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www.ildialogo.org Non so: dunque non sono,di Pietro P. Masina

LETTERA 148 - giugno 2010
Non so: dunque non sono

di Pietro P. Masina

Anche al di là dei limiti posti alla magistratura e ai mass-media dalla legge-bavaglio approvata al Senato per diktat di Berlusconi, e ora avviata alla Camera, l’aggressione alla libertà di informazione minaccia l’essenza stessa della democrazia e delle libertà personali.
“Sono informato e dunque sono” : è la storia a suggerirci questa constatazione. Ancor più evidente è la versione negativa. E cioè: “Non sono informato e dunque non sono, non esisto”. Penso ai milioni e milioni di persone che nel secolo scorso andarono a morire nel nome di ideali che in realtà erano traditi da chi li mandava al massacro: essi, i poveri soldati o i costruttori di opere faraoniche senza senso, o i lavoratori convinti che i padroni avessero sempre ragione e che dunque bisognava accettare salari di fame o che per andare in paradiso bisognava rassegnarsi alla miseria, tutti costoro furono vittime di mancanza di informazioni sulla realtà. La loro icona più celebre e più dolorosa è quella dei tre o quattro soldati giapponesi, che continuarono a vivere per trent’anni nelle giungle di qualche isola dell’Estremo Oriente, in una spaventosa solitudine e regrediti allo stato di uomini dell’età della pietra, perché mancavano di due informazioni essenziali; che il loro imperatore non era un dio invincibile e che la guerra era terminata.
Non sono soltanto realtà lontane negli anni e nei secoli. Milioni di esseri umani muoiono oggi perché le grandi imprese farmaceutiche negano informazioni sui farmaci che potrebbero salvarli. Milioni di esseri umani non sono in grado di sviluppare i loro talenti perché l’analfabetismo li priva delle necessarie informazioni sugli strumenti per svilupparli: a ragione Saint-Exupéry parlava di “piccoli Mozart assassinati” : un immenso giacimento culturale ed etico ridotto a cimitero.
Senza informazioni o con informazioni ridotte o con informazioni falsate non esistono vere democrazie. Non è possibile, infatti, valutare idee programmi persone, dunque non è possibile scegliere, non è possibile verificare i risultati delle proprie scelte. La mancanza di informazioni copre potere occulti, criminalità, massonerie, superstizioni. Chi manca di informazioni si aggira in un labirinto costellato di trappole, in cui la luce del sole non penetra mai.
Chi ci nega informazioni sta dicendoci: tu non sei degno di sapere, sei incapace di comprendere, sei un immaturo, sei una persona di serie B ( o C o peggio); hai bisogno che ti dica io cosa devi sapere e dunque cosa devi pensare. Ogni censura è un coltello alla gola della nostra libertà. Chi ci nega informazioni è un nemico, uno che cerca di diventare nostro padrone – o di rinsaldare il suo potere.
Non possiamo sperare di ricevere informazioni veritiere per sovrana concessione. Anche le notizie che ci vengono date o che abbiamo appreso non sono verità assolute. Abbiamo bisogno di verificare le fonti delle informazioni raccolte, di pesare le notizie confrontandole fra loro. Dobbiamo ricordarci che le voci di chi “non conta”, di chi è povero, di chi ha fame e sete di giustizia sono spesso esili o imbavagliate. Cercare informazioni è un lavoro difficile ma significa cercare la verità, che è la missione del giornalista ma anche di ogni uomo.
Mentre rifletto su queste elementari verità, leggo un drammatico rapporto sulle vendite calanti dei quotidiani italiani: in un anno -9 per 100. Mi figuro la gioia di Berlusconi nell’apprendere questa notizia: non ci ha appena proposto di scioperare contro i giornali, rei a suo dire (anche quelli di sua proprietà!) di remargli contro?
Il problema della mancanza di informazione e dunque della gracilità della nostra democrazia è dunque allarmante, a prescindere dell’offensiva berlusconiana, Siamo da sempre il fanalino di coda del mondo democratico quanto a spese per le nostre letture. La crisi economica ha aggravato ulteriormente il fenomeno. Se bisogna tagliare il bilancio famigliare eliminando le spese “meno necessarie”, è quasi automatico per moltissimi, cominciare dall’acquisto di giornali e di libri: “tanto c’è la televisione”. Ridursi al piccolo schermo, non sembra, a troppi, una privazione dolorosissima: non ti passano forse, Rai e Mediaset, notizie e intrattenimento? L’altro giorno, per l’appunto al video, il governatore del Veneto, Luca Brillantina Zaia, ci spiegava che 13 milioni di famiglie italiane sono al livello di povertà; si può pensare che questi nuclei possano permettersi 25 o 26 euro di spesa al mese? Dunque, soltanto 3 milioni circa di quotidiani venduti ogni mattina per 47 milioni di cittadini con diritto di voto. Un’ enorme riserva di caccia per il Cavaliere e i suoi bardi: il giulivo Capezzone, l’onesto Minzolini, il roseo Bondi, il carezzevole Bonaiuti, l’imparzialissimo Vespa, il moderato Emilio Fede (si cerca di ridere per non piangere)…
E non va dimenticato che le statistiche più serie ci avvertono che gli italiani analfabeti (primari o “di ritorno”, per lo più anziani e meridionali, ma non solo) sono almeno 2 milioni e mezzo. Anche in questo caso l’ importanza della scuola incrocia tutti i problemi del nostro paese. Ma la mia sensazione è che insegnanti e giovani siano ancora lasciati troppo soli, a reggere le cretinerie della Gelmini, i tagli iconoclasti di Tremonti e l’incultura casermizia di Silvio Berlusconi.
2. Pomigliano e i Promessi Sposi
L’arroganza con la quale il signor Marchionne ha accompagnato il suo diktat su Pomigliano, descrivendo una mandria di operai renitenti al buonsenso, sfaticati, viziati dai sindacati, insomma cialtroni da rieducare con severa disciplina, mi fatto ricordare un’ingiuria contenuta in un libro famoso: “Vile meccanico!”. Ho cercato conforto alla mia impressione sul Grande Dizionario della Lingua Italiana e, sì, avevo ragione: “Vile meccanico” è l’insulto che un nobile arrogante rivolge al futuro padre Cristoforo del Manzoni, prima di incrociare la propria spada con la sua.
Questa mia un po’ narcisistica ricerca mi ha dato frutti imprevisti. Nelle pagine che ho sfogliato ho trovato una ricchissima antologia di citazioni di scrittori italiani che si affannano a dimostrare la miserabilità culturale ma anche etica dei lavoratori meccanici (cioè manuali) nei confronti della sapienza dei dotti, dei governanti, insomma dei “signori”. È evidente come nella nostra cultura (ma certamente non solo nella nostra) la violenza di classe abbia origini antiche. Mi pare importante sottolinearlo in un momento in cui Marchionne è la punta di diamante, anche in Italia, di un capitalismo che non ha più alcuna di quelle caratteristiche “consociative” o almeno “misericordiose” che un tempo esibiva. Siamo di fronte alla negazione di tutte le conquiste sindacali a cominciare da quella ricerca di umanizzazione del lavoro richiesta dalla dottrina sociale della Chiesa. Nella cultura classista nella quale sono cresciuto (ma la spietatezza della lotta di classe veniva addossata ai poveri!), la percezione di una fatica fisica e nervosa di chi è sottoposto a lavori pesanti e a ritmi rapidissimi o non esisteva o si limitava a una generica compassione. “Tempi moderni” del grande Charlie Chaplin, nonostante la drammaticità di una situazione cui alludeva, provocava il riso dei borghesi molto più di una ribellione contro un sistema che rendeva durissima la vita del piccolo proletario. Per quanto mi riguarda, sono state la lettura de “La condizione operaia” di Simone Weil e un’esperienza di studio con lavoratori della Pirelli e della Breda (primi anni ’50) a segnare le mie scelte politiche.
Allora mi sembrò inevitabile che il proletariato continuasse, con maggiore o minore irruenza, a conquistare crescente dignità. Non andavamo, dopo la Liberazione, verso un’Italia più giusta? Non aveva l’umanità, dopo i roghi delle guerre e delle ideologie del secolo XX, acquistato una maggiore sensibilità per i diritti delle persone e dei popoli? Oggi, dopo tanto cammino, rifiuto di pensare che Marchionne possa essere il detentore di una formula ormai vincente, e mi stupisce (e più mi addolora) che tanta parte dei sindacati e delle sinistre sembri non rendersi conto della gravità dell’episodio di Pomigliano; e anche della coraggiosa risposta data da quei lavoratori al referendum-ricatto della FIAT.
Mi è sembrato inoppugnabile quanto ha scritto Eugenio Scalfari sul fenomeno dei “vasi comunicanti”, uno dei fenomeni fisici più facilmente dimostrabili: se si versa un liquido in recipienti fra loro comunicanti, il liquido, qualunque sia la sua quantità e qualunque sia la forma dei recipienti, tenderà ad avere lo stesso livello: “La globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro (…) ha accen-tuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.?Le grandezze economiche (…) tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente, i salari.?I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradual-mente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.??In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano”.
Non v’è chi non capisca che ciò significa condanna dei lavoratori dell’Occidente a una condizione servile. Livellare i loro redditi a quelli dei lavoratori dei cosiddetti paesi emergenti significa entrare nel mondo di un capitalismo selvaggio nella sua crudeltà: quello delle FIAT che consegnavano ai golpisti argentini l’elenco dei dipendenti “sovversivi”, quello delle multinazionali che prosperano sul lavoro infantile, quello delle mafie che gestiscono i feroci cottimi di giovanissime operaie al confine tra USA e Messico o quelle nostrane che, secondo la denuncia di alcune ong del Meridione, obbligano all’aborto lavoratrici straniere.
Dire da subito alto e chiaro a Marchionne e ai suoi mandanti il rifiuto non soltanto dei sindacati di categoria ma anche delle confederazioni, dei partiti e di tutti i democratici appare drammaticamente necessario. E io vorrei concludere questo mio grido di allarme e questo mio impegno di testimonianza ( a questo devono servire i vecchi) segnalando una speranza che ha i colori del “possibile”: Nell’Estremo Oriente sembra chiaro che centinaia di milioni di lavoratori diventati “meccanici” comincino a porre con forza la richiesta di una maggiore dignità e di un migliore livello di vita.
Molte altre cose su Marchionne vs Pomigliano le ha scritte mio figlio Pietro in un articolo per il “manifesto”. Mi piace qui riprodurlo.
3. Gli operai? Eccoli
Si era detto che gli operai erano scomparsi e che l’Italia fosse ormai un paese post-industriale: ma gli operai sono ricomparsi sui tetti, sulle gru, o provocatoriamente sull’isola dei cassaintegrati. Si era detto che fosse finita la centralità della fabbrica: ma per giorni la vicenda di Pomigliano ha occupato le prime pagine dei giornali e attirato grande attenzione nel paese nonostante i mondiali di calcio. Addirittura, si era ipotizzato che fosse ormai superato il conflitto di classe: eccolo squadernato davanti a noi nelle sue forme più classiche, ancora una volta agito dalla FIAT contro i suoi lavoratori e contro le rappresentanze sindacali. E con il referendum di Pomigliano si scopre che – pur di fronte ad un doloroso ricatto – una parte significativa dei lavoratori non si piega, rilancia la lotta, apre uno spiraglio di speranza per sé e per il resto del mondo del lavoro.
La vicenda di Pomigliano è insieme antica e moderna. Moderna, perché il ricatto di Marchionne si basa su una sempre maggiore mobilità del capitale, assume forme inedite nell’attacco ai diritti del lavoro, punta ad imporre un modello di relazioni industriali estraneo alla cultura italiana ed europea. Antica, perché al fondo c’è la lotta sul controllo dei tempi della produzione, sull’intensità del lavoro, insomma sull’estrazione del plusvalore dal lavoro operaio. Antica, perché nonostante le innovazioni tecnologiche e la robotica il lavoro di fabbrica resta un lavoro di muscoli e di sudore, ossessivamente ripetitivo ed alienante, che usura i corpi e piega le menti.
Il diktat della FIAT su Pomigliano colpisce il sindacato per isolare il lavoro. La partita centrale è l’introduzione della produzione a ciclo continuo – lavoro di giorno e di notte, con turni che sconvolgono le vita dei lavoratori e delle loro famiglie – e di un nuovo sistema per il controllo del ritmo del lavoro (Ergo-UES). Con una nuova combinazione di ergonomia e metrica (cioè il tempo di esecuzione di ogni operazione) si intensifica la produzione tanto da renderla competitiva con quella di impianti in paesi cui il costo del lavoro è più basso che in Italia. Altro che operai sfaticati – a Pomigliano si chiede di fare da cavia per modalità produttive che, in forme meno esasperate (come a Melfi), hanno portato a livelli altissimi di patologie fisiche causate appunto da condizioni lavorative eccessivamente usuranti. La battaglia di Pomigliano è tutta qui. Ai lavoratori si chiede di scambiare un lavoro probabile – perché l’azienda si riserva di decidere se e quanto investire – con la rinuncia al diritto di esprimere la propria voce su questioni che toccano addirittura la stessa integrità fisica.
Il referendum di Pomigliano segna uno spartiacque non solo nella storia delle relazioni industriali in Italia, ma addirittura nella storia politica di questo paese. L’esito della partita in gioco non è chiaro né scontato. Fiat, Confindustria e il governo puntano a fare di Pomigliano un nuovo paradigma – superamento del contratto nazionale del lavoro, aggiramento dello statuto dei lavoratori, fine del sindacato come soggetto autonomo di rappresentanza dei diritti dei lavoratori. La forte opposizione dei lavoratori nel referendum ha messo un paletto di traverso ed ha impedito che la partita si chiudesse con una vittoria schiacciante della Fiat. Ma la Fiom e i lavoratori di Pomigliano alla lunga saranno sconfitti se saranno lasciati soli come è avvenuto in queste settimane – il risultato del referendum può portare ad un ripensamento da parte della dirigenza della CGIL e del PD, ma deve riuscire a parlare anche ad un paese che crede sempre meno alle favole di Berlusconi senza però avere di fronte alternative credibili. La scelta dei governi europei di rispondere alla speculazione finanziaria attraverso piani di aggiustamento strutturale (comprimendo i redditi e i consumi dei ceti medio-bassi, quindi inevitabilmente portando ad un’ulteriore contrazione della crescita) è destinata ad esacerbare la tensione sociale. Questa tensione può (e molto probabilmente lo sarà) essere intercettata dalla destra ed esprimersi in forme ulteriori di degrado (contro gli immigrati, i diversi, degli uni contro gli altri); o può saldarsi alle lotte dei lavoratori che prima sui tetti e ora nel cuore di una grande fabbrica tornano a far sentire la propria voce. Altro che fine della centralità della fabbrica: il futuro politico dell’Italia si riapre proprio a partire da una nuova ed antichissima lotta operaia.
Pietro P. Masina
Professore associato
Università di Napoli “L’Orientale”


Mercoledì 07 Luglio,2010 Ore: 23:36
 
 
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