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Europa?

di Jose Padova

Probabilmente gli anni dal 1945 a oggi sono percepiti come anni di progresso, di pace, di speranza. La realtà è diversa: i popoli sono rimasti quelli di sempre, la guerra di Jugoslavia ha sonato la sveglia, il grande convitato di pietra, il Tedesco, non più con Wehrmacht e SS, ma con le norme europee tagliate sulla sua misura, incombe e comanda come un tempo. Riporto qui alcune riflessioni sulla recente storia, che stiamo vivendo anche sulla nostra pelle. (J.F.Padova)
 
 
Dov’è l’Europa
Il racconto.
Nel recente appello di papa Francesco a Merkel & C. c’è tutta la crisi dell’Unione. Ma il tradimento del progetto comune si è consumato in quattro momenti cruciali. Il trattato fu l’inizio.
Il Trattato di Maastricht fu siglato il 7 febbraio 1992, in Olanda, dai 12 Paesi della Cee. Il patto entrò in vigore il 1 novembre 1993. Viaggio negli errori che hanno fatto deragliare l’Europa: al vertice di Nizza del 2000 sull’inclusione dei paesi dell’ex blocco sovietico, Germania e Francia invece di parlare di democrazia e valori si accapigliarono sul peso dei voti in Consiglio
L’allargamento a Est tra burocrazia e liti: così l’Unione gettò il seme dei nuovi Muri
ANDREA BONANNI
(Da “la Repubblica”)
 
«DOVE SEI, Europa?». L’appello che papa Francesco ha lanciato in Vaticano davanti a Merkel, Renzi, e ai massimi dirigenti della Ue dà il senso della crisi in cui si trova l’Europa, ma anche la misura, il sapore di una assenza. È come se l’idea di un continente unito, solidale, identitario, cresciuta e viva nelle nostre coscienze come in quelle del mondo che ci guarda, non trovasse più corrispondenza nella realtà. Ma dove si è persa, allora, l’Europa?
Ognuno risponderà a questa domanda secondo le proprie inclinazioni politiche e le proprie utopie frustrate. Ma ci sono quattro snodi, quattro momenti cruciali nella storia dell’Unione, in cui le cose non sono andate come avrebbero dovuto. Quattro “atti mancati”, per usare un termine psicoanalitico, con cui il progetto europeo ha scartato dalla strada segnata per venire ad arenarsi nella crisi attuale.
Il primo inciampo ha come sfondo Maastricht, anonima cittadina olandese sulla Mosa, al confine con Francia, Belgio e Germania. Siamo nel dicembre 1991, il termometro sfiora lo zero. Da poche ore, l’Unione Sovietica si è sciolta. La Germania è riunificata da un anno. La Jugoslavia non esiste più. In Croazia si combatte e si uccide. L’Est europeo si misura con la scoperta della democrazia. I dodici capi di governo dei Paesi che compongono la Comunità europea si ritrovano nel palazzo del governatore del Limburgo, su un’isoletta in mezzo al fiume, per cercare di tenere il passo con la Storia. Che ancora una volta corre più veloce di loro. Al tavolo siedono, tra gli altri, Helmut Kohl, Francois Mitterrand, Giulio Andreotti, John Major. L’olandese Ruud Lubbers presiede l’incontro.
Oggi Maastricht è inscritto nel museo della memoria europea come il vertice che mise le basi per l’Unione monetaria fissandone la data di nascita al 1° gennaio 1999 e definendo i famigerati parametri in materia di conti pubblici. In realtà, quel vertice avrebbe anche dovuto segnare la nascita di una vera unione politica, mettendo in comune non solo la moneta ma anche la difesa, la politica estera, la giustizia e le politiche sociali. Un progetto che però non arriverà mai al tavolo dei capi di governo riuniti sulla Mosa.
L’idea era stata lanciata nel 1990 a Roma, dalla presidenza di turno italiana, tre mesi dopo la riunificazione tedesca. La nascita di una grande Germania era stata accolta con preoccupazione dai partner comunitari: Italia, Francia e Gran Bretagna in testa. «Amo talmente la Germania, che ne preferivo due», è la cinica battuta di Andreotti che esprime gli umori di molte cancellerie. Helmut Kohl e il suo ministro degli esteri Wolfgang Schäuble (sì, proprio lui: l’attuale inflessibile ministro delle finanze tedesco) capiscono di dover rassicurare i colleghi. Il Cancelliere ripete spesso le parole di Thomas Mann: «preferisco una Germania europea a un’Europa tedesca». E agisce di conseguenza. Nasce così, tra Berlino e Bruxelles, dove siede il presidente della Commissione Jacques Delors, l’idea rivoluzionaria di un Trattato che lanci l’Unione europea, varando una vera unione politica che metta insieme moneta, esercito, diplomazia, politiche economiche e sociali. Andreotti coglie la palla al balzo e, nel dicembre del 1990, lancia la Conferenza intergovernativa che doveva definire i contorni della nuova creatura.
Ma l’idea non suscita solo entusiasmi. A Londra, John Major è furioso. Da sempre la Gran Bretagna si oppone a qualsiasi ulteriore passo di integrazione dell’Europa. Margareth Thatcher, da poco dimissionaria dopo uno scontro con i filo-europei del suo partito, si è battuta per anni contro quella che definiva la prospettiva di «un super-stato europeo». Ma è a Parigi che i programmi della Conferenza intergovernativa creano le maggiori perplessità. Mitterrand non si fida fino in fondo di Kohl, che ha negoziato l’unificazione tedesca alle sue spalle e ha riconosciuto unilateralmente l’indipendenza di Croazia e Slovenia innescando la guerra in Jugoslavia. All’Eliseo va bene che la Germania rinunci al super-marco, che domina l’Europa, in nome di una moneta comune. Non va altrettanto bene l’idea che la Francia rinunci alla sovranità sulla propria “force de frappe” nucleare e al seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per condividerli con gli altri europei. La “grandeur” francese, insomma, non è negoziabile.
Ancora una volta Kohl, con grande pragmatismo, capisce che non può irritare ulteriormente Londra e Parigi. E fa una improvvisa marcia indietro: una inversione di tendenza che Ruud Lubbers definisce nelle sue memorie «tradimento». Si arriva così al 30 settembre 1991, il «lunedì nero» dell’Europa nei ricordi dei diplomatici olandesi. Nel corso di una riunione dei dodici ministri degli esteri per discutere il Trattato di Maastricht, la proposta della presidenza di comunitarizzare, oltre che la moneta, anche la politica estera, la difesa e la giustizia riceve solo due voti: da Olanda e Belgio. La Germania si schiera con la Francia. L’Italia si adegua. Lubbers, furioso, telefona a Kohl. «Siamo pratici – gli risponde il Cancelliere – La mia amicizia con Parigi è più importante di questi progetti».
L’Europa politica muore così, due mesi prima del vertice di Maastricht che approverà infatti un’Unione europea mutilata e limitata alla moneta unica. L’ultima mutilazione è inflitta da Major che riesce a mettere il veto anche sull’Europa sociale. La Gran Bretagna, del resto, dà via libera all’euro solo dopo aver ottenuto il diritto a non farne parte. Anche Londra, come Parigi, vede nella moneta unica un modo per tagliare le unghie della Germania e del super-marco, niente di più.
La storia di questo parziale fallimento ha un codicillo di cui paghiamo ancora oggi le conseguenze. La Germania, costretta a rinunciare alla propria moneta-bandiera senza ricevere nulla in cambio sul piano politico, decise che, non potendo avere un marco europeo, avrebbero avuto un euro tedesco. Senza garanzie di una governance economica comune che facesse da cornice alla moneta unica, Berlino chiese ed ottenne una serie di parametri che vincolassero automaticamente gli altri Paesi ad una politica di bilancio rigorosa, sul modello di quella tedesca. Nacquero allora i famigerati «parametri di Maastricht», che già Romano Prodi definì «stupidi» e che oggi tormentano i sonni di Matteo Renzi. Non potendo darsi un’anima politica, l’Europa si dotò di un succedaneo burocratico. Non ce ne libereremo tanto facilmente.
 
Durante le trattative la proposta di una unione non solo monetaria ma anche politica, venne ostacolata da Francia e Inghilterra
 
ALLE quattro di mattina dell’11 dicembre del 2000 i volti dei capi di governo e dei ministri degli esteri che escono dalla sala del Consiglio europeo di Nizza sembrano disfatti. I leader sono talmente frastornati che non sanno neppure bene che cosa hanno deciso. Quello appena concluso è il più lungo vertice della storia dell’Unione. Quattro giorni e quattro notti di discussioni avvelenate, di un tutti contro tutti che lascia poche speranze sulla capacità dell’Europa di affrontare le importanti scadenze che la attendono. Perché il vertice di Nizza, cui seguirà un Trattato di Nizza dimenticato da tutti, è l’Appuntamento con la Storia: l’occasione che deve cambiare l’Unione e le sue istituzioni per prepararle all’allargamento verso i dieci Paesi dell’Est europeo che si concluderà quattro anni dopo.
Allora, più che di “allargamento”, la retorica comunitaria preferisce parlare di “riunificazione”, come per la Germania. Dimenticando che, in duemila anni, l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest non sono mai state unite, se non brevemente sotto il tallone nazista. Ma tant’è: l’idea della riunificazione racchiude in sé anche il superamento di una divisione, quella sì drammatica e dolorosa, imposta dalla Cortina di Ferro e da mezzo secolo di Guerra Fredda.
Romano Prodi, che allora era presidente della Commissione europea, oggi ricorda: «A Est come ad Ovest c’era un entusiasmo genuino e popolare all’idea di chiudere per sempre le ferite dell’era sovietica, di assicurare a quei popoli un avvenire democratico irreversibile». Ma allora, se l’obiettivo era così largamente condiviso, su che cosa si sono accapigliati per quattro giorni i capi di governo? Sul concetto di democrazia “esportata” a Est? Sulla nuova fisionomia e la nuova missione che avrebbe assunto l’Unione Europea allargata? Su come fare ad integrare differenze culturali vecchie di secoli e ingigantite da cinquant’anni di separazione? Sul ruolo che i nuovi arrivati avrebbero giocato nei difficili equilibri europei e nel progetto di integrazione?
Niente di tutto questo, che pure avrebbe meritato qualche approfondita riflessione. Il motivo del contendere, a Nizza, è la “ponderazione” dei voti in Consiglio. La Germania del cancelliere Schröder, con i suoi 82 milioni di abitanti post-riunificazione, chiede un riconoscimento della nuova dimensione demografica che la faccia passare da 29 a 32 voti. La Francia del presidente Chirac si oppone e pretende che nessun Paese abbia più voti di Parigi. Una miseria contabile che sfocerà in un compromesso complicatissimo di «tripla maggioranza», che non verrà praticamente mai applicato e sarà cambiato appena possibile.
Questa aridità ragionieristica darà, purtroppo, il segno a tutto il processo di allargamento verso l’Est. I Paesi candidati saranno costretti ad integrare nella loro legislazione nazionale tremila direttive e centomila pagine della Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Ma mai, neppure una volta, saranno chiamati ad interrogarsi sui valori che questo noiosissimo compendio giuridico- burocratico rappresenta. Né sui progetti per il futuro. Le concessioni economiche fatte sui fondi comunitari per aiutare lo sviluppo dell’Est verranno misurate con il contagocce da parte dei donatori e accettate quasi con risentimento dai beneficiati. La nascita di una comunità di mezzo miliardo di cittadini, un evento di portata storica che nessun impero aveva mai neppure immaginato, viene ridotta ad un gigantesco registro di partita doppia che lascia, in definitiva, tutti scontenti.
A questa serie di incomprensioni, si aggiungono due equivoci di fondo sulle questioni ignorate a Nizza. Equivoci che faranno sentire i loro effetti devastanti molti anni dopo.
Il primo riguarda il senso storico dell’allargamento. I quindici Paesi della Ue lo vedono come un gesto protettivo e uno slancio di generosità verso i «fratelli separati» da cinquant’anni di dominio comunista, e guardano alla riunificazione come al principale dividendo offerto dalla fine della Guerra Fredda, in cui si credono seduti dalla parte dei vincitori. I Paesi dell’Est vedono invece l’ingresso nell’Unione come un risarcimento dovuto per le sofferenza subite sotto il giogo sovietico. Si considerano i veri artefici, insieme con gli Stati Uniti, della caduta del comunismo e dunque guardano all’adesione come ad un diritto naturale e insindacabile in cui sono loro, e non i «vecchi europei», a portare valori costituenti e fondativi.
Il secondo equivoco riguarda il significato politico dell’allargamento e divide il nucleo storico dei Paesi europei e l’amministrazione “neo-con” di George W. Bush, appena insediata alla Casa Bianca. Appoggiata, come spesso succede, dai britannici. Per Washington e Londra, l’allargamento è una mossa geostrategica geniale che consente di incassare un doppio risultato. Da una parte isola la Russia di Putin, a sua volta appena arrivato al Cremlino, tagliando le residue influenze di Mosca sull’Est Europa. Dall’altra diluisce la spinta ad un approfondimento dell’integrazione europea verso una vera federazione. Un’Europa che si allarga non può, allo stesso tempo, approfondire i propri legami. Anche perché i nuovi arrivati non hanno alcuna intenzione di sacrificare a Bruxelles una sovranità appena ritrovata con la partenza dell’Armata rossa.
Questo equivoco diventerà palese nel 2003 con l’invasione anglo- americana dell’Iraq, fermamente osteggiata da Francia e Germania, quando il segretario alla Difesa americano, Rumsfeld, parlerà della «Vecchia Europa» franco-tedesca contrapponendola alla «Nuova Europa» nata con l’allargamento e favorevole alle tesi “neo-con”. Purtroppo, nella “Nuova Europa” al servizio di Bush si era iscritta all’ultimo minuto anche l’Italia di Silvio Berlusconi.
Negli anni, quel solco politico e culturale, ignorato a Nizza per discutere di ponderazione dei voti tra Schröder e Chirac, si è via via allargato. «Dopo la commozione autentica della cerimonia di Dublino, che nel maggio 2004 ha chiuso il processo di allargamento, tutto è cambiato rapidamente – ricorda oggi Romano Prodi – Passato l’incubo del pericolo russo, ad Est sono tornati i vecchi rigurgiti di una storia mal digerita. Sono riemersi gli spiriti nazionali e nazionalisti».
 
Da “La Repubblica”.
 
Le Monde Diplomatique, giugno 2016, pag. 1
Il gabinetto ministeriale del dott. Stranamore
Serge Halimi
 
Presto un domino cadrà: al candidato di estrema destra sono mancati trentamila voti per diventare presidente della Repubblica d’Austria. La vigila delle votazioni Jean-Claude Juncker aveva avvertito: «Con l’estrema destra non vi è né dibattito né dialogo possibile (1)». Eppure, si sarebbe potuto fare regalo migliore, a una formazione politica che si vanta di essere fuori dal sistema, di un ammonimento di questo genere da parte dell’ex primo Ministro di un paradiso fiscale (il Lussemburgo), diventato presidente della Commissione europea grazie a un intrallazzo fra la destra e i socialisti? I quali a Vienna hanno governato insieme per trentanove dei sessantanove ultimi anni e sono stati spazzati via già al primo turno dell’elezione presidenziale.
Dotato di un parere su tutto, Juncker ha detto ugualmente la sua anche sul progetto di legge El-Komri, esecrato da una maggioranza di francesi: «La riforma del diritto del lavoro, voluta e imposta dal governo Valls, è il minimo di ciò che occorre fare». Un minimo? Sì, giudica Juncker, quando lo si paragona a «riforme come quelle che sono state imposte (sic) ai greci».
I Trattati europei costituiscono in effetti un Himalaya di proibizioni, di regole e di purghe (o «riforme»). Amministrarle con rigore non obbliga ad afferrarne il senso. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha appena ammesso egli stesso di capire male il significato di questo «deficit strutturale» che nessuno Stato deve superare: «Si tratta di un indicatore difficile da presagire, difficile da gestire e difficile da spiegare. Una delle mie frustrazioni è il fatto che sale e scende senza che io sappia realmente perché (2)».
Eppure è in forza di opache statistiche di questa risma che la Grecia non smette di essere punita dalle Autorità europee, le quali le hanno imposto il voto di una legge di bilancio di settemila pagine, tre aumenti massicci della Tassa sul valore aggiunto (IVA), la privatizzazione di aeroporti a prezzi stracciati, l’aumento a 67 anni dell’età per il pensionamento, l’aumento dei contributi per malattia, la fine delle protezioni accordate ai piccoli proprietari incapaci di saldare i loro mutui... In cambio Atene ha appena ottenuto un prestito, destinato quasi totalmente a permetterle di rimborsare gli interessi del suo debito estero. Il Fondo monetario internazionale [FMI, diretto dalla Lagarde] ha un bell’ammettere che questo debito è «insostenibile», la Germania rifiuta la sua riduzione.
Berlino e la Commissione europea tuttavia sanno ben mostrarsi indulgenti. E non soltanto nei confronti del Regno Unito di David Cameron. Così nessuna sanzione è stata inflitta alla Spagna, il cui deficit di bilancio supera allegramente il limite autorizzato dai Trattati. Né Bruxelles né Berlino hanno voluto disturbare il governo di Mariano Rajoy – membro della stessa famiglia politica di Juncker e Angela Merkel… - prima delle elezioni legislative spagnole del 26 giugno.
Imporre crudeli sacrifici a popoli interi nel nome di regole che non si è capaci di capire da sé stessi, dimenticarle non appena i compari politici le trasgrediscono: è anche su questo terriccio di amoralità e di cinismo che l’estrema destra europea avanza.
 
(1Le Monde, 21 mai 2016.
(2Les Échos, Paris, 29 - 30 avril 2016.
 

 



Venerdì 03 Giugno,2016 Ore: 19:58
 
 
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