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www.ildialogo.org SOCIOLOGIA E SOCIETA': LA NUOVA "IDENTITA' CULTURALE ITALIANA" E "LA NAZIONE OSCURATA". Un articolo di Carlo Galli e una nota di Guido Crainz,a cura di Federico La Sala

L’ITALIA, GLI INTELLETTUALI, E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’": "FORZA ITALIA" (2010)!!!
SOCIOLOGIA E SOCIETA': LA NUOVA "IDENTITA' CULTURALE ITALIANA" E "LA NAZIONE OSCURATA". Un articolo di Carlo Galli e una nota di Guido Crainz

(...) Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all’interno della coalizione (...)


a cura di Federico La Sala

  IL TRAMONTO DEI SOCIOLOGI

  Così muore la scienza del tutto

  Trasformazioni veloci e mondo liquido la sociologia non basta più

  Dagli anni ’60 in poi le scienze sociali hanno dominato la lettura della realtà: ogni fenomeno veniva interpretato attraverso gli occhiali di questa disciplina 
  Ma tra l’invasione dei "tuttologi" e gli eccessi specialistici ora è cominciato il declino 
  E gli intellettuali di riferimento sono diventati gli economisti, i filosofi, gli antropologi

  Il segno del declino è stata la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca che verrà chiamato "Identità Culturale Italiana" 
  La tesi principale era che individui e Stato non si possono pensare come autosufficienti 
  Ma l’eccesso di obiettivi e di metodi, ha finito per frammentare la disciplina

di Carlo Galli (la Repubblica, 01.05.2010)

Sul sito web della Fondazione Treccani una delle figure di punta della sociologia del nostro Paese - il milanese Guido Martinotti - ha criticato aspramente la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca denominato «Identità Culturale Italiana». Ma a partire dalla denuncia della debolezza organizzativa di una disciplina che non riesce a opporsi a simili diktat, viene introdotta una articolata riflessione - a cui hanno partecipato parecchi altri sociologi - su quella che viene definita la "crisi della sociologia": crisi di paradigmi conoscitivi, di presenza accademica, di visibilità pubblica; crisi del sociologo come «tuttologo», insomma. Una crisi d’identità che viene dopo una stagione di notevoli successi.

A partire dagli anni Sessanta, infatti, ha conosciuto un grande incremento della sua penetrazione dell’Università, grande popolarità dei suoi metodi (il questionario), grande appetibilità del suo sapere per gli enti pubblici di vari livelli che alle analisi sociologiche - il prodotto tipico delle ricerche commissionate (e finanziate) ai sociologi - affidavano e ancora oggi affidano la legittimazione delle loro politiche d’intervento sulla società italiana. Un successo anche d’immagine, tanto più notevole quanto più la cultura italiana non era stata certo benevola, inizialmente, verso la disciplina: contro la quale avevano pesato i pregiudizi della filosofia idealistica - «inferma scienza» fu definita da Croce - ma anche la chiusura del marxismo, nonché l’originaria diffidenza di altri mondi scientifici più influenti.

Una disciplina, la sociologia, che sembrava povera di pedigree e di lignaggio scientifico, insomma. Il che, però, non era vero. Nata nel grembo della filosofia del tardo Settecento e dell’Ottocento - da Bonald a Comte, da Saint-Simon a Spencer -, la sociologia si afferma tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX con l’opera di padri fondatori che sono dei giganti del sapere e della ricerca: da Durkheim a Tönnies, da Weber a Simmel, da Pareto a Parsons. E in seguito, nel corso del Novecento, la sociologia è stata illustrata da personaggi come Elias e Goffman, Boudon e Luhmann, Schütz e Merton, Elster e Riesman, Giddens e Beck - solo per fare qualche nome tra i più famosi, noti anche a un pubblico non specialistico.

Una simile fioritura d’ingegni - diversissimi tra loro quanto a stili e metodi di pensiero - testimonia della straordinaria rilevanza e fecondità del proposito originario della sociologia: l’analisi della società, cioè della dimensione che si colloca tra il soggetto e lo Stato, e che dà loro sostanza e fondamento. La sociologia assume infatti che i pilastri del pensiero politico moderno - individualità e statualità - non possano essere pensati come entità autosufficienti, ma siano comprensibili come momenti interni a un universo di relazioni e di interazioni reali, appunto la società, nella quale i soggetti agiscono rapportandosi variamente con altri soggetti, con le comunità, con le istituzioni, con le forme del potere.

È questa concretezza e questa multiformità relazionale della società la sfida a cui la sociologia vuole rispondere, evitando quelle che le paiono le parzialità, le semplificazioni, le astrattezze di altre discipline, come la filosofia, l’economia, il diritto. Questo progetto di analisi del Tutto si è ben presto arricchito e complicato: la sociologia si è divisa tra sostenitori del primato dell’agire soggettivo e teorici della precedenza delle grandi strutture impersonali; tra fautori dei metodi qualitativi e di quelli quantitativi o empirici; tra strutturalisti e funzionalisti; tra chi crede del ruolo applicativo della sociologia - un sapere che avrebbe la vocazione a stabilire una sorta di alleanza "illuministica" o tecnocratica col potere - e chi ne enfatizza la capacità critica e demistificatrice.

Soprattutto, la sociologia si è profondamente articolata in numerosissime branche e specializzazioni, che indagano ogni angolo e ogni versante dell’esperienza individuale e dell’esistenza collettiva, stabilendo così nuovi legami - alla pari - con altre scienze umane.

Eppure, in questa crescita c’è stato anche il seme del declino. L’ampliamento dello spettro degli obiettivi, proprio in ottemperanza all’imperativo di aderire alla realtà sociale in tutte le sue molteplici dimensioni, ha fatto nascere molte sociologie quasi autoreferenziali, sprofondate nei propri oggetti anche minimi, poco capaci di dialogare tra loro e molto differenziate per metodi e obiettivi, che faticano a essere riconducibili a un’epistemologia comune, a quella "terza cultura" - non solo scientifica e non solo umanistica - che la sociologia vorrebbe essere.

A ciò si aggiunga la continua trasformazione dell’oggetto - la società -, causata dalle sconvolgenti trasformazioni del mondo contemporaneo, dei suoi spazi politici e dei suoi attori, che disorienta, oltre che altre discipline, anche e forse più la sociologia: proprio in quanto vuol essere sensibile a ogni mutamento, questa è destinata a inseguire e a volte anche a subire i cambi di struttura e di paradigma che la nostra epoca di transizione reca con sé. Il Tutto sociale si è fatto tanto complesso da risultare quasi imprendibile.

Così, benché ancora molto "utilizzati", non si può dire che i sociologi siano oggi gli intellettuali di riferimento primario, dubbio onore che tocca più ai filosofi, agli economisti, ai politologi, agli antropologi. Al netto di ogni altro problema specificamente italiano - necessità di ringiovanimento, di riorganizzazione, di internazionalizzazione - proprio nel vanto della sociologia, la sua capacità di aderire a una realtà mobile e sfuggente come la società, sta anche la fonte primaria dei suoi problemi.

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La nazione oscurata

di Guido Crainz (la Repubblica, 04.05.2010)

Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all’interno della coalizione.

Certo, anche nelle celebrazioni del 1911 e del 1961 non erano mancati momenti polemici, alimentati dalle forze intellettuali e politiche che si sentivano in qualche modo ai margini del processo (repubblicani, socialisti e cattolici, nel 1911), o non si riconoscevano per intero nell’orizzonte culturale che improntava le celebrazioni (e che risentiva ampiamente, nel 1961, dell’egemonia politica della Democrazia Cristiana). Erano momenti di riflessione - talora anche segnali di delusione, come già nel 1911 - che dialogavano con un’impostazione "forte" e prevalente delle celebrazioni e dell’identità: non ne mettevano in discussione le fondamenta né la svilivano. Erano, insomma, posizioni nobili. Avevano a che fare con un’idea alta di nazione, facevano parte a pieno titolo di quel confronto culturale di cui le identità si nutrono.

Non è così oggi, e le parole del ministro Calderoli - nel loro non eccelso profilo culturale - appaiono realmente contundenti proprio per questo: proprio perché non si infrangono contro un solido e condiviso muro ideale ma rivelano ancor di più, semmai, la fragilità crescente - pericolosamente crescente - delle barriere che sono state erette. La vicenda stessa delle celebrazioni ufficiali, del resto, ha mostrato più del dovuto quella fragilità. Ha illuminato anch’essa il dramma di un paese che sembra impaurito dal futuro e infastidito dal passato.

La riflessione deve muoversi allora su due versanti. Deve riguardare le dinamiche politiche che queste e altre sortite leghiste possono innestare (poco importa se contraddette o "interpretate" da altre forze del governo), ma anche - e soprattutto - lo "stato della nazione". Sul primo versante appare in tutta la sua pericolosità il rinsaldato connubio fra l’offensiva leghista - che i risultati elettorali avevano inevitabilmente preannunciato - e una egemonia del premier che da tempo mette sempre più apertamente in discussione i tratti costituzionali essenziali della Repubblica (anche per questo, forse, l’intervento del cardinale Angelo Bagnasco assume un valore particolare e in qualche modo impegnativo anche rispetto al riemergere di umori anti-risorgimentali che nel mondo cattolico non sono mancati).

La pericolosità del connubio fra Berlusconi e Bossi è aumentata a dismisura proprio dallo "stato della nazione", e il confronto con il 1911 e il 1961 è purtroppo illuminante. Nel 1911 il paese era attraversato sì da contraddizioni sociali e da tensioni anche forti ma si era ormai avviato all’industralizzazione e a forme democratiche meno incompiute: in quello stesso anno, ad esempio, il governo annunciava la riforma elettorale che avrebbe portato di lì a poco al suffragio universale maschile. Si pensi anche al centenario dell’unità nazionale, nel 1961: era celebrato nel pieno del "miracolo economico", e le euforie del boom nascondevano semmai le contraddizioni pur esistenti, sia nel presente che nel passato.

Oggi, invece, vengono al pettine tutti i nodi di una crisi della Repubblica che aveva avuto la sua incubazione negli anni ottanta e il suo primo esplodere all’inizio del decennio successivo. Superati i momenti più drammatici di quel trauma il paese scelse - nella sua grande maggioranza - di non fare i conti con quei nodi. E quindi di aggravarli. Nel 1993 un bel libro di Gian Enrico Rusconi aveva come titolo Se cessiamo di essere una nazione. C’è da chiedersi se in un prossimo futuro non dovremo ricorrere a un titolo ancor più pessimistico.

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Sul tema, in rete, si cfr.: 

 

VOLONTA’ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA. CARLO GALLI NON HA ANCORA CAPITO CHE, NEL 1994, CON IL PARTITO "FORZA ITALIA", E’ NATO ANCHE IL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.

VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA.

L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.

FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO .... 
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
 

 L’IDENTITA’ ("TAUTOTES") E IL DESTINO DELL’ITALIA, NELLE MANI DI UN "UOMO PRIVATO" ("IDIOTES") E DEL SUO PARTITO ("FORZA ITALIA")!!! Gloria e de-stino della Necessità?! Boh?! Bah?!

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Martedì 04 Maggio,2010 Ore: 17:27
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 04/5/2010 18.54
Titolo:AL SERVIZIO DI Quel diritto privato libero di saccheggiare i beni comuni ....
Quel diritto privato di saccheggiare i beni comuni

La legge è stato lo strumento per difendere la proprietà privata. E se agli inizi della rivoluzione industriale era usata nei paesi europei e negli Stati Uniti, in seguito è intervenuta per legalizzare il saccheggio delle materie prime nel Sud del pianeta. Ora quello stesso dispositivo consente la privatizzazione dell’acqua, dei servizi sociali e della conoscenza

di Toni Negri (il manifesto, 04.05.2010)

Finalmente un «libro arrabbiato» e «coraggioso» da parte d’un ottimo giurista e di un’antropologa di buona caratura (Ugo Mattei e Laura Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, Bruno Mondadori). La relazione fra pensiero giuridico ed apologia delle istituzioni dell’ordine, della proprietà e dello sfruttamento di rado viene messa in questione e quando avviene lo è dall’esterno del mondo giuridico e in nome di ideologie moralizzanti o politicamente desuete.

Questo è invece un libro di critica del diritto dall’interno del diritto. «Con tutto quello che è stato scritto sulla dominazione imperialista e coloniale e sulla globalizzazione come manifestazione contemporanea di simili rapporti di potere fra l’Occidente opulento e il resto del mondo, colpisce la limitata attenzione dedicata al ruolo del diritto in questi processi. (...) Difficile non accorgersi che il diritto è stato ed è tuttora utilizzato per amministrare, sanzionare e soprattutto giustificare la conquista ed il saccheggio occidentale. Ed è proprio questo continuo e mai interrotto saccheggio che provoca - ben più delle ragioni legate a dinamiche corruttive interne ai paesi poveri con cui si tenta di colpevolizzare le vittime - la massiccia diseguaglianza globale. L’idea portante dell’autocelebrazione occidentale è legata a filo doppio a una certa concezione del diritto, quella che abbiamo reso in italiano, per sottolineare l’ambiguità, come regime di legalità (rule of law)».

Il progetto del libro non sarà allora solo quello di demistificare la funzione del diritto nella sua figura neo-liberale (cioè di indicarne la potenza di copertura, falsificazione e neutralizzazione dei rapporti di dominio in generale) - bensì sarà soprattutto quello di destrutturarne le figure, criticandolo e dissolvendone la funzione dall’interno dei suoi movimenti. In che modo?

Fornitori di legittimità

In primo luogo mostrando che il regime di legalità non è una sovrastruttura dell’economia liberista ma una macchina che funziona all’interno di questa, che per il liberalismo organizza direttamente la produzione e i mercati. Ne consegue che, nel colonialismo e nell’imperialismo, il diritto non ha fatto altro che svolgere ed applicare la rule of law, non solo estendendo i campi di efficacia del diritto borghese nei paesi fuori dal centro di sviluppo, ma costituendo, su queste figure, la vita dei popoli allo scopo di dominarli.

Vi è probabilmente un certo luxemburghismo in questo approccio - fosse non tutto corretto dal punto di vista della critica dell’economica politica ma sacrosanto da quello etico-politico. In secondo luogo, una volta riconosciuta la genesi, i processi di destrutturazione critica devono saper riconoscere chi fa funzionare la macchina, chi ne sono i «fornitori di legittimità».

Ecco dunque che ci troviamo di fronte a soggetti dominanti che utilizzano idealità supposte filosofiche e modernizzatrici, ipocrite costituzioni politiche ed in fine apparecchiature giuridiche funzionali che costituiscono i dispositivi di un materialissimo saccheggio delle ricchezze e dell’autonomia delle popolazioni dominate. Il diritto imperiale espande le figure del diritto coloniale, pretendendo nuova legittimazione in nome delle funzioni di globalizzazione. Che imbroglio!

A questo punto, in terzo luogo, il progetto di destrutturazione del diritto imperiale può rivolgersi verso l’interno dei paesi dai quali quel diritto è prodotto: per verificare un primo paradosso, e cioè che quel saccheggio del mondo intero, attuato attraverso figure giuridico-liberali, ora ritorna e deborda, all’interno dei paesi imperiali, imponendo lo smantellamento di quella legalità tradizionale che aveva permesso l’espansione e l’interno godimento dei sovrappiù imperialisti. Dopo aver tutto distrutto, il drago si mangia la coda.

Gli orti della resistenza

Come resistere a questi processi? Mattei e Nader sono, sul terreno politico, molto pessimisti. Il quadro che la globalizzazione ha fissato è, secondo loro, tragico. Anche le politiche della presidenza Obama - e la promessa di bloccare gli eccessi imperialisti bushani - sembrano loro perfettamente coerenti, nel bene o nel male, con il quadro fin qui delineato. Obama non può interrompere la macchina dell’imperialismo americano.

A me sembra che i nostri autori vadano tuttavia, sul terreno giuridico, più a fondo di quanto facciano sul terreno politico; e che la loro analisi ripercorra quella medesima via che percorse la critica, da Evgeny Pashukanis, grande critico russo del diritto privato e pubblico in generale, su fino a Jacques Derrida, critico contemporaneo della sovranità. Quando Derrida destruttura le determinazioni di potere del regime capitalistico e ne conduce la critica fino ad estreme conclusioni, verifica l’affermazione di Pashukanis che, globalizzazione o meno, il diritto pubblico ed il diritto borghese in generale sono sempre e solamente figure dell’appropriazione privata e che il diritto è in realtà sempre l’autoriconoscimento e la potenza armata della società borghese.

Come avanzare, una volta stabiliti questi presupposti, sul terreno della proposta politica? Nella modernità si è sognato che, contro Hobbes e Locke, fosse possibile trovare nel pubblico, nello Stato, nel potere democratico un’alternativa allo «stato di natura» ed alle sue più violenti espressioni. Da un lato una frazione di gesuiti spagnoli, polemici contro la modernità, dall’altro, sul fronte del materialismo, Spinoza, lo pensarono nel Seicento: la passione del «bene comune» avrebbe dovuto costruire un terreno, un riparo, che ci salvasse dalla violenza dalla prima accumulazione originaria del capitalismo. Non ci riuscirono, quei bravi, poiché il capitalismo si affermò comunque, svilendo la religione a suo strumento di potere e chiudendo l’utopia materialista negli orti della resistenza. Così la costruzione di un nuovo diritto pubblico integrò la continuità del diritto privato. Ma oggi siamo arrivati ad un punto di rottura.

Lungi dal costituirsi in luoghi di assenza di diritto, il comune comincia a mostrarsi e può esser definito come una potenza costruita oltre il privato ed il pubblico, oltre il contratto e la sanzione statuale. Per non averlo compreso la sinistra socialista e quella comunista, in Europa e in tutto l’Occidente, sono fallite. Inoltre, da quando abbiamo cominciato a ragionare di e dentro il «postmoderno», non possiamo più semplicemente rimembrare e dar sfogo alle eroiche alternative costruite nel «moderno» attorno all’idea del «bene comune». Dobbiamo invece arrivare a porre questo problema in termini di totale discontinuità con l’idea di un’appropriazione individuale, privata o pubblica, di qualsiasi bene.

Il potere dei ricchi

Il comune diviene ora un progetto di gestione democratica, impiantata dell’espressione delle singolarità e della loro necessità di vivere e di produrre in maniera cooperativa. Il comune è una realtà già in parte costituita dall’attività umana nel postmoderno e, dall’altra parte, un progetto per costruire e ripartire tutto quello che l’attività produttiva costruisce. Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti. A questo punto l’ordine giuridico (e le sue istituzioni) dovrebbero essere predeterminate a questa finalità.

Ma che fare per impedire che anche quest’ipotesi si riveli utopica? «È necessario riconoscere che è impossibile trasformare in maniera significativa il regime di legalità imperiale in un regime di legalità popolare senza una profonda ristrutturazione dell’ambito politico. Per poter procedere in questo senso è tuttavia necessario demistificare alcuni tabù, tra cui quello della desiderabilià per se dell’esperienza storica fin qui conosciuta come regime di legalità». Così concludono Mattei e Nader: questo regime difende i ricchi, la loro appropriazione di gran parte delle ricchezze prodotte in questo mondo.

I ricchi saccheggiano i poveri. Io credo che, ciò detto, la parola passi più che dal giurista al politico, dal giurista all’antropologo. L’esperienza di legalità: come farla oscillare verso una radicale trasformazione? Quali sono le condizioni materiali che possono permetterlo e dentro le quali il processo è in atto? Quali regimi dell’immaginazione e quali gli apparati di resistenza che romperanno, nell’animo delle moltitudini, l’idea della legalità ed imporranno il dovere della disobbedienza? Qual è il grado attuale di maturazione della demistificazione della legalità, nonché di generalizzazione della volontà di destrutturare questa ignobile realtà?

I politici sembrano del tutto ignari di queste questioni. Quando l’antropologia era una scienza della trasformazione e, nello stesso momento, un insieme di dispositivi atti a tirar le conseguenze dei suoi presupposti, la politica non serviva, bastavano i grandi movimenti delle moltitudini. L’Illuminismo fu questo.

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