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www.ildialogo.org Machiavelli contro il machiavellismo,di Olivier Pironet  

Le Monde Diplomatique, novembre 2013, pag. 27
Machiavelli contro il machiavellismo

di Olivier Pironet  

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Per secoli Machiavelli è stato bersaglio dei pregiudizi e dei luoghi comuni di chi non l'aveva letto o letto bene. La sua straordinaria innovazione - la politica svincolata dalla morale - tende invece a promuovere la forma democratica per eccellenza: la repubblica, la quale si basa "sull’opposizione fondamentale fra due grandi classi, o «umori», sociali, che ne determinano la forma: il popolo, vale a dire la comunità dei cittadini, e i Grandi, coloro che costituiscono l’élite sociale, economica e politica." Infatti, "Nessuno Stato può fare a meno di questa divisione sociale: il conflitto fra le due classi, che raccoglie diversità di rango, di ricchezza e di aspirazioni, è universale e privo di possibile risoluzione definitiva. Per dirigere è necessario scegliere un campo. Per Machiavelli non può essere che quello del popolo, «perché i suoi obiettivi (…) sono più onesti di quelli dei Grandi, poiché gli uni vogliono opprimere, l’altro non vuole essere oppresso». Inoltre "questa repubblica, come precisa il Discorso, non può appoggiarsi che sull’istituzione della discordia civile fra le élite e la plebe, in altre parole sul riconoscimento politico del conflitto inerente alla città. L’idea di una società pacificata è un mito, perfino un’aberrazione." Quindi: niente larghe intese! Quando si dice modernità... JFPadova
Le Monde Diplomatique, novembre 2013, pag. 27
Machiavelli contro il machiavellismo
All’inizio del XVI secolo il filosofo fiorentino Nicolò Machiavelli ha aperto la strada al pensiero politico moderno. Sovente si collega il suo nome all’azione di governanti cinici e manipolatori. Inventata dai suoi detrattori, questa «cattiva reputazione» cela in realtà un autentico teorico della libertà e del potere popolare.
Olivier Pironet
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Non si contano più gli studi, le biografie e i convegni che quest’anno hanno celebrato il cinquecentesimo anniversario de Il Principe (1). In questo libretto dedicato all’arte del governare Nicolò Machiavelli (1469 - 1527) spiega concisamente «che cos’è la sovranità, quante specie ve ne sono, come la si ottiene, come la si perde (2)». Egli svela così i meccanismi del potere e i fondamenti dell’autorità, ciò che gli è valsa una reputazione sulfurea, interpretazioni contraddittorie e ha fatto della sua opera «il libro di riflessioni politiche più letto e commentato (3)» da mezzo millennio a oggi.
Scritto nel 1513, Il Principe è pubblicato postumo nel 1532 – fatto raro, è la sua stesura che è commemorata – e messo all’Index dalla Chiesa Cattolica, come tutti gli altri libri del Fiorentino, dal 1559 alla fine del XIX secolo. Nel 1576 lo studioso ugonotto Innocent Gentillet contribuisce a formare la sua cattiva reputazione inventando il termine di «machiavellismo», destinato a un luminoso avvenire. Dal pensatore Jean Bodin (1529 - 1596), che l’accusa di avere «profanato i sacri misteri della filosofia politica», all’erudito Bertrand Russell (1872 - 1970), per il quale Il Principe è un «manuale per gangster», Machiavelli passa comunemente per essere il cinico teorico del potere e delle tecniche di manipolazione, colui che sussurra alle orecchie dei tiranni.
Eppure il suo pensiero si presta anche a interpretazioni del tutto diverse. Il Principe è il «libro dei repubblicani», secondo Jean-Jacques Rousseau; quello in cui «Machiavelli stesso si fa popolo», per Antonio Gramsci. A dire il vero, dai pensatori della Controriforma, nel XVI secolo, fino ai liberali del XXI secolo, passando per gli autori dell’Illuminismo, i Giacobini, i marxisti, i fascisti o i neorepubblicani, tutti vi hanno letto. Oggi il Fiorentino ispira ugualmente sia romanzi polizieschi o giochi video (5) che breviari di «management imprenditoriale» o perfino di «governance famigliare» - come Machiavelli for Moms («Machiavelli per le mamme»), di Suzanne Evans (Simon & Schuster- Touchstone, 2013)…
Nell’altra sua opera principale, i Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, pubblicata nel 1531, Machiavelli, rileggendo la storia romana, esamina i principi del regime repubblicano e dimostra la sua superiorità rispetto ai sistemi dispotici o autoritari (i principati). Il Principe e il Discorso si articolano intorno a una medesima problematica: come instaurare e mantenere un regime di autonomia e di uguaglianza – la repubblica – nel quale siano esclusi i rapporti di dominio? Come costituire uno Stato libero, fondato su leggi comuni, su regole di giustizia e di reciprocità e sulla realizzazione del bene pubblico? Il Principe, teoria della fondazione della repubblica o della sua rifondazione in situazioni di crisi, come pure dei metodi adeguati – talvolta violenti – per costruirne le fondamenta, e il Discorso, riflessione sulla forma che essa deve assumere – la democrazia – come sui mezzi per preservarla, sono inseparabili. Entrambi nascono dal contesto storico in cui Machiavelli li redige e dalla tradizione intellettuale nella quale egli si inserisce per meglio distaccarsene.
Quando s’impegna nella stesura de Il Principe, la Repubblica fiorentina, che egli ha servito per quattordici anni come alto diplomatico, minata dalle divisioni e dalla corruzione, è stata appena rovesciata dai partigiani dei Medici con l’aiuto degli spagnoli (settembre 1512). L’intermezzo repubblicano è durato diciotto anni: una repubblica teocratica, dal 1494 al 1498, posta sotto l’autorità del monaco Gerolamo Savonarola, poi una repubblica laica, dal 1498 al 1512. Da decenni la Penisola è sottoposta agli appetiti delle grandi monarchie, che si alleano secondo i loro interessi a numerose città-Stato del Paese, impedendo l’unificazione territoriale e nazionale che Machiavelli auspica. Questa situazione spiega l’oggetto de Il Principe: per il suo autore si tratta di riflettere sui mezzi atti a ristabilire la repubblica nella città toscana e di edificare uno Stato sufficientemente forte per «prendere» (unificare) l’Italia e «liberarla dalle potenze straniere». Il Pricipe si rivolge a chi sarà capace di realizzare questo doppio obiettivo.
È a un tempo manuale d’azione per rispondere all’urgenza e riflessione sulla natura del potere, nella linea delle opere didattiche in voga presso gli umanisti. Tuttavia esso rompe con gli ideali classici. Divulga i precetti e i metodi che il (ri)fondatore di uno Stato deve seguire, rovesciando il rapporto tradizionale di subordinazione della politica alla morale nel nome della «verità effettiva delle cose»: l’arte del governare obbedisce a regole specifiche legate all’instabilità dei rapporti umani (gli uomini seguono i loro interessi e le loro passioni, fra le quali l’ambizione) come pure l’irrazionalità della storia. Ogni dirigente deve conoscere queste regole se vuole «preservarsi» e «mantenere lo Stato».
Definendo la politica come un campo d’azione e di riflessione autonomo, sul quale la morale non ha presa, Machiavelli avvia, per citare Luis Althusser, una «vera e propria rivoluzione nel modo di pensare (6)», che sfocerà più tardi nella formazione della scienza politica moderna. Questa è l’innovazione che gli procurerà un gran numero d’inimicizie. Gli uni gli rimproverano di aver messo in luce i meccanismi del dominio e di aver insegnato ai governati come i governanti procedono per rafforzare il loro potere; gli altri di aver distrutto, nel nome dell’efficienza e dell’azione, il legame intrinseco che secondo loro esiste fra politica, morale e religione.
Tuttavia Machavelli sviluppa un’altra problematica essenziale. Secondo lui, ogni regime si fonda sull’opposizione fondamentale fra due grandi classi, o «umori», sociali, che ne determinano la forma: il popolo, vale a dire la comunità dei cittadini, e i Grandi, coloro che costituiscono l’élite sociale, economica e politica. Questi ultimi, in minoranza, vogliono il dominio; i primi, in maggioranza, lo contestano. «E da questi due appetiti opposti nasce nelle città uno di questi tre effetti: o monarchia, o libertà, o licenza».
Nessuno Stato può fare a meno di questa divisione sociale: il conflitto fra le due classi, che raccoglie diversità di rango, di ricchezza e di aspirazioni, è universale e privo di possibile risoluzione definitiva. Per dirigere è necessario scegliere un campo. Per Machiavelli non può essere che quello del popolo, «perché i suoi obiettivi (…) sono più onesti di quelli dei Grandi, poiché gli uni vogliono opprimere, l’altro non vuole essere oppresso». La monarchia, questo principato autoritario che Machiavelli vede ugualmente esistere nell’oligarchia, è incapace di risolvere la questione sociale. Quindi è necessario preferirgli un regime repubblicano, il solo sistema in grado di garantire l’uguaglianza dei cittadini, la realizzazione del bene pubblico e l’indipendenza del Paese.
Ma questa repubblica, come precisa il Discorso, non può appoggiarsi che sull’istituzione della discordia civile fra le élite e la plebe, in altre parole sul riconoscimento politico del conflitto inerente alla città. L’idea di una società pacificata è un mito, perfino un’aberrazione. Machiavelli ritiene così che la Repubblica romana «non arrivò alla [sua] perfezione se non mediante il dissenso fra il Senato e il popolo».
Con ciò egli si scosta radicalmente dal modello classico, secondo il quale lo Stato deve fondarsi su rapporti di concordia. Per lui, al contrario, l’istituzione di questa discordia civile è il fondamento stesso della libertà: «In ogni repubblica vi sono due umori (…) e tutte le leggi favorevoli alla libertà non nascono che dalla loro opposizione». Per questo è essenziale mettere in opera un dispositivo legale mediante il quale il polo possa fare intendere le sue rivendicazioni e i suoi diritti».
Una volta ammessa la partecipazione comune del popolo e dei Grandi al potere tramite la loro opposizione, si pone la questione sociale di sapere a chi affidare la «sorveglianza della libertà» e la cura di vegliare al buon funzionamento delle istituzioni. Questo problema è di capitale importanza, perché dal controllo dell’interesse pubblico da parte dell’una o dell’altra di queste due categorie dipende la solidità e l’unità dello Stato. Che forma deve quindi prendere la repubblica: aristocratica o democratica? Mentre la grande maggioranza dei pensatori repubblicani del suo tempo raccomandano un’oligarchia, il Fiorentino preconizza l’instaurazione di una repubblica popolare (stato popolare) fondata sull’autorità suprema di un’assemblea alla quale il popolo può partecipare, allo stesso titolo dei Grandi, alla direzione degli affari della città. Egli qualifica così, nel Sommario delle cose di Lucca, come «buona disposizione» il fatto che un «consiglio generale abbia autorità sui cittadini, perché è un freno efficace contro le ambizioni di alcuni (…). Il grande numero [dei cittadini] serve per imperversare contro i grandi e contro l’ambizione dei ricchi». È meglio in grado di proteggere la libertà e l’uguaglianza colui che ha interesse a vederle mantenersi: «Occorre sempre affidare [il deposito della libertà] a coloro a coloro che hanno minor desiderio di violarle».
Al contrario, quando non «coloro che [hanno] più merito, ma quelli che [hanno] più potenza» occupano le funzioni superiori dello Stato, appare un altro conflitto: la divisione fra gruppi d’interesse legati il più delle volte a clan famigliari, a sistemi clientelari o a monopoli finanziari – ciò che Machiavelli classifica sotto il nome di sette (fazioni, lobby). Dal momento in cui «i ricchi soltanto e i potenti propongono le leggi, molto meno a favore della libertà che per accrescere il loro potere», lo Stato è scalzato alla sua stessa radice, corrotto. In questo modo si perse la Repubblica romana, come anche la Repubblica fiorentina. Allora che fare? I cittadini «devono esaminare la forza del male e, se si sentono capaci di vincerlo, attaccarlo senza esitazione».
(1) Signalons l’étude d’Emmanuel Roux, Machiavel, la vie libre, Raisons d’agir, Paris, 2013, 267 pages, 20 euros. Filippo Del Lucchese, auteur de Tumultes et indignation. Conflit, droit et multitude chez Machiavel et Spinoza (éd. Amsterdam, Paris, 2010), a coordonné un site Internet autour du Prince, « Machiavelli : A multimedia project » (www.brunel.ac.uk). Cf. également John P. McCormick, Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, 2011.

(2) Lettre à Francesco Vettori, 10 décembre 1513. (3) Emmanuel Roux, op. cit. (4) Sur les différentes interprétations de la pensée du Florentin, cf. Claude Lefort, Le Travail de l’œuvre Machiavel, Gallimard, Paris, 1986 (1re éd. : 1972).

(5) Cf. Ranieri Polese, « Machiavel mène l’enquête », Books, no 46, Paris, septembre 2013.

(6) Louis Althusser, L’avenir dure longtemps, Flammarion, coll. « Champs essais », Paris, 2013 (1re éd. : 1992).



Lunedì 04 Novembre,2013 Ore: 12:15
 
 
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