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www.ildialogo.org Lo Stato Islamico, un mostro provvidenziale,di Peter Harling

Le Monde Diplomatique, settembre 2014
Lo Stato Islamico, un mostro provvidenziale

Dall’Egitto all’Iraq, il caos si installa là dove gli Stati si ritirano


di Peter Harling

L'articolo allegato è uscito su Le Monde Diplomatique in settembre 2014. Sono trascorsi sei mesi da allora, ma le osservazioni sull'essenza, la struttura e i fini di questo sedicente Stato sembrano essere sempre più centrate. JFPadova
 
Rapide ed estese, le conquiste militari dello Stato Islamico in Iraq e in Siria stupiscono contrastano la strategia degli Stati Uniti. Per «estirpare il cancro» jihadista Barack Obama vuole poter contare soprattutto sugli attori regionali. La focalizzazione su questo comodo spaventapasseri risparmia a tutti riesami dolorosi.
Peter Harling è  ricercatore presso l’International Crisis Group.
(Traduzione dal francese di José F. Padova)
Lo Stato islamico, questo movimento jihadista, che ormai controlla gran parte del nord-est della Siria e del nord-ovest dell’Iraq, sembra tanto determinato e sicuro di sé quanto la regione che lo circonda è confusa. Esso non costituisce per niente un nuovo Stato, poiché rifiuta la nozione di frontiera e fa ampiamento a meno d’istituzioni. Al contrario ci fa sapere molto sulla situazione in Vicino Oriente e in particolare su quella degli Stati della regione, senza parlare delle politiche estere degli Occidentali.
Questo movimento di conquista ha un’identità straordinariamente chiara, data la sua composizione – volontari arrivati da ogni dove – e le sue origini. La storia ha inizio in Iraq quando, in seguito all’invasione americana del 2003, un pugno di mujaheddin reduci dalla guerra dell’Afghanistan mettono in piedi un franchising locale di Al Qaeda. Molto presto la loro dottrina si dissocia da quella della loro casa-madre: essi danno priorità al nemico vicino piuttosto che all’avversario lontano, prevedibilmente rappresentato dagli Stati Uniti o da Israele. Trascurando sempre più l’occupante americano scatenano una guerra confessionale fra sunniti e sciiti, poi entrano in una logica fratricida. La loro estrema violenza si rivolge contro i traditori e gli apostati, identificati nei sunniti, vale a dire nel loro proprio campo. L’autodistruzione che ne segue, fra il 2007 e il 2008, riduce questa zona d’influenza a qualche estremista riparato entro i confini del deserto iracheno.
Se lo Sato islamico effettua uno spettacolare ritorno sulla scene una parte del merito gli va riconosciuta. I suoi nemici dichiarati, la cui lista, impressionante, forma una specie di Who’s Who dello scenario strategico regionale, gli hanno aperto un’autostrada. I governi del Primo ministro iracheno Nouri Al Maliki e del Presidente siriano Bashar Al-Assad, innanzitutto, che hanno usato tutti i mezzi possibili e immaginabili – e anche inimmaginabili, come nel caso delle armi chimiche in Siria – per combattere, nel nome di una pretesa «guerra contro il terrorismo», un’opposizione sunnita che si erano sforzati di demonizzare. I loro partner di circostanza, Washington in un caso e Mosca nell’altro, che in seguito li hanno incoraggiati. L’Iran, che ha fatto più che offrire loro un sostegno incondizionato: nel mondo arabo, Teheran persegue una politica estera che si riassume sempre più nell’appoggio a sacche di miliziani sciiti, ciò che contribuisce alla polarizzazione confessionale.
Non dimentichiamo le monarchie del Golfo, i cui petrodollari, distribuiti a piene mani, finanziano un’economia islamista parzialmente occulta. La Turchia, da parte sua, per un certo periodo ha aperto alla grande la sua frontiera con la Siria ai jihadisti venuti dalla Francia, dalla Navarra e perfino dall’Australia. Gli Stati Uniti infine, devono essere giudicati in contumacia: dopo un decennio di insensata agitazione sotto l’egida del Presidente George Bush. Barack Obama ha optato per la posizione opposta, ovvero per un lasciar fare flemmatico e altezzoso, mentre governi in fallimento, in Siria e in Iraq, appaiono evidentemente come vivai di jihadisti. In due anni lo Stato islamico non soltanto è fiorito, ma si è anche trapiantato a poco a poco, fino a invadere grandi città come Rakka, Falluja e Mosul. Fatto saliente: si tratta del primo movimento, nel mondo arabo, che esce dal jihadismo marginale.
Una parte del suo successo deriva dalla sua strategia, che si potrebbe riassumere con il concetto di consolidamento. Esso ha meno l’ambizione di «conquistare il mondo», come suggeriscono d’intesa i suoi propagandisti e i suoi detrattori, che quella di ancorarsi solidamente negli spazi che occupa, cosa che lo spinge a più pragmatismo di quanto s’immagini. Fino a poco tempo fa i suoi combattenti monetizzavano i loro prigionieri occidentali invece di ucciderli; l’esecuzione di un ostaggio americano come risposta ai colpi in Iraq, il 19 agosto, sotto questo aspetto ha rappresentato un cambiamento significativo. Essi impiegano un’energia tutta particolare nel battersi per i pozzi di petrolio che garantiscono loro una notevole autonomia finanziaria. Attaccano volentieri fragili rivali sunniti nelle loro zone preferite, ma l’entusiasmo si sgonfia nel caso di scontri con avversari più seri: partecipano poco alla lotta contro il regime siriano, evitano il faccia a faccia con le milizie sciite irachene e moderano il loro antagonismo nei confronti delle fazioni curde.
Tuttavia, lo Stato islamico ha poco da offrire. La situazione disastrosa a Mosul lo illustra ampiamente. Le sue risorse, considerevoli, non bastano per una forma qualsiasi di redistribuzione. I suoi sistemi di governo sono anacronistici: una risurrezione delle pratiche del Profeta dell’Islam, cosa che sarebbe molto scomoda perfino se fosse capita bene. Al di là di questa utopia malamente sgrossata esso non si fonda, paradossalmente, su nessuna teoria di Stato islamico – una lacuna questa nel mondo sunnita in generale, in contrasto con la dottrina scita della Rivoluzione iraniana. Nel migliore dei casi mette in opera una visione più codificata della guerra, che gli procura un vantaggio in rapporto ai gruppi armati che si danno alla criminalità pura e semplice. Questa codificazione rafforza la sua coesione d’insieme grazie a pratiche e a un discorso violenti, ma relativamente elaborati.
Nei sunniti un sentimento d’ingiustizia
In fondo, lo Stato islamico si accontenta soprattutto di riempire un vuoto. Occupa il nord-est della Siria perché quel governo l’ha essenzialmente abbandonato e perché l’opposizione, che avrebbe eventualmente potuto supplire, è stata abbandonata dai suoi presunti padrini, in particolare dagli Stati Uniti. Esso si è riversato in città come Falluja e Mosul perché il potere centrale a Bagdad non se ne preoccupava per niente, mantenendovi una presenza allo stesso tempo corrotta, repressiva e precaria. La sua rapida espansione in zone controllate da forze curde, ma abitate da minoranze cristiane e yazide, nel nord dell’Iraq, si spiega con lo scarso interesse da parte dei loro presunti difensori, i Curdi, che hanno preferito ripiegare sul loro territorio naturale.
Conosciuto anche con l’appellativo «Daesh», il suo acronimo arabo con valenza negativa, lo Stato islamico riempie ugualmente un vuoto su un piano più astratto. Per semplificare, il mondo sunnita fatica tanto a rendere conto del suo passato quanto a ipotizzare il suo avvenire. Un XX secolo sconclusionato, che seguiva a una lunga occupazione ottomana percepita come un periodo di declino, si è concluso con una serie di fallimenti: antimperialismo, panarabismo, nazionalismi, socialismo, forme diverse d’islamismo, capitalismo, sono sfociati in esperienze ambigue e amare. Tranne in Tunisia, le speranze suscitate dalle sollevazioni del 2011 hanno deragliato, almeno per il momento, in altrettanti disastri. A chi rivolgersi per trovare una fonte d’ispirazione, di fiducia in sé stessi, di fierezza? Ai reazionari del Golfo e d’Egitto? Ai Fratelli musulmani, oggi annientati? Allo Hamas palestinese, ristretto nella trappola di un perpetuo vicolo cieco nella sua resistenza a Israele?
Durante questo periodo il mondo sciita, da parte sua, ha registrato successi, anche se parziali: l’Iran si è imposto come un interlocutore indispensabile per l’Occidente e ha intenzione di svolgere un ruolo sempre maggiore nel mondo arabo; Hezbollah detta legge in Libano e si consolida in un asse confessionale che collega Beirut, Damasco, Bagdad e Teheran. Ne consegue un fenomeno nuovo e allarmante: la maggioranza sunnita nella Regione sviluppa un complesso d’inferiorità – un sentimento confuso ma potente di marginalizzazione, di esproprio e d’umiliazione. Sono sempre più numerosi, e in un numero sempre crescente di luoghi, i sunniti che si credono e si dicono perseguitati e deprivati dei loro diritti elementari.
A un’osservazione pur benevola, le minoranze (sciita, cristiana, alawita, curda, ecc.), che tutte coltivano la propria identità vittimistica, si dimostrano per lo meno indifferenti alla sorte della maggioranza, o al peggio complici. L’Occidente non è da meno. Se il destino degli yazidi, che muoiono di fame dopo una fuga dispersi sulle montagne del Sinjar, preoccupa in sommo grado le cancellerie dell’Ovest, quello degli abitanti dei quartieri assediati di Damasco, dove un numero maggiore di sunniti sono affamati dal governo, lascia tutti impassibili.
L’elemento più inquietante è forse il fatto che lo Stato islamico è diventato la foglia di fico di un vuoto politico generalizzato. Tutti coloro che aborrivano la «guerra contro il terrorismo» di G. W. Bush, scorgendovi sia un’idea sempliciotta da pompiere piromane, sia il residuo aberrante di una logica imperiale, intonano ormai questa antifona, perché ciò evita loro di riflettere sul vero dilemma che la regione pone. Daesh giustifica tutti gli eccessi della fuga in avanti iraniana verso un maggiore settarismo sciita, come risposta al suo equivalente sunnita; le ambivalenze di un Occidente che non sa più dove sbattere la testa; i compromessi di una gran parte delle élite del mondo arabo in un’orgia di violenza controrivoluzionaria; o ancora l’alienazione crescente delle minoranze in rapporto al loro ambiente – una dinamica della quale esse stesse sono le vittime, ma anche le attrici, perché si aggrappano a forme di repressione che aggravano il problema.
Ne consegue una serie di aforismi uno più assurdo dell’altro. L’Iran all’Occidente: vogliateci bene perché Daesh ci minaccia. I regimi arabi ai loro popoli: non si cederà su nulla perché Daesh ci minaccia. L’opposizione siriana: salvateci da noi stessi perché Daesh ci minaccia. Hezbollah ai libanesi: tutto è permesso perché Daesh ci minaccia. Gli Stati Uniti: non si interviene in Siria perché Daesh ci minaccia, ma si colpisce in Iraq perché… Daesh ci minaccia.
La regressione agisce a tutte le latitudini. Non si fa altro che tirare fuori la «guerra contro il terrorismo» dalla pattumiera della Storia delle relazioni internazionali: vi si inzuppa anche la «protezione delle minoranze», secondo il metodo coloniale di un bombardamento della esagitata maggioranza. Alcuni bersagli colpiti in Iraq dagli aerei e dai droni americani sono un atto liberatorio, non già per gli Yazidi, il cui avvenire dipende da ben altri fattori, ma per la coscienza di un’amministrazione Obama che ha fatto spallucce e distolto lo sguardo come risposta a ogni sorta di violenze commesse in questi ultimi tre anni.
Gli Stati Uniti hanno finito col reagire in Iraq perché lo potevano fare a ogni buon conto: nessun rischi di escalation con lo Stato islamico, che non ha mezzi di ritorsione immediata. Nessuna levata di scudi nell’opinione pubblica americana o mondiale, largamente acquisita alla causa. Neppure complicazioni diplomatiche, perché Daesh fa attorno a sé l’unanimità sia all’interno del governo iracheno e della leadership curda come pure presso i vicini iraniani, turchi e sauditi.
Non perciò questi bombardamenti sono neutrali. Visti dalla Regione, al contrario, fanno senso. Per l’aleatorietà del calendario macabro delle carneficine in Vicino Oriente, essi arrivano dopo un mese di forsennato disinteressamento da parte di Washington per la sorte dei civili sotto le bombe a Gaza. Essi mandano anche un messaggio molto chiaro ai protagonisti della Regione: l’accurato dosaggio di «guerra contro il terrorismo» e di «protezione delle minoranze» può servire a ingraziarsi e a mobilitare la potenza americana. Massud Barzani, il presidente del Governo regionale del Kurdistan, l’ha capito bene, sprecandosi con un accattivante appello al soccorso sul Washington Post (1). Gli altri politici dei dintorni l’intendono allo stesso modo, dopotutto essi restano sordi soltanto agli appelli per un cambiamento positivo.
Risveglio libanese
C’è voluto che lo Stato islamico facesse la sua comparsa in Libano perché questo Paese tanto fragile uscisse dalla paralisi che lo opprime. Ma il movimento in avanti è anche un salto all’indietro: la classe politica e i suoi sponsor stranieri rilanciano sul sostegno all’esercito, che raccoglie adesioni nella sua caccia agli islamisti sunniti, ignorando la delicata questione di Hezbollah, che lascia libero di combattere al fianco dei governi vilipesi in Siria e in Iraq. Di fatto tutti i fattori strutturali d’instabilità sono giudicati secondari in rapporto all’urgenza di affrontare Daesh. In ambiente sunnita il sentimento di essere attaccati non fa evidentemente altro che aumentare.
Quindi lo Stato islamico ha davanti a sé una strada aperta, se i principali protagonisti continuano a sfruttare la sua presenza per sdoganare i loro errori. Gli islamisti sciiti, gli ambienti secolari e i governi occidentali ridefiniscono parzialmente i loro rapporti sulla base di una specie di guerra santa che diventa in sé una finalità. Gaza, lo Yemen, il Sinai, la Libia, perfino la Tunisia sono tutti terreni fertili per la sua espansione, in una parte del mondo in cui è diffusa una forte integrazione regionale, nello stesso tempo oltre le frontiere e anche all’interno di ogni Paese: a forza di esodi dalla campagna le frange territoriali si sono bene connesse con le grandi città.
Stretti legami esistono anche con le società occidentali, che producono una nuova generazione di candidati alla jihad. Costoro si recano facilmente in Siria o in Iraq, da dove comunicano e valorizzano le loro esperienze tirando raffiche tanto di tweet quanto di pallottole.
Rappresentando poca cosa in sé, lo Stato islamico si nutre di un effetto di sistema. Di volta in volta può costituire una forma di redenzione in contumacia, un alleato di circostanza, un ascensore sociale o un’identità come prêt-à-porter per ambienti sunniti che attraversano una crisi profonda. Serve come elemento di contrasto o di distrazione utile ai suoi detrattori più cinici e come spaventapasseri che concentra le paure di protagonisti messi di fronte ai loro propri fallimenti. Questa polisemia [ndt.: pluralità di significati], nella confusione che caratterizza questa era di cambiamenti caotici, costituisce il suo successo.
(1) Massoud Barzani, « Kurds need more US help to defeat Islamic State », The Washington Post, 10 août 2014.



Domenica 22 Febbraio,2015 Ore: 20:59
 
 
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