità. Non riuscivo a capacitarmi che un uomo i cui genitori erano stati uccisi ad Auschwitz si fosse imposto di confutare in maniera particolareggiata le tesi negazioniste di Faurisson. Ma dopo poche pagine i miei dubbi si dileguarono. Oggi penso che quelle pagine di Vidal-Naquet costituiscano una testimonianza di energia intellettuale e morale assolutamente straordinaria, oltre a essere un esempio di pedagogia storica nei senso più alto del termine.

Uso il termine «pedagogia» a ragion veduta: le tesi di Faurisson non costituiscono in alcun modo una sfida per gli storici, anche se possono aver sollecitato il chiarimento o l’approfondimento di alcuni dati di fatto. Era politicamente importante che qualcuno confutasse quelle tesi; Vidal-Naquet l’ha fatto.

Ma l’importanza della confutazione va molto al di là del suo miserabile bersaglio. Il malessere che le tesi dei negazionisti hanno suscitato nella mente di alcuni che le consideravano moralmente e politicamente riprovevoli mi sembra molto più significativo (e sintomatico) delle tesi stesse. Sostenere, come è stato fatto, che nessuna prova esterna può confutare le tesi di Faurisson e dei suoi seguaci, è semplicemente assurdo. Bisogna dunque rimettere al centro della discussione la nozione di prova che Momigliano aveva sollevato a proposito di Hayden White. Ma su questo punto Vidal-Naquet aveva, e da molto tempo, idee chiarissime.

Cominciai a riflettere su questi temi in un saggio intitolato, per l’appunto, Prove e possibilità, apparso nel 1984 come postfazione all’edizione italiana di The Return of Martin Guerre di Natalie Davis. Come esempio della tendenza diffusa a leggere i libri di storia come testi chiusi in sé, privi di riferimenti alla realtà esterna, citai gli scritti di Michel de Certeau e Le miroir d’Herodote di François Hartog. A proposito di quest’ultimo segnalai che il tentativo di analizzare la descrizione del mondo scita proposta da Erodoto come un’entità autonoma risultava alla fine insostenibile: il confronto con la realtà, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra.

Allorché scrivevo quelle frasi ignoravo che la tesi di François Hartog su Erodoto aveva sollecitato una discussione tra Michel de Certeau e Pierre Vidal-Naquet che si riallacciava, almeno indirettamente, al tema del negazionismo. Qualche anno più tardi Vidal-Naquet rievocò quella discussione in una lettera a Luce Giard, inclusa in una raccolta dedicata alla memoria di Michel de Certeau. 

Scriveva Vidal-Naquet: oggi siamo diventati consapevoli, grazie a de Certeau, della dimensione inevitabilmente soggettiva legata allo scrivere di storia. E tuttavia, si chiedeva, «non resta indispensabile ricollegarsi a quest’anticaglia, “il reale”, “ciò che è autenticamente accaduto”, come diceva Ranke nel secolo scorso?». E continuava: «Ne ho avuta viva consapevolezza al momento dell’affaire Faurisson (…).Faurisson è, beninteso, agli antipodi di de Certeau. È un materialista con gli zoccoli, che, nel nome del reale più tangibile, derealizza tutto ciò che tocca, la sofferenza, la morte, lo strumento della morte. Michel de Certeau si preoccupò fortemente per questo delirio perverso e me ne scrisse (…). La mia impressione era che ci fosse un discorso sulle camere a gas, che tutto dovesse passare attraverso il dirlo, ma che, al di là, o piuttosto al di qua del dire, ci fosse qualcosa di irriducibile che, in mancanza di meglio, io continuerei a chiamare il reale. Senza questo reale, come si potrebbe distinguere il romanzo dalla storia? Gli risposi su questo tema, e il nostro dialogo riprese a Besançon, durante la discussione di una tesi memorabile, quella di François Hartog su Erodoto (giugno 1979), in cui entrambi siedevamo nella commissione. Mi sentivo, a dire il vero, profondamente implicato. Scrivendo a Certeau, io gli parlai della nostra responsabilità».

Mi auguro che questo carteggio tra Vidal-Naquet e de Certeau venga pubblicato per intero. Il passo che ho letto mostra che le tesi, insensate e ignobili, di Faurisson avevano portato alla luce un tema inquietante, che toccava in profondità i due interlocutori. La confutazione delle tesi negazioniste costringeva ad affrontare la questione dell’oggettività della ricerca storica. Vidal-Naquet concedeva «c’era un discorso sulle camere a gas, che tutto doveva passare per il dirlo»: ma sulla materialità del reale, che precede qualunque discorso, continuava ad insistere. Lo storico è responsabile perché il suo lavoro ha una dimensione, al tempo stesso, oggettiva e soggettiva.



Martedì 09 Novembre,2010 Ore: 21:51
 
 
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