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www.ildialogo.org Perché l’audacia cambi collocazione politica - Strategia per una riconquista,di Serge Halimi  

Le Monde Diplomatique, settembre 2013, pagg. 1, 10, 11
Perché l’audacia cambi collocazione politica - Strategia per una riconquista

di Serge Halimi  

(traduzione dal francese di José F. Padova)


"Strategia per una riconquista". Forse un po' troppo per gli italiani, rintronati da 45 giorni di urla furibonde e crisi di nervi (e panico). Comunque: si tratta della riconquista del potere di decidere del nostro destino, attualmente nelle mani dei "mercati" (eufemismo per "mercanti" politici e non) e della Spectre finanziaria mondiale. E della Merkel, ovviamente. Può sembrare fuori luogo questo fissarsi a tradurre chi si occupa di economia, eppure dentro e dietro all'economia scorrono ingiustizie sociali e sofferenze nascoste. Giustizia sociale? Imposizione fiscale equa? Pari opportunità di istruzione e formazione? Dignità del vivere? Non sono sogni. L'estensore dell'articolo allegato dà una sua interpretazione di quale strategia applicare proprio alla realizzazione di queste sacrosante esigenze. J.F.Padova
Le Monde Diplomatique, settembre 2013, pagg. 1, 10, 11
Perché l’audacia cambi collocazione politica
Strategia per una riconquista
Il ritorno delle rituali controversie sulle previsioni di crescita, sull’immigrazione o l’ultimo fatto insolito rafforza l’impressione che l’ordine neoliberista abbia ripreso il suo ritmo di crociera. Non sembra che lo choc della crisi finanziaria l’abbia scosso durevolmente. A meno di non attendere che sollevazioni spontanee producano un giorno una risposta generale, che priorità e quali metodi si possono immaginare per cambiare i rapporti di forza?
Serge Halimi
(traduzione dal francese di José F. Padova)
«Il Paese esige sperimentazioni audaci e sostenute. Il buon senso indica di scegliere un metodo e di metterlo alla prova. Se questo fallisce, ammettetelo con franchezza e tentate altro. Ma soprattutto tentate qualcosa!» Franklin D. Roosevelt, 22 maggio 1932.
Cinque anni sono passati dal fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La legittimità del capitalismo come modo di organizzazione della società è compromessa; le sue promesse di prosperità, di mobilità sociale, di democrazia non alimentano più le illusioni. Ma il grande cambiamento non si è avverato. Le chiamate in causa del sistema si sono date il cambio senza farlo vacillare. Perfino il prezzo dei suoi fallimenti è stato pagato annullando una parte delle conquiste sociali che gli erano state strappate. «I fondamentalisti del mercato si sono sbagliati su quasi tutto e tuttavia dominano la scena politica più profondamente che mai», constatava l’economista Paul Krugman già quasi tre anni fa (1). Insomma, il sistema tiene, perfino col pilota automatico. Non è un complimento per i suoi avversari. Che cosa è successo? E che fare?
La sinistra anticapitalista rifiuta l’idea di una fatalità economica perché capisce che è organizzata da volontà politiche. La sinistra avrebbe dovuto dedurne che la disfatta finanziaria del 2007-2008 non avrebbe aperto una strada maestra ai suoi progetti. Il precedente degli anni ’30 lo suggeriva già: in funzione delle situazioni nazionali, delle alleanze sociali e delle strategie politiche, la stessa crisi economica può provocare risposte tanto diverse come l’arrivo al potere in Germania di Adolf Hitler, il New Deal negli Stati Uniti, il Fronte popolare in Francia e non un granché nel Regno Unito. Molto più tardi, ogni volta con qualche mese d’intervallo, Ronald Reagan salì alla Casa Bianca e François Mitterrand all’Eliseo; Nicolas Sarkozy fu battuto in Francia, Barack Obama rieletto negli USA. Tanto vale a dire che la fortuna, il talento, anche la strategia politica, non sono variabili accessorie che sarebbero soppiantate dalla sociologia di un Paese o dalle condizioni della sua economia.
La vittoria dei neoliberisti dal 2008 in poi deve molto al soccorso della cavalleria dei Paesi emergenti. Perché il «ribaltamento del mondo» consistette anche dell’entrata nella danza capitalista di grossi distaccamenti costituiti da produttori e consumatori cinesi, indiani, brasiliani. I quali servirono come esercito di riserva del sistema nel momento in cui sembrava in agonia. Soltanto negli ultimi dieci anni la parte della produzione mondiale dei grandi Paesi emergenti è passata dal 38 al 50%. Il nuovo laboratorio del mondo è anche diventato uno dei suoi mercati principali: dal 2009 la Germania esportava più in Cina che negli Stati Uniti.
L’esistenza delle «borghesie nazionali» - e l’attuazione di soluzioni nazionali – si scontrano quindi con il fatto che le classi dirigenti del mondo intero hanno ormai fatto lega fra loro. A meno di rimanere mentalmente agganciati all’anti-imperialismo degli anni ’60, come si fa a dare ancora per scontato che, per esempio, una risoluzione progressista dei problemi attuali possa avere come artigiani le élite politiche cinese, russa, indiana, tanto affariste e venali quanto i loro omologhi occidentali?
Tuttavia il riflusso non è stato universale. «L’America Latina», rilevava tre anni fa il sociologo Immanuel Wallerstein, «è stata la success story della sinistra mondiale durante il primo decennio del XXI secolo. E questo è vero sotto due aspetti. Il primo è più degno di nota, perché i partiti di sinistra o di centro-sinistra hanno riportato impressionanti successi alle elezioni. E poi, perché i governi latino-americani hanno preso le distanze, per la prima volta collettivamente, dagli Stati Uniti. L’America latina è diventata una forza geopolitica relativamente autonoma (2)».
Certamente l’integrazione regionale, che per i più audaci prefigura il «socialismo del XXI secolo», per gli altri pone le basi di uno dei più grandi mercati del mondo (3). Nondimeno il gioco rimane più aperto nell’antico “cortile di casa” degli Stati Uniti che all’interno dell’ectoplasma europeo. E se l’America latina ha visto sei tentativi di colpo di Stato in meno di dieci anni (Venezuela, Haiti, Bolivia, Honduras, Ecuador e Paraguay) è forse perché i cambiamenti politici spinti avanti dalle forze di sinistra vi hanno realmente minacciato l’ordine sociale e trasformato le condizioni di vita delle popolazioni.
E così hanno dimostrato che esiste bene un’alternativa, che non tutto è impossibile, ma che per creare le condizioni della riuscita occorre avviare riforme strutturali, economiche e politiche. Le quali rimobilitano strati popolari che l’assenza di prospettive ha rinchiuso nell’apatia, il misticismo o nell’arte di arrangiarsi. È forse anche così che si combatte l’estrema destra.
Come respingere l’ordine mercantilistico
Trasformazioni strutturali, certo, ma quali? I neoliberisti hanno tanto bene radicato l’idea che non vi era «alcuna alternativa» che ne hanno persuaso i loro avversari, al punto che questi dimenticano talvolta le loro stesse proposte… Ricordiamone qualcuna, tenendo bene a mente che più esse oggi sembrano ambiziose, più è importante acclimatarle senza ritardi. E senza mai dimenticare che la loro eventuale rudezza deve essere messa in rapporto alla violenza dell’ordine sociale che esse vogliono disfare.
Quest’ordine, come contenerlo e poi respingerlo? L’estensione della parte del settore non mercantile, anche quella della gratuità, risponderebbero in un colpo solo a questo doppio obiettivo. L’economista André Orléan ricorda che nel XVI secolo «la terra non era un bene scambiabile, ma un bene collettivo e non negoziabile, ciò che spiega il vigore della resistenza contro la legge sulla recinzione dei pascoli comunali». Egli aggiunge: «La medesima cosa al giorno d’oggi, con la commercializzazione degli esseri viventi. Un braccio o il sangue non ci appaiono come merci, ma che ne sarà domani?» (4).
Per contrastare quest’offensiva sarebbe forse conveniente definire democraticamente qualche bisogno elementare (abitazione, cibo, cultura, comunicazioni, trasporti), farli finanziare dalla collettività e offrirne a tutti il godimento. Se non addirittura, come lo raccomanda il sociologo Alain Accardo, «estendere rapidamente e continuativamente il servizio pubblico fino alla presa a carico “gratuita” di tutte le necessità fondamentali seguendo la loro evoluzione storica, cosa economicamente inconcepibile se non attraverso la restituzione alla collettività di tutte le risorse e le ricchezze utili al lavoro sociale e prodotte dagli sforzi di tutti (5)». In questo modo, piuttosto che di incentivare la domanda aumentando fortemente i salari, si tratterebbe di socializzare l’offerta e di garantire a ognuno nuove prestazioni in natura.
Ma allora, come evitare di cadere da una tirannia dei mercati a un assolutismo di Stato? Cominciamo, ci dice il sociologo Bernard Friot, con il rendere generale il modello delle conquiste popolari che funzionano sotto i nostri occhi, la Previdenza sociale, per esempio, contro la quale si accaniscono governi di ogni risma. Questo «emancipatore già pronto» che, grazie al principio dei contributi, socializza una parte importante della ricchezza, permette di finanziare le pensioni dei pensionati, le indennità dei malati, i sussidi dei disoccupati. Diversa dall’imposta percepita e spesa dallo Stato, i contributi non sono oggetto di accumulazione e, agli inizi, furono gestiti principalmente dagli stessi salariati. Perché non andare più lontano? (6).
Deliberatamente all’offensiva, un simile programma comporterebbe un triplice vantaggio. Politico: benché suscettibile di riunire una larga coalizione sociale, non è recuperabile da parte dei liberisti e dell’estrema destra. Ecologico: evita un rilancio keynesiano che, prolungando il modello esistente, tornerebbe a far sì che «una somma di denaro sia iniettata nei conti in banca per essere reindirizzata verso il consumo mercantilistico dalle forze della pubblicità (7)». Esso privilegia anche bisogni che non saranno soddisfatti dalla produzione di oggetti inutili in Paesi con salari bassi, seguita dal loro trasporto in contenitori da una parte all’altra della Terra. Infine, un vantaggio democratico: la definizione di priorità collettive (ciò che diventerà gratuito, ciò che non lo sarà) non sarebbe più riservata a eletti, ad azionisti o a mandarini intellettuali provenienti dagli stessi ambienti sociali.
È urgente un approccio di questo tipo. Allo stato attuale del rapporto sociale di forze mondiale la robotizzazione accelerata del lavoro industriale (ma anche dei servizi) rischia effettivamente di creare al tempo stesso una nuova rendita per il capitale (diminuzione del «costo del lavoro») e una disoccupazione di massa sempre meno indennizzata. Amazon o i motori di ricerca dimostrano quotidianamente che centinaia di milioni di clienti affidano a robot la scelta delle loro uscite [=spese], dei loro viaggi, delle loro letture, della musica che ascoltano. Le librerie, i giornali, le agenzie di viaggio ne pagano di già il prezzo. «Le dieci maggiori aziende di Internet, come Google, Facebook o Amazon, fa notare Dominic Barton, direttore generale di McKinsey, hanno creato appena duecentomila posti di lavoro. Ma guadagnato «centinaia di miliardi di dollari in capitalizzazione di borsa (8)».
Per rimediare al problema della disoccupazione la classe dirigente rischia di conseguenza di arrivare allo scenario temuto dal filosofo André Gorz, l’usurpazione continua dei settori ancora regolati dalla gratuità e dal dono: «Dove si fermerà la trasformazione di tutte le attività in attività retribuite, che hanno la remunerazione come loro ragione d’essere e il massimo rendimento come scopo? Quanto tempo potranno resistere le già fragili barriere che ancora impediscono la professionalizzazione della maternità e della paternità, la procreazione commerciale di embrioni, la vendita di bambini, il commercio di organi? (9)».
La questione del debito [pubblico], altrettanto di quella della gratuità, guadagnerebbe dal palesamento del suo sfondo politico e sociale. Non vi è nulla di più comune nella Storia di uno Stato preso per la gola dai suoi creditori, il quale, in un modo o nell’altro, si libera dalla loro stretta per non infliggere più al suo popolo un’austerità in perpetuo. Ci fu la Repubblica dei Soviet che rifiutò di onorare le obbligazioni russe emesse dallo zar. Ci fu Raymond Poincaré che salvò il franco… svalutandolo dell’80% e tagliando altrettanto il carico finanziario della Francia, rimborsato in moneta svalutata. Ci furono anche gli Stati Uniti e il Regno Unito del dopoguerra che, senza piani di rigore ma lasciando svilupparsi l’inflazione, ridussero quasi alla metà il fardello del loro debito pubblico (10).
In seguito, noblesse oblige del monetarismo dominante, la bancarotta è diventata sacrilegio, si è data la caccia all’inflazione (perfino quando il suo tasso uguaglia lo zero), è stata vietata la svalutazione. Ma i creditori, benché siano stati liberati dal rischio di default, continuano a reclamare un «premio di credito». «In situazioni di sovra-indebitamento storico», rileva peraltro l’economista Frédéric Lordon, «non vi è altra scelta che fra l’adeguamento strutturale al servizio dei creditori o una forma o l’altra della loro rovina (11)». L’annullamento di tutto o di parte del debito finirebbe con lo spogliare chi vive di rendita e i finanzieri, non importa di che nazionalità, dopo aver loro tutto concesso.
Il laccio emostatico imposto alla collettività si stringerà tanto più in fretta quanto più questa riscoprirà le entrate fiscali che trent’anni di neoliberismo hanno dilapidato. Non soltanto quando si è rimesso in discussione la progressività dell’imposta e ci si è adattati all’estensione della frode, ma anche quando si è creato un sistema tentacolare nel quale la metà del commercio internazionale di beni e servizi transita nei paradisi fiscali. I loro beneficiari non si limitano a qualche oligarca russo o a un ex ministro francese delle Finanze: si contano soprattutto fra imprese tanto coccolate dallo Stato (e anche influenti nei media) quanto Total, Apple, Google, Citygroup o BNP Paribas.
Ottimizzazione fiscale, «transfer pricing» [con il termine Prezzi di Trasferimento o ‘Transfer Pricing si intende: “Il controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di verificare che non ci siano aggiustamenti ‘convenienti’ di tali prezzi.” Vedi: moodysanalytics.com ] (che permettono di localizzare i profitti delle filiali là dove le imposte sono più basse), trasferimento delle sedi sociali: gli importi sottratti così in assoluta legalità alla collettività si avvicinerebbero ai 1.000 miliardi di euro, e soltanto per quanto riguarda l’Unione Europea. Ovvero in molti Paesi una perdita di introiti superiore alla totalità del carico debitorio pubblico nazionale. In Francia, sottolineano numerosi economisti, «perfino recuperando solamente la metà delle somme in gioco l’equilibrio di bilancio sarebbe ristabilito senza sacrificare le pensioni, i posti di lavoro, una riconquista collettiva o gli investimenti ecologici per l’avvenire (12)». Cento volte annunciato, cento volte rimandato (e cento volte più redditizio della sempiterna «frode agli aiuti sociali»), il «ricupero» in questione sarebbe tanto più popolare e tanto più ugualitario in quanto i contribuenti ordinari non possono, da parte loro, ridurre i loro redditi imponibili versando royalties fittizie alle loro filiali delle Isole Caiman.
Alla lista delle priorità si potrebbe aggiungere il congelamento degli stipendi alti, la chiusura della Borsa, una nazionalizzazione delle banche, la rimessa in causa del libero scambio, l’uscita dall’euro, il controllo sui capitali… Altrettante opzioni già presentate su queste pagine. Perché allora privilegiare la gratuità, l’azzeramento del debito pubblico e il ricupero fiscale? Semplicemente perché, per elaborare una strategia, immaginare la sua base sociale e le sue condizioni politiche di realizzazione, vale più scegliere un piccolo numero di priorità piuttosto che comporre un catalogo destinato a riunire nelle piazze una folla eteroclita d’indignati, che il primo temporale disperderebbe.
L’uscita dall’euro meriterebbe a colpo sicuro di figurare nel numero delle urgenze (13). Ognuno ormai comprende che la moneta unica e la chincaglieria istituzionale e giuridica che la sostiene (Banca Centrale indipendente, patto di stabilità) impediscono qualsiasi politica che si opponga al tempo stesso all’accentuazione delle disuguaglianze e alla confisca della sovranità da parte di una classe dominante subordinata alle esigenze della finanza.
Eppure, per quanto sia necessaria, la rimessa in causa della moneta unica non garantisce alcuna riconquista su questo doppio fronte, come lo dimostrano gli orientamenti economici e sociali del Regno Unito o della Svizzera. L’uscita dall’euro, un po’ come il protezionismo, si fonderebbe d’altra parte su una coalizione politica che miscela il peggio e il meglio e all’interno della quale il primo assunto la spunta per il momento sul secondo. Il salario universale, l’amputazione del debito pubblico e il ricupero fiscale permettono di fare pulizia ampiamente, perfino di più, ma tenendo in disparte i convitati non desiderati.
Inutile pretendere che questo «programma» disponga di una maggioranza in qualsiasi Parlamento del mondo. Le trasgressioni che esso prevede includono una quantità di regole presentate come intangibili. Tuttavia, quando si tratta di salvare il loro sistema in pericolo, i liberisti non hanno mancato di audacia, proprio loro. Non sono indietreggiati né davanti a un sensibile aumento dell’indebitamento (del quale avevano assicurato che avrebbe fatto schizzare in alto i tassi d’interesse), né davanti all’aumento delle imposte, alla nazionalizzazione delle banche in fallimento, a un prelievo forzato sui depositi, al ripristino dei controlli sui capitali (Cipro). Insomma, «quando il grano è sotto la grandine pazzo è chi fa il delicato» [ndt.: versi di Aragon, poeta surrealista, da “La rose et le réséda”]. E ciò che vale per loro vale per noi, che soffriamo troppo di modestia… Tuttavia non è fantasticando su un ritorno al passato né sperando soltanto di ridurre l’ampiezza delle catastrofi che si ridarà fiducia, che si combatterà la rassegnazione di non avere altra scelta possibile, in definitiva, se non l’alternanza di una sinistra e di una destra, che applicano più o meno il medesimo programma.
Sì, audacia. Parlando dell’ambiente, Gorz reclamava nel 1974 «che un attacco politico, lanciato a tutti i livelli, strappa [al capitalismo] il controllo delle operazioni e gli oppone un progetto totalmente diverso di società e di civiltà». Perché secondo lui era importante evitare che una riforma sul fronte dell’ambiente non sia pagata subito con un deterioramento della situazione sociale: «La lotta ecologica può creare difficoltà al capitalismo e obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver a lungo resistito con la forza e i trucchi, alla fine cederà perché il vicolo cieco ecologico sarà diventato ineluttabile, esso integrerà questa costrizione come ha incluso le altre. (…) Il potere d’acquisto popolare sarà compresso e tutto accadrà come se il costo del disinquinamento fosse prelevato dalle risorse di cui dispone la gente per comprare le sue merci (14)». In seguito, la resilienza del sistema è stata dimostrata quando il disinquinamento è diventato a sua volta un mercato. Per esempio, a Shenzhen, dove imprese poco inquinanti vendono ad altre il diritto di superare la loro quota regolamentare, mentre l’aria inquinata ha già ucciso più di un milione di cinesi all’anno.
Riflettere sull’assemblaggio dei pezzi
Se non mancano le idee per rimettere a posto il mondo, come farle sfuggire al museo delle virtualità incompiute? In questi ultimi tempi l’ordine sociale ha suscitato innumerevoli contestazioni, dalle rivolte arabe ai movimenti degli “indignati”. Dal 2003 e dopo le folle immense radunate contro la guerra in Iraq, decine di milioni di manifestanti hanno invaso le strade, dalla Spagna a Israele, passando per gli Stati Uniti, la Turchia o il Brasile. Hanno attirato l’attenzione, ma non hanno ottenuto granché. Il loro fallimento strategico aiuta a tracciare la via da seguire.
È un tratto tipico delle grandi coalizioni contestatarie cercare di consolidare il loro numero [di aderenti] evitando le questioni che dividono. Ognuno indovina quali argomenti farebbero volare in pezzi un’alleanza che per base ha talvolta soltanto oggetti generosi ma imprecisi: una migliore redistribuzione dei redditi, una democrazia meno mutilata, il rifiuto delle discriminazioni e dell’autoritarismo. A mano a mano che la base sociale delle politiche liberiste si restringe, che i ceti medi pagano a loro volta il prezzo della precarietà, del libero scambio, del caro-studi, diventa più facile sperare di raccogliere una coalizione maggioritaria.
Metterla insieme, ma per fare che cosa? Le rivendicazioni troppo generali o troppo numerose fanno fatica a trovare una traduzione politica e a inserirsi sul lungo termine. «In occasione di una riunione di tutti i responsabili dei movimenti sociali», ci spiegava recentemente Artur Einrique, ex presidente della Centrale unica dei lavoratori (CUT), il principale sindacato brasiliano, «ho assemblato i diversi testi. Il programma dei sindacati comprendeva 230 punti, quello dei contadini 77, ecc. Ho sommato tutto e c’erano più di 900 priorità. E ho chiesto: “Che si fa in concreto, con tutto questo?”». In Egitto la risposta è stata data… dai militari. Una maggioranza di popolo si è opposta per tutta una serie di eccellenti ragioni al presidente Mohamed Morsi, ma, in mancanza di altri obiettivi che quello di garantire la sua caduta, ha abbandonato il potere all’esercito. A rischio di diventarne oggi l’ostaggio e domani la vittima. Non avere un piano progettuale ha spesso come conseguenza quella di dipendere da coloro che ne hanno uno.
La spontaneità e l’improvvisazione possono favorire un episodio rivoluzionario. Non garantiscono una rivoluzione. Le reti sociali hanno incoraggiato l’organizzazione laterale delle manifestazioni, l’assenza di organizzazione formale ha permesso di sfuggire – per un certo tempo – alla sorveglianza della polizia. Ma il potere si conquista ancora con strutture piramidali, con il denaro. Con i militanti, il macchinario elettorale e una strategia: quale blocco sociale e quale alleanza per quale progetto? Qui si applica la metafora di Accardo: «La presenza su un tavolo di tutti i componenti di un orologio non permette a qualcuno che non ha lo schema di montaggio di farlo funzionare. Un piano di assemblaggio, è una strategia. In politica si può emettere una serie di strilli o riflettere circa l’assemblaggio dei pezzi (15)».
Definire qualche grande priorità, ricostruire la lotta intorno a esse, smettere di complicare tutto per provare meglio la propria virtuosità, è svolgere il lavoro dell’orologiaio. Perché una «rivoluzione stile Wikipedia nella quale ognuno aggiunge il suo contenuto (16)» non servirà a riparare l’orologio. In questi ultimi anni azioni localizzate, esplose, febbrili, hanno partorito una contestazione innamorata di sé stessa, una galassia d’impazienze e d’impotenze, una successione di scoraggiamenti (17). Nella misura in cui le classi medie costituiscono spesso la colonna vertebrale di questi movimenti, una incostanza di questo genere non è sorprendente: quelle classi non si alleano alle categorie popolari se non in un contesto di estremo pericolo – e a condizione di recuperare molto in fretta la direzione delle operazioni (18).
Tuttavia si pone anche e sempre più la questione del rapporto con il potere. Dal momento che nessuno immagina ancora che i principali partiti e le attuali istituzioni modifichino per poco che sia l’ordine neoliberista, cresce la tentazione di privilegiare il cambiamento delle mentalità più di quello delle strutture e delle leggi, di trascurare il terreno nazionale, di reinvestire a livello locale o comunitario, nella speranza di crearvi gli ipotetici laboratori delle future vittorie. «Un gruppo scommette sui movimenti, sulle diversità senza organizzazione centrale, riassume Wallerstein; un altro sostiene che se voi non avete potere politico non potete cambiare alcunché. Tutti i governi dell’America latina vi si dibattono (19»).
Si misura però la difficoltà della prima scommessa. Da una parte, una classe dirigente solidale, consapevole dei suoi interessi, mobilitata, padrona del terreno e della forza pubblica; dall’altra, innumerevoli associazioni, sindacati, partiti, tanto più tentati dalla difesa delle loro linee fortificate, della loro singolarità, della loro autonomia, che essi temono siano ripresi in mano dal potere politico. Senza dubbio essi sono anche inebriati dall’illusione Internet, che fa loro immaginare di contare qualcosa perché dispongono di un sito nella rete Internet. La loro «organizzazione in una rete» diventa allora la maschera teorica di una assenza di organizzazione, di riflessione strategica, poiché la rete non ha altra realtà se non la diffusione circolare di comunicati elettronici che tutti rimandano in giro e che nessuno legge.
Il rapporto fra movimenti sociali e intermediari istituzionali, contro-poteri e partiti, è sempre stato problematico. Da quando non esiste più un obiettivo principale, una «linea generale» - e meno che mai un partito o una alleanza che lo rappresenti –, occorre «chiedersi come creare il globale partendo dal particolare (20)». La definizione di qualche priorità che metta direttamente in causa il potere del capitale permetterebbe di armare i buoni sentimenti, di affrontare il sistema centrale, di reperire le forze politiche che vi siano anch’esse disponibili.
L’utopia liberista ha bruciato la sua parte del sogno
Tuttavia sarà importante esigere subito che gli elettori possano, attraverso referendum, revocare i loro eletti prima del termine del mandato; dal 1999 la Costituzione del Venezuela include questa possibilità. Una quantità di capi di governo hanno effettivamente preso decisioni vitali (età per il pensionamento, impegni militari, trattati costituzionali) senza avere preventivamente ricevuto il relativo mandato dal loro popolo. Quest’ultimo otterrebbe così il diritto di prendersi la sua rivincita diversamente dal reinstallare al potere i fratelli gemelli di coloro che hanno appena ingannato la loro fiducia.
E dopo, è sufficiente aspettare che arrivi la propria ora? «All’inizio del 2011 non eravamo più di sei persone che ancora aderivamo al Congresso per la Repubblica [CPR]», ricorda il presidente tunisino Moncef Marzouki. «Ciò non ha impedito che il CPR ottenesse il secondo posto alle prime elezioni democratiche organizzate in Tunisia qualche mese più tardi (21)…». Nel contesto attuale il rischio di un’attesa troppo passiva, troppo poetica, sarebbe quindi quello di vedere altri – meno pazienti, meno esitanti, più temibili – cogliere il momento per sfruttare a loro profitto una collera disperata che cerca bersagli, non necessariamente i migliori. E quindi, poiché il lavoro di demolizione sociale non s’interrompe mai senza che lo si aiuti, punti d’appoggio o focolai di resistenza, dai quali partirebbe un’eventuale riconquista (attività non mercantili, servizi pubblici, diritti democratici) rischiano allora di essere annientati. Cosa questa che renderebbe ancor più difficile un’ulteriore vittoria.
La partita non è perduta. L’utopia liberale ha bruciato la sua parte di sogno, di assoluto, d’ideale, senza la quale i progetti di società appassiscono e poi periscono. Essa non produce più altro se non privilegi, esistenze fredde e morte. Dunque un capovolgimento sopraggiungerà. Ciascuno può farlo accadere un po’ più presto.
(1) Paul Krugman, «When zombies win », The New York Times, 19 décembre 2010.
(2) Immanuel Wallerstein, « Latin America’s leftist divide », International Herald Tribune, Neuilly-surSeine, 18 août 2010.
(3) Lire Renaud Lambert, « Le Brésil s’empare du rêve de Bolívar », Le Monde diplomatique, juin 2013.
(4) Le Nouvel Observateur, Paris, 5 juillet 2012. (5) Alain Accardo, « La gratuité contre les eaux tièdes du réformisme », Le Sarkophage, n° 20, Lyon, septembre-octobre 2010.
(6) Lire Bernard Friot, « La cotisation, levier d’émancipation » ainsi que l’ensemble de notre dossier sur le revenu garanti, Le Monde diplomatique, respectivement février 2012 et mai 2013.
(7) Cf. « Pourquoi le Plan B n’augmentera pas les salaires », Le Plan B, n° 22, Paris, février-mars 2010.
(8) Les Echos, Paris, 13 mai 2013. (9) André Gorz, « Pourquoi la société salariale a besoin de nouveaux valets », Le Monde diplomatique, juin 1990.
(10) De 116 % à 66 % du produit national brut entre 1945 et 1955 dans le premier cas, de 216 % à 138 % dans le second. Lire « Ne rougissez pas de vouloir la lune : il nous la faut », Le Monde diplomatique, juillet 2011.
(11) « En sortir », La pompe à phynance, 26 septembre 2012, http://blog.mondediplo.net
(12) « “Eradiquer les paradis f iscaux” rendrait la rigueur inutile », Libération, Paris, 30 avril 2013.
(13) Lire Frédéric Lordon, « Sortir de l’euro ? », Le Monde diplomatique, août 2013.
(14) André Gorz, dans Le Sauvage, Paris, avril 1974. Republié sous le titre « Leur écologie et la nôtre », Le Monde diplomatique, avril 2010.
(15) Alain Accardo, « L’organisation et le nombre », La Traverse, n° 1, Grenoble, été 2010, www.les-renseignements-genereux.org
(16) Expression de M. Wael Ghonim, cyberdissident égyptien et responsable marketing de Google.
(17) Thomas Frank, « Occuper Wall Street, un mouvement tombé amoureux de lui-même », Le Monde diplomatique, janvier 2013.
(18) Lire Dominique Pinsolle, « Entre soumission et rébellion », Le Monde diplomatique, mai 2012.
(19) L’Humanité, Saint-Denis, 31 juillet 2013. (20) Cf. Franck Poupeau, Les Mésaventures de la critique, Raisons d’agir, Paris, 2012.
(21) Moncef Marzouki, L’Invention d’une démocratie. Les leçons de l’expérience tunisienne, La Découverte, Paris, 2013.



Domenica 15 Settembre,2013 Ore: 19:25
 
 
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