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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org LA LINGUA, LA PAROLA, E LA SCRITTURA. "MOMENTI DI PAUSA" PIENI DI GRAZIA E DI AMORE("CHARITAS") E MOMENTI PIENI DI PAURE E INCUBI. Una riflessione di Giampiero Comolli sulla "lettura" (da "Riforma") - con brevi testi di Edmond Jabés, Claude Vigée, Mario Praz, e Edgar Allan Poe,a cura di Federico La Sala

IN PRINCIPIO ERA IL "LOGOS" ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv.. 4.8) O IN PRINCIPIO ERA IL "CAOS", IL "NULLA"?
LA LINGUA, LA PAROLA, E LA SCRITTURA. "MOMENTI DI PAUSA" PIENI DI GRAZIA E DI AMORE("CHARITAS") E MOMENTI PIENI DI PAURE E INCUBI. Una riflessione di Giampiero Comolli sulla "lettura" (da "Riforma") - con brevi testi di Edmond Jabés, Claude Vigée, Mario Praz, e Edgar Allan Poe

(...) in quel momento di pausa, venutosi a creare in sinagoga, non continua soltanto a echeggiare silenziosa la parola di Isaia appena udita, ma si sente al tempo stesso aleggiare la presenza di una parola nuova, che già si annuncia, che da un momento all’altro sta per essere pronunciata. Ed ecco infatti che dopo poco Gesù riprende a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite». La meraviglia allora raggiunge il culmine e «tutti gli rendevano testimonianza» per le sue «parole di grazia» (...)


a cura di Federico La Sala

L’azione della Parola di Dio negli intervalli di silenzio fra una lettura e l’altra

Momenti di pausa

Che accade quando lo sguardo si solleva dalle pagine bibliche? La Parola di Dio riecheggia, un po’ come si sente ancora persistere nella stanza la presenza di un amico appena salutato

di Giampiero Comolli ("Riforma", n. 29, 23.07 2010).

  Gesù si recò a Nazaret, dov’era stato allevato e, com’era solito, entrò in giorno di sabato nella sinagoga. Alzatosi per leggere, gli fu dato il libro del profeta Isaia. 
  Aperto il libro, trovò quel passo dov’era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunziare la liberazione ai prigionieri, e ai ciechi il ricupero della vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e a proclamare l’anno accettevole del Signore». 
  Poi, chiuso il libro e resolo all’inserviente, si mise a sedere, e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. Egli prese a dir loro: «Oggi, si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite». Tutti gli rendevano testimonianza, e si meravigliavano delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca, e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
Luca 4, 16-22

«POI, chiuso il libro e resolo all’inserviente, si mise a sedere; e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui» (Luca 4, 20). Gesù ha appena finito di leggere il famoso passo di Isaia «Lo Spirito del Signore è sopra di me...», e ora tace, come tacciono gli astanti. Ma in questo momento di pausa e di silenzio la tensione si è fatta altissima. Coloro che hanno udito, sentono evidentemente vibrare ancora nelle orecchie, nella mente e nel cuore le parole appena pronunciate da Gesù. Quel testo di Isaia, certo a tutti ben noto, sembra avere assunto ora un peso e un senso nuovi, inaspettati, misteriosamente connessi alla figura stessa di Gesù. Tanto che i presenti, muti, persistono nel guardarlo, carichi di inquietudine e di stupore. Si aspettano infatti che di lì a poco lui riprenda la parola, per sciogliere la tensione o forse per innalzarla a un livello ancor più alto.

Dunque in quel momento di pausa, venutosi a creare in sinagoga, non continua soltanto a echeggiare silenziosa la parola di Isaia appena udita, ma si sente al tempo stesso aleggiare la presenza di una parola nuova, che già si annuncia, che da un momento all’altro sta per essere pronunciata. Ed ecco infatti che dopo poco Gesù riprende a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite». La meraviglia allora raggiunge il culmine e «tutti gli rendevano testimonianza» per le sue «parole di grazia».

Quando noi leggiamo un testo, e a maggior ragione il testo biblico, ci capita facilmente di fare delle pause. Con la mente e il cuore pervasi dalle parole che ci sono appena giunte, lo sguardo si solleva dalla pagina, gli occhi si chiudono per un momento, oppure vagano per la stanza o anche si fissano su un oggetto qualunque. Poi la pausa finisce e noi riprendiamo a leggere, come se niente fosse stato. Ma che mai accade durante simili momenti di sospensione? Qual è il senso profondo di tali interruzioni?

L’episodio di Gesù nella sinagoga di Nazaret ci aiuta a capirlo. La Parola del Signore - chiarisce questo passo di Luca - non si fa presente solo nel momento in cui viene letta o pronunciata. Continua a incombere, sia pure muta, anche negli intervalli di silenzio fra una lettura e l’altra. In questi periodi di pausa - se ci si fa attenzione - la Parola riecheggia, entra in uno stato di silenziosa risonanza: un po’ come si sente ancora persistere nella nostra stanza la presenza di un caro amico che ci ha appena salutato.

Al tempo stesso, però, ci possiamo pure accorgere che quella Parola, svanita da un istante, è lì lì per farsi udire un’altra volta ancora, addirittura sembra di avvertirne i primi accenti: un po’ come quando si sente già fra noi la figura di un caro amico in procinto di tornare. Il Signore, che ci ha appena parlato, sta per parlare di nuovo. Il Signore, che è appena andato via, di nuovo arriva. Anzi, non se n’è mai andato. Tanto che se ne può percepire ovunque la presenza silenziosa.

Mentre infatti noi interrompiamo la lettura, il nostro occhio vaga per la stanza. Non può fissarsi sulla figura di Gesù, ovviamente, come facevano invece i nazareni. Ma proprio perché non può farlo, ecco che l’occhio va a posarsi su quanto gli si dispiega intorno, sui muti, semplici oggetti del nostro tavolo, della nostra stanza: una mela, un bicchiere, una penna, un libro...

Ebbene, tali umili, usuali cose di ogni giorno, brillano ora di una nuova, più brillante luce: sembrano pure loro in qualche modo impregnate dalle parole di grazia appena udite, sembrano anche loro sfiorate, carezzate, sostenute da quello «Spirito del Signore», che era «sopra» Isaia e «sopra» Gesù. Si rivelano infatti nella loro più vera identità di cose create, non in nostro possesso: cose donate, redente, portate all’esistenza da quello Spirito che, dopo aver parlato attraverso il testo, continua ora ad aleggiare accanto a noi e sugli oggetti della stanza, in attesa di parlare un’altra volta ancora...

Tutto questo dunque, e molto altro ancora, può accadere durante quei momenti di pausa nella lettura, tanto usuali che spesso non vi facciamo neanche caso. Non ce ne occupiamo perché la nostra abitudine ci spinge a concentrarci sul contenuto della Scrittura, su quel che il testo biblico dichiara, enuncia.

Ma la Parola di Dio non è fatta solo di frasi, di enunciati. Essa infatti sussiste, persiste anche negli intervalli di silenzio fra un enunciato e l’altro, anche nello spazio bianco e muto che separa un vocabolo dall’altro, anche nel vuoto taciturno che sempre s’insinua di frase in frase.

Proviamo a far più attenzione a tali momenti di pausa. Proviamo addirittura a prolungarli, ad ampliarli. Perché a volte è proprio in essi che si può avvertire, come non mai vicina, la presenza del «Dio nascosto» (Isaia 45, 15): quel Dio che «nessuno ha mai visto» (Giovanni 1, 18), e che tuttavia ci si dona, e viene in mezzo a noi, attraverso la grazia della sua Parola. Una Parola che è fatta pure di silenzio e che proprio per questo permane vicina e viva anche quando tace, anche nel tempo benedetto della pausa.

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L’instancabile commento della Bibbia 
Leggere dietro le parole

Da sempre l’ebreo ha capito che la sua verità si trova nel libro, in ciascuna parola del libro. Si ricordi che il nome di Dio è la giustapposizione di tutte le parole della lingua. Ogni parola è un frammento staccato di questo nome. «Uomo» è solo una parola. Ogni rapporto esistente fra Dio e l’uomo passa attraverso il vocabolo. Perciò l’ebreo, non sopportando i silenzi del Libro, si è sempre impegnato a commentarlo. Ogni commento è prima di tutto commento di un silenzio.

Leggere dietro le parole - la decifrazione del libro è infinita -  è un’operazione che nasce dalla violazione. Significa, in un certo senso, violare il Nome intoccabile di Dio (...).

Il libro è sempre l’al di là della parola, il luogo dove essa muore. La parola, immortale, precede il libro, entra nel libro per viverci e, più ancora, per morirvi. Perciò della scrittura si può dire che è un cammino verso la morte (...) la morte è lo spazio bianco che separa i vocaboli e li rende intelligibili, è il silenzio che rende udibile la parola orale. Per questo il bianco è così pericoloso in una pagina.

Pochi scrittori sanno raccogliersi in una parola abbastanza forte da resistere a tale pressione del silenzio. Tuttavia scrivere non può essere se non affrontare questo silenzio.

Il libro deve essere interrogato e reinterrogato instancabilmente. L’«intelletto più puro» non è forse promesso soltanto a chi si pone in ascolto del libro?

Filone d’Alessandria, Filone l’ebreo scrive: «Avendo Mosè udito il Signore, senza che questo facesse diminuire il suo desiderio, fu divorato ancor più dalla passione per l’invisibile».

Parole ammirevoli. Dio è grande solo per il fatto di essere invisibile. Come dire meglio che è il sentimento dell’invisibile a spingerci paradossalmente a guardare il visibile, a incontrarlo? Allo stesso modo, per lo scrittore, ogni parola scritta nasconde un’altra parola del tutto inafferrabile ma incessantemente differita e infinitamente più essenziale. Verso questa parola egli tende.

Edmond Jabès, Dal deserto al libro, Elitropia, Reggio Emilia 1983, pp. 172-179

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Il qabbalista medievale Eleazar di Worms insegnava: «Dio è silenzio». Ora, l’Alef, la lettera iniziale e fondatrice dell’alfabeto ebraico, non viene mai pronunciata in quanto tale: nella fonetica ebraica, è un elemento muto al quale possono essere attribuiti diversi valori vocalici. Silenziosa, e appunto, «invisibile all’orecchio», l’Alef non deve essere detta. Dunque, non sarà né suonata (recitata), né manipolata sulla scena di questo mondo. Ma può e deve essere amata prima di poter dire ciò che si potrebbe dire sulla sua fondazione silenziosa. Muta, è fuori portata. Essa sfugge alla nostra ambiziosa cattura orale, elude la nostra rapacità conquistatrice e assimilatrice, per sempre. Regna sui domini del silenzio che è la matrice della melodia e del canto: «Per te il silenzio è lode, Elohim, in Sion» (Salmo 65, 1). «Ah, in Elohim fa silenzio, mio essere, la mia salvezza viene da lui» (Salmo 62, 2.6, nella traduzione di André Chouraqui).

Claude Vigée, Alle porte del silenzio. Scrittura e rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano, 2003, p. 33.

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 Accade talvolta che, mentre si legge, si sentono pronunziare, da persona che si trova nella stanza, precisamente le stesse parole sulle quali i nostri occhi si posano in quel punto della pagina. Spesso si tratta delle più semplici parole, e non facciamo più caso che d’una curiosa coincidenza tra fatti senza rapporto alcuno tra loro. V’è tuttavia qualcosa di preternaturale in questa che sembra come l’eco udibile di parole mute, quasiché ci sorprendessimo a ripetere con voce non nostra ciò che leggiamo, o che l’altra persona nella stanza pronunziasse per telepatia il nostro testo. Non ci sfugge il carattere strano di queste coincidenze, che per lo meno ci danno un piccolo brivido di sorpresa come la gherminella d’un prestigiatore che, ad esempio, ti fa ritrovare in tasca l’oggetto veduto un attimo prima sul tavolino. Altre volte la coincidenza è più profonda, e veramente ci fa trasalire. Havelock Ellis racconta nella sua Vita come, mentre assisteva la madre ammalata, s’era preso da leggere per la prima volta Peer Gynt di Ibsen; e proprio la mattina che leggeva la scena in cui Peer Gynt è al capezzale di mamma Aase morente, udì dal letto presso cui stava un suono di respiro penoso: quello della propria madre che entrava in agonia. (...) Quell’improvvisa rima tra due fatti in apparenza slegati, quella strana cadenza in cui essi combaciano e si fondono quasi, par suggerire un’identità segreta, alzare per un momento il velo d’un mondo metafisico di cui ordinariamente ignoriamo l’esistenza (...), perché ci sono momenti in cui effettivamente par che alle nostre parole, alle nostre azioni un’eco si risvegli nel grembo dell’invisibile mondo.

Mario Praz, Voce dietro la scena, Adelphi, Milano, 1980, pp. 393-396

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L’antico volume che avevo preso era il Mad Trist di sir Launcelot Canning (...) ed ero giunto a quel punto arcinoto della storia dove Ethelred, l’eroe del Trist, dopo aver cercato invano di entrare per vie pacifiche nella dimora dell’eremita, si prepara bravamente a entrare con la forza. Qui, si ricorderà, le parole del racconto sono le seguenti: «Ethelred, che era animoso per natura sollevò la mazza ferrata e, tirando colpi su colpi, aprì un varco fra le assi della porta (...) in modo tale che il rumore del legno secco che si spezzava destò con la sua eco tutta la foresta». Terminata questa frase, trasalii e per un attimo mi arrestai, poiché mi era parso che da un’ala remotissima della casa giungesse indistinta alle mie orecchie l’eco di quel rumore di legno spezzato e schiantato che sir Launcelot aveva così particolareggiatamente descritto. Continuai il racconto: «Ma il bravo campione Ethelred, varcata la porta, vide un drago dall’aspetto mostruoso. Ethelred sollevò la sua mazza ferrata e la calò con violenza sulla testa del drago, che cadde ai suoi piedi con un urlo spaventoso e aspro (...)». A questo punto mi fermai di nuovo bruscamente, ma questa volta con una sensazione di violento stupore, perché non ci potevano essere dubbi di sorta che avessi realmente udito (sebbene mi riuscisse impossibile dire da dove giungesse) un suono basso ed evidentemente lontano ma aspro, prolungato, e insolitamente acuto e stridulo, in tutto simile a quello che la mia fantasia aveva già immaginato come il grido innaturale del drago descritto dal romanziere.

Edgar Allan Poe, La fine della casa Usher, in Racconti, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 213-230



Giovedì 22 Luglio,2010 Ore: 00:04
 
 
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