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www.ildialogo.org Proteggere i saperi tradizionali dei popoli autoctoni,di Clara Delpas e Pierre Williamjohnson

Le Monde Diplomatique -- gennaio 2014 - pagg. 13-14
Proteggere i saperi tradizionali dei popoli autoctoni

di Clara Delpas e Pierre Williamjohnson

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Cinquecento anni fa ebbe inizio, con la conquista dell'America centrale e meridionale, il saccheggio e la devastazione del territorio e lo sterminio delle popolazioni autoctone, che continuano anche oggi, specialmente nel bacino del Rio delle Amazzoni. Allora i conquistadores rubavano oro e argento, oggi le multinazionali della chimica, della farmaceutica e delle sementi rubano le conoscenze tradizionali delle popolazioni autoctone, il loro tesoro vegetale e genetico. Per porre un (tardivo) rimedio almeno a questi recenti furti ci si muove ora a livello internazionale. La strada da percorrere tuttavia è ancora lunga. JFPadova
Le Monde Diplomatique -- gennaio 2014 - pagg. 13-14
Proteggere i saperi tradizionali dei popoli autoctoni
Protagonisti principali nella protezione della biodiversità, i popoli autoctoni posseggono risorse genetiche ma anche conoscenze tradizionali che interessano le industrie dell’«economia verde»: farmacia, cosmetica, agricoltura o “alicamenti” [ndt.: contrazione dei termini “alimenti” e “medicamenti”]. Queste conoscenze sono oggi sottoposte a una logica di mercato sostenuta dagli uffici dei brevetti, che assecondano la loro commercializzazione.
Clara Delpas e Pierre Williamjohnson - rispettivamente: giornalista scientifica, autrice di Chroniques de la biopiraterie [Cronache della biopirateria], Omniscience, Montreuil, 2012; ricercatore in economia ecologica, esperto dei protocolli di Nagoya presso il Parlamento europeo, autore di Biopiraterie. Quelles alternatives au pillage des ressources naturelles et des savoirs ancestraux ? [Biopirateria. Quali alternative al saccheggio delle risorse naturali e delle conoscenze ancestrali?], Charles Léopold Mayer, Paris, 2012.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
A lungo emarginati o integrati a forza nella «comunità internazionale», i popoli autoctoni hanno avuto grandi difficoltà per fare sentire la loro voce nelle discussioni concernenti la protezione della biodiversità. Soltanto nel 1992 l’ONU ha riconosciuto che essi hanno [avuto] un «ruolo vitale da svolgere nella gestione dell’ambiente e dello sviluppo, data la loro conoscenza dell’ambiente e le loro pratiche tradizionali» (estratto del principio 22 della Dichiarazione di Rio.
Parallelamente le conoscenze autoctone hanno acquisito una forma di riconoscimento ufficiale da parte della comunità scientifica. Così, il rapporto “Valutazione degli ecosistemi per il Millennio” del 2005 (1) rileva la loro pertinenza e la seconda parte del quinto Rapporto del Gruppo d’esperti intergovernativo sull’evoluzione del clima (GIEC), che verrà pubblicato in marzo 2014, sollecita esplicitamente il loro contributo.
Il censimento delle conoscenze tradizionali sembra risponda a un lodevole obiettivo: evitare che vadano perse e attingervi risorse per rispondere a problemi planetari molto diversi, come la perdita della biodiversità, la sanità, la lotta contro la desertificazione o il riscaldamento climatico. Si inserisce in questa iniziativa la creazione nel 2010, da parte dell’UNESCO, di un Istituto internazionale delle conoscenze tradizionali, con sede presso Firenze in Italia. Al centro di questo progetto, la costituzione di una banca informatica mondiale delle conoscenze tradizionali mira a metterle a disposizione della comunità scientifica. Per questo il loro accesso non sarà libero: il suo contenuto è protetto dalla legislazione internazionale sulla proprietà intellettuale e riservato agli utilizzatori abilitati.
Oltre alla loro importanza per la risoluzione di problemi planetari, questi saperi riguardano tutta una gamma di sostanze e prodotti – fibre coloranti, conservanti, oli, profumi, veleni animali o vegetali, medicine e sementi … - in grado d’interessare l’industria, avida di protezione mediante brevetti o altre forme di diritti di proprietà intellettuale.
Contemporaneamente alla Dichiarazione di Rio – senza potere costrittivo –, l’articolo 8j della Convenzione dell’ONU sulla diversità biologica (CDB), adottata alla fine del 1993, chiede a ogni Paese firmatario di rispettare, preservare e mantenere le «conoscenze, innovazioni e pratiche delle comunità autoctone che presentano importanza per la conservazione e l’utilizzo durevole della diversità biologica», di favorirne «l’applicazione su più larga scala» con l’accordo e la partecipazione dei loro depositari e d’incoraggiare la «condivisione imparziale dei vantaggi derivanti dal loro utilizzo».
Caccia ai brevetti abusivi
L’ articolo 8j riconosce quindi le conoscenze tradizionali come risorse economicamente sfruttabili. Poco dopo, gli accordi sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio, costitutivi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) –nata nel 1995 -, impongono agli Stati firmatari l’instaurazione di sistemi di protezione intellettuale del tipo dei brevetti o di altri istituti sui generis. Da allora, le organizzazioni non governative (ONG), i Paesi del Sud e le comunità indigene criticano quest’ articolo, per il motivo che esso legittima l’accesso «gratuito» alle risorse genetiche e ai saperi tradizionali dei Paesi che non si fossero già dotati di una legislazione nazionale per regolarne l’impiego.
Un gruppo di lavoro incaricato di fornire pareri alle parti circa gli strumenti atti a rendere esecutivo questo articolo 8j è stato creato in occasione della 4° Conferenza dei partecipanti alla CDB a Bratislava, nel 1998. Allo stesso tempo l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI), organismo peraltro facente parte dell’ONU, si alleava all’OMC per estendere i vantaggi dei diritti di proprietà intellettuale, legati alle risorse genetiche e alle conoscenze tradizionali, a «nuovi gruppi target», come i popoli indigeni. Ora, fra questi ultimi sono numerosi quelli che rifiutano questo metodo e molto frequentemente abbandonano i negoziati perché manca loro la possibilità giuridica di farsi ascoltare. Quindi, soprattutto per impedire che società commerciali depositino brevetti abusivi (biopirateria o «appropriazione indebita», in linguaggio ONU) alcuni Paesi del Sud o emergenti, come l’India, la Cina o il Perù, hanno cominciato a organizzare registri nazionali informatizzati.
L’India è stata la prima nazione che ha organizzato una simile banca dati dei suoi saperi tradizionali, nella maggior parte registrati per iscritto da molti secoli a oggi. L’India conta così di proteggersi dalla biopirateria, della quale è stata vittima dagli anni ’90 in poi: brevetti illegittimi sul riso basmati, la curcuma o l’olio di neem [ndt.: stimolante vegetale ayurvedico], depositati da aziende straniere, hanno vietato all’India di controllarne il commercio. «Nel 2001 il governo ha deciso di rendere accessibili questi saperi soltanto agli Uffici dei brevetti», ricorda Vinod Kumar Gupta, direttore della Traditional Knowledge Digital Library (TKDL), sistematizzando per esempio l’identificazione e la formulazione delle piante il cui uso è legato a queste conoscenze ataviche. Duecentosessantasettemila voci sono oggi accessibili ai soli esperti revisori di brevetti.
Lo strumento informatico permette, mediante il semplice tracciamento da parte dei revisori di brevetti degli accessi alla banca dati, di identificare i casi controversi. In questo modo la TKDL ha potuto ottenere l’annullamento o il ritiro di brevetti richiesti abusivamente dall’industria farmaceutica. Il data base è sicuramente meno costoso in tempo e in denaro delle procedure giuridiche di contestazione: Gupta ricorda così che «fra il 1996 e il 2005 il processo per biopirateria circa il riso basmati è costato 1,5 milioni di dollari in spese di avvocati. La TKDL ha reso possibile trattare in dieci anni millecento cause di contestazione, con solamente 3 milioni di dollari in parcelle!».
Anche il Perù dal 2002 affida a diversi registri le conoscenze tradizionali fino allora esclusivamente affidate alla tradizione orale. Queste banche dati nazionali sembrano essere d’esempio: a Nuova Delhi, nel marzo 2011, una conferenza internazionale dell’OMPI è stata dedicata all’«utilizzo del TKDL come modello per la protezione dei saperi tradizionali». Nonostante questo, i rischi di pirateria informatica non sono inesistenti: «Numerosi tentativi di accesso illecito bene identificati hanno già avuto luogo», confida V. Gupta.
Che ne è, tuttavia, dello statuto delle banche dati di conoscenze tradizionali sviluppate antecedentemente su iniziativa di ONG o d’istituti accademici? Alcune possono mirare alla condivisione di una conoscenza giudicata utile a tutti, come la Plant Resources of Tropical Africa (Prota), preparata da una fondazione olandese senza scopo di lucro, che su Internet dà libero accesso all’uso di circa settemila piante dell’Africa tropicale, o anche la rete Honey Bee, in India, che dall’inizio degli anni ’90 cataloga le conoscenze locali tradizionali e contadine e mantiene una banca dati di piante medicinali. Il Traditional Ecological Knowledge - Prior Art Database (TEKPAD), banca dati sui saperi ecologici tradizionali elaborata dall’Associazione americana per il progresso delle scienze (AAAS), da parte sua esegue il censimento di tutta la documentazione online ormai di dominio pubblico riguardante le conoscenze autoctone e l’utilizzo delle specie vegetali.
L’anteriorità della pubblicazione del contenuto di queste banche dati, accessibili in Internet, sarebbe di per sé sufficiente per opporsi a qualsiasi appropriazione indebita. Ma il loro numero – più di un centinaio, secondo un censimento esaustivo dell’OMPI che risale al 2002 – ne rende la consultazione sistematica da parte dei verificatori di brevetti difficilmente immaginabile.
Una cassaforte al Polo Nord
Nel 2010 la CDB ha avuto esito positivo con il Protocollo di Nagoya, che fissa i modi della condivisione dei benefici legati allo sfruttamento delle risorse genetiche connesse a saperi tradizionali. Questo protocollo amplia, con il suo articolo 2, la definizione delle risorse genetiche a tutti i loro derivati (estratti dalle piante), ma nel suo articolo 7 sminuisce il concetto di «consenso preventivo con cognizione di causa» da parte delle comunità autoctone e locali. In questo modo attribuisce agli Stati, nel cui ambito si trovano le comunità, il potere di autorizzare lo sfruttamento di queste risorse. Attualmente soltanto una dozzina di Paesi si sono dotati di regolamentazione giuridica specifica sull’accesso a queste conoscenze. In mancanza di legislazione internazionale le aziende [multinazionali] continuano a godere ampia latitudine nei negoziati con le comunità, di completa libertà di raccogliere le loro conoscenze e di sviluppare prodotti brevettabili che a esse si ispirano.
Così i Laboratori Expanscience, membri dell’Unione per il biocommercio etico, (Union for Ethical BioTrade, UEBT), un consorzio privato che determina a modo suo gli obblighi delle imprese nei confronti della CDB, annunciano fieramente di avere costituito fin dal 2011 una banca dati in partenariato con docenti universitari e botanici locali esperti in biotecnologie. L’obiettivo programmato è quello di preservare i diritti delle comunità … cosa che non impedisce a quelli di Expanscience di essere i soli detentori dei brevetti che ne ricavano. Il brevetto più recente, concesso nel 2012, riguarda un prodotto per la cura della pelle a base di estratto di niébé e si riferisce a usi tradizionali della pianta in Africa per curare le ferite.
Brandendo lo spauracchio della perdita di biodiversità, reale o temuta, gli istituti dell’ONU dagli anni ’70 in poi hanno incoraggiato la costituzione di collezioni naturalistiche (conservatori botanici, collezioni museali e banche delle sementi), affidandone definitivamente la gestione agli Stati firmatari del Protocollo di Nagoya. Dal 2008 è stata costruita al Polo Nord norvegese una banca mondiale delle sementi, la Svalbard Global Seed Vault. Vi sono immagazzinati tre milioni di campioni, l’equivalente di circa millecinquecento banche di sementi disseminate in tutto il mondo. Questa cassaforte mondiale è progettata per resistere a un cataclisma planetario. Ma non sarà mai accessibile se non ai suoi soli depositari-proprietari: i membri del Global Crop Diversity Trust (Fondazioni Gates et Rockefeller e industrie delle sementi).
L’ultima raccomandazione proposta da Stati Uniti, Canada, Giappone e Corea del Sud al Comitato intergovernativo per la proprietà intellettuale, riunitosi a fine aprile 2013, relativa alle risorse genetiche, alle conoscenze tradizionali e al folklore riguarda l’istituzione di un portale Internet sicuro e gestito dall’OMPI, che unifichi tutte le banche dati nazionali delle conoscenze tradizionali. Ora, i popoli indigeni contestano che gli Stati, che in maggior parte non riconoscono neppure i loro diritti fondamentali, siano abilitati a decidere del destino dei loro saperi tradizionali.
(…) Tuttavia i popoli indigeni sono ben lontani dall’augurarsi che le loro conoscenze diventino di pubblico dominio. L’Assemblea dei popoli autoctoni ha così dichiarato all’ultima riunione dell’IGC: «Il pubblico dominio è una specie di pompa che, col tempo, può contribuire allo spossessamento delle risorse genetiche e di altre eredità culturali che sono il cuore della nostra identità, (…) e a erodere le diversità e le identità culturali. Può diventare vettore di assimilazione».
«Fare entrare i loro sistemi di gestione delle conoscenze ancestrali nel dibattito internazionale su conoscenze e proprietà intellettuale rimane una sfida piena di ostacoli», constata Daniel Robinson, professore all’Istituto australiano di studi ambientali ed ex consulente dell’ONU (2). Ma altri meccanismi possono essere considerati. Sperimentati con successo in Kenya, in Colombia, in India, in Pakistan e in Sudafrica, i PBC, finanziati dall’apposito Programma dell’ONU e da molte fondazioni, mirano a facilitare l’espressione dei saperi e del loro sistema di gestione, permettendo loro di essere così oggetto di scambio e di reciproco arricchimento, al contrario della versione fossilizzante dell’OMPI.
(1) Walter V. Reid, Fikret Berkes, Thomas Wilbanks et Doris Capistrano (sous la dir. de), Bridging Scales and Knowledge Systems : Concepts and Applications in Ecosystem Assessment, Island Press, Washington, DC, 2006. Disponible sur www.unep.org.
(2) Daniel Robinson, « Biopiracy and the innovations of indigenous peoples and local communities », dans Peter Drahos et Susy Frankel (sous la dir. de), Indigenous Peoples’ Innovation : Intellectual Property Pathways to Development, Australian National University, Canberra, 2012 (disponible en ligne).



Lunedì 27 Gennaio,2014 Ore: 22:18
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Paola Veronese Monselice 02/2/2014 18.53
Titolo:
forse, anziché "alicamenti", in italiano si usa "nutraceutica"

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