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www.ildialogo.org Erdoğan e Putin: non più di moda,di Bernd Ulrich

Die Zeit, Hamburg – 20 giugno 2013, n° 26
Estero

Erdoğan e Putin: non più di moda

di Bernd Ulrich

La politica autoritaria non ha futuro. Essa danneggia tutti – alla fine anche i dominatori.


Da Die Zeit un articolo sull'autoritarismo.
Su Repubblica il commento di Barbara Spinelli all'abiezione in corso d'opera.
http://sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/L-austerity-che-affossa-l-Europa-19522
Segnali di un fuoco che si alimenta sotto la cenere?
J.F.Padova

Die Zeit, Hamburg – 20 giugno 2013, n° 26

Estero
Erdoğan e Putin: non più di moda
La politica autoritaria non ha futuro. Essa danneggia tutti – alla fine anche i dominatori.
Bernd Ulrich
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
zeit.de

“Là dove non ci si può radunare si becca il manganello sulla capoccia” – “La nostra pazienza è al termine. Avverto per l’ultima volta. Prego madri e padri di tenere lontani i loro figli”. Non si può dire al primo tentativo quale delle due citazioni proviene da Erdoğan e quale da Putin. Anche se alla fine l’appello ai genitori si adatta meglio al patriarca turco che cerca disperatamente di imporsi e la fredda minaccia di violenza a Putin.

Entrambi gli uomini reagiscono alla contestazione con l’aggressione, entrambi cercano di mettere paura se ricevono segnali paurosi, tutti due in altre parole sono capi autoritari. – Ed entrambi riempiono attualmente i titoloni sui giornali. Erdoğan con la sua brutale campagna contro l’opposizione, mentre Putin a casa sua mediante leggi delatorie aizza alla caccia contro i froci e sul piano internazionale blocca le soluzioni per la Siria.

La domanda qui non può essere se queste condotte autoritarie siano legittime (naturalmente non lo sono), la domanda è se al giorno d’oggi tutto questo può ancora funzionare. E se sì, quanto a lungo.

Anche in Occidente vi è una semplicistica brama di autoritarismo
In ampie parti dell’Europa e del Nord America l’autoritarismo è in arretramento, poiché ha perduto la sua più importante risorsa: la paura della gente. Le persone comuni hanno molto meno paura di una volta: dello Stato, dei genitori, degli insegnanti, della polizia. In Occidente non vi sono più attualmente le premesse intellettuali e psicologiche per una politica autoritaria. Ma invece un certo desiderio di comportamenti senza ciance. Con invidia molti guardano a uomini come Putin o Erdoğan, perché essi presumibilmente possono ancora intervenire energicamente per imporre con efficienza ciò che è stato già deciso.

Questa è un’illusione ottica. In realtà Putin adopera una quantità mostruosa di energie politiche, economiche e culturali per mantenere la sua autorità. Ci sono l’apparato repressivo, le forze armate gonfiate al parossismo, gli stramiliardi di rubli per comperare compari e comparse del potere, c’è l’inconcepibile disgrazia che egli infligge a tutti quelli che non vogliono piegarsi al suo volere, perché vogliono parlare e vivere liberamente, o che non lo possono fare, perché per esempio sono omosessuali, nella Russia di Putin fatti diventare innominabili, dichiarati ammalati. E vi sono i 100.000 morti siriani, di una parte dei quali è responsabile Putin, perché laggiù svolge una lotta di potere contro gli Stati Uniti (che non la vogliono proprio). Tutto per il potere di uno solo.

Anche Erdoğan ha aumentato una settimana dopo l’altra i mezzi di repressione, sempre più polizia, sempre più costrizione contro avvocati e perfino medici. Da ultimo ha minacciato la sua gente di fare intervenire l’esercito, che pure gli è veramente odioso. E tutto questo a quale scopo? Per un centro commerciale? No, questo non lo otterrà più comunque. Tutto lo sfoggio è servito soltanto a sostenere il suo gesto autoritario, alle sue parolone dovevano seguire fatti folli, del tutto sproporzionati.

Un Heiner Geissler turco [ndt.: politico tedesco noto per spirito conciliatorio e capacità d’intermediazione], un singolo gesto conciliante del premier, una manifestazione di leale rispetto per i dimostranti – e tutto il terrore di piazza Taksim non sarebbe stato necessario.

In un mondo che diventa antiautoritario la politica autoritaria, come si mostra sia in Putin che in Erdoğan, ha bisogno di un orribile spiegamento di mezzi.

Tuttavia i due uomini non sono uguali e non lo sono nemmeno i due Paesi. In Erdoğan ognuno può riconoscere facilmente il patriarca, la cui figlia sposa un uomo che lui rifiuta. È come se volesse dire a milioni di giovani turchi: “Finché mettete le gambe sotto il mio tavolo fate quello che vi dico” [ndt.: = finché mangi la mia minestra…]. Si sa come per lo più va a finire. Presto o tardi la figlia lo intenerirà, prima o poi Erdoğan capirà – o se ne andrà.

La questione turca – per quanto si possano fare previsioni – un giorno o l’altro ne uscirà bene, anche perché le fondamenta del Paese sono sane: ha un’economia fiorente, per la cui efficienza vale la pena si occupino persone responsabili e capi che vedano come con buone parole si può ottenere più che con vuote minacce.

Con Putin e la sua Russia le cose sono differenti. Egli è di gran lunga il monarca più freddo, istiga contro i gay, nonostante questi non lo minaccino in nessun modo ma gli servano semplicemente come conveniente deviazione per l’aggressività della insoddisfatta maggioranza. Economicamente la Russia è un Paese malato, quasi tutta la ricchezza proviene dalle saracinesche del gas o dai corridoi del Cremlino. In Russia il benessere delle persone è condizionato solo marginalmente dalle loro prestazioni, invece piuttosto dalla vicinanza al Potere o ai petrodollari. Questo forma un popolo di imbroglioni e di imbrogliati, non di cittadini, che gradualmente si emancipano e cominciano a deridere le gesta autoritarie. (Tanto più profondamente ci si deve togliere il cappello davanti a coloro che nonostante tutto ci provano).

E che cosa succede, se il prezzo del gas diventa più basso, perché la svolta energetica in Germania, il fracking [ndt.: estrazione del gas dalle rocce] negli Stati Uniti e il gas recentemente reso accessibile in Nord Africa rovinano i prezzi? È difficile da immaginare come da tutto questo possa sorgere una anche lieve transizione verso maggiore umanità e dignità, forse verso qualcosa che somigli alla democrazia.

L’autoritarismo, questo pare sicuro, sul lungo periodo non ha futuro. Soltanto ci si chiede quante sciagure ancora diffonderà, prima di scomparire.


L’odore marcio del compromesso

di BARBARA SPINELLI

Siamo talmente abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie, che nella diversità ci siamo installati, e non chiediamo più il perché ma solo il come. Il perché conta invece, è la domanda essenziale se vogliamo capire chi siamo: non una nazione che fa delle leggi le proprie mura di cinta ma un paese immerso nell’anomia, nell’assenza di leggi scritte o non scritte.

Di conseguenza, un paese a disposizione. Gli storici forse, o gli antropologi, potrebbero rispondere. Perché siamo una terra dove ben due volte, nell’ultimo decennio, sono stati sequestrati cittadini stranieri con regolari passaporti e deportati con spettacolare violenza nei paesi da cui erano fuggiti per scampare alle torture o alla morte. Il 17 febbraio 2003 fu il caso dell’imam di Milano, Abu Omar; oggi è toccato a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov (anche ricercato per frode), e alla figlia di 6 anni Alua: in ambedue le occasioni lo Stato si è inchinato a mafiosi diktat di potenze straniere, sperando che l’affare non venisse mai a galla.

Perché siamo sempre in stato di emergenza, di necessità, sempre in mano a governanti che hanno l’impudenza di dire che non sanno quel che fanno, che sono stati aggirati da poteri interni o esterni incontrollati. Perché la fine della guerra fredda non ci ha resi più liberi di fare un’altra politica ma ci ha ancora più seppelliti nella necessità, imbarbarendoci al punto che un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, può paragonare il ministro di colore Cécile Kyenge a un orango, senza subito decadere dalla carica che ricopre. Anche questo è anomia: tutto è permesso ai potenti, quando non hanno nulla da temere.

Siamo abituati a ingoiare ogni misfatto e a ridacchiare di noi stessi: dei politici che ignorano le proprie azioni, di Calderoli che fa la sua «simpatica battuta», del poliziotto che grida alla Shalabayeva battute analoghe («puttana russa»). L’aggettivo simpatico dilaga nel nostro parlare: Thomas Mann se ne accorse e inorridì, descrivendo l’alba del fascismo nella novella Mario e il Mago. Anche il sequestro di Alma e Alua è orrido. C’è qualcosa di radicalmente marcio in Italia, se davvero crediamo che un’operazione così vasta (40 uomini della pubblica sicurezza mobilitati per l’assalto) sia nata nelle menti di una polizia del tutto sconnessa dal potere politico.

Nella sua inchiesta sulla deportazione di Alma e Alua, Carlo Bonini ricostruisce su Repubblica una storia torbida, che comincia al ministero dell’Interno con un vertice segreto, la mattina del blitz, tra l’ambasciatore kazako Yelemessov, il suo primo consigliere, e il capogabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Qui si concorda l’enorme operazione, e la sua natura violenta. Chi legge l’inchiesta non potrà sottrarsi a sgradevoli reminiscenze: in quelle stesse stanze del Viminale Borsellino, convocato d’urgenza mentre interrogava il pentito Gaspare Mutolo sui patti Stato-mafia, sentì quel che a suo parere aveva precipitato l’assassinio di Falcone, e che 18 giorni dopo avrebbe ucciso anche lui: il «puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». L’assenza tragica del «fresco profumo della libertà». In quelle stanze non trovò solo il nuovo ministro Mancino. Trovò Contrada, uomo dei Servizi di cui subito intuì la mafiosità.

Quel puzzo di compromesso morale permane. Non abbiamo magari tutte le prove ma lo sappiamo: la democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri. Il dispositivo intrappola perfino ministri onesti come Emma Bonino, che seppe subito dell’avvenuto sequestro e forse tentò rimedi: ma troppo tardi, troppo in segreto. Ancora una volta Berlusconi è coinvolto, non direttamente come nel caso Abu Omar ma tramite Alfano.

In uno Stato-piattaforma è ineluttabile il patteggiare sotterraneo con poteri esterni o occulti. La democrazia degenera in finzione, i ministri scaricano le colpe sulla polizia, o i Servizi, o i capigabinetto. «Non sapevamo », ripetono: in italiano si chiama omertà.

Invece di Alfano s’è dimesso il capogabinetto Procaccini: in stato di necessità i governi non hanno da cadere. Resta che non basta un gesto, per emendare la democrazia a bassa intensità che siamo diventati. Per riattivare gli anticorpi che ci sveleniscano, e che pure esistono: la Costituzione, i magistrati, i parlamentari liberi, l’informazione indipendente. Non a caso la destra berlusconiana si scatena da anni contro di loro. Li accusa di eversione: non della democrazia, ma dello Stato-dispositivo che domina i cittadini e li depotenzia.

Per questo sono state così importanti, nel 2010, le rivelazioni di Wikileaks sulla deportazione di Abu Omar in Egitto, dove poi fu torturato e spezzato. Grazie a loro fu scoperchiata la completa identità di vedute fra Berlusconi e il governo Usa, sull’indipendenza dei giudici italiani. In un cablogramma confidenziale del 2005, gli americani si lamentano dei nostri magistrati. «Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al ministro della Giustizia. È quasi impossibile dissuaderli dall’agire come vogliono»: cioè dal chiedere l’estradizione degli agenti Cia implicati del sequestro dell’imam.

Sotto accusa a quei tempi era Armando Spataro, il procuratore che chiese e infine ottenne la condanna in terzo grado dell’ex direttore del Sismi Pollari e del suo numero due, Marco Mancini. Ma non poté processare gli agenti americani. Il segreto di Stato fu difeso da Berlusconi come dal governo Prodi, l’estradizione venne bloccata. Fu con Enrico Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che l’ambasciatore Usa Ronald Spogli provò a negoziare l’impunità della Cia.

Letta non gli rispose a muso duro, come avrebbe dovuto. Già allora amava rinviare, sopire: mandò Spogli dal ministro della Giustizia Mastella, che solerte obbedì al potente alleato. Lo stesso avviene oggi. Il Kazakistan è uno Stato torturatore ma ricco di petrolio. Il suo Presidente Nazarbayev gode dell’amicizia di Berlusconi.

Fin dalla guerra fredda il potere politico a Roma ha questa malleabilità, questa inconsistenza. È uno Stato- non Stato, simile alla Grecia pur avendo avuto una Resistenza che non fu estromessa su pressione americana come a Atene (in una guerra civile di tre anni, dal ‘46 al ’49) ma che pesò, dando vita al Comitato di liberazione nazionale e poi alla Costituzione. Ciononostante siamo andati somigliando a quel che la Grecia fu per decenni: una piattaforma militare, uno Stato in cui i cittadini non credono. Non abbiamo avuto i colonnelli, abbiamo gli anticorpi, ma il miasma fiutato da Borsellino resta. I ministri della Repubblica non sanno la verità che ammettono, quando dicono che i misfatti avvengono «a loro insaputa». Ammettono che i governanti sono marionette, che le elezioni sono inutili: altri decidono chi siamo.
Ritrovare il fresco profumo della libertà è compito nostro e dell’Europa, se non vuole essere anche lei un dispositivo. Urgente è mettere in comune i debiti, ma anche la democrazia, le leggi. Manca l’unione bancaria, ma anche una vincolante Costituzione comune: che bandisca le deportazioni di chi trova asilo in terra europea; che dia la cittadinanza agli immigrati nati nell’Unione, perché la «mondializzazione dell’indifferenza » è inevitabile se il diritto del suolo non sostituirà quello del sangue. Una comune legge, infine, dovrebbe vietare ai rappresentanti delle nazioni parole come quelle dette da Calderoli. La politica estera, l’integrazione degli immigrati, il diritto d’asilo non sono a disposizione. Né di signori esterni, né di signori interni che non temono sanzione alcuna, quando imbarbariscono.

(17 luglio 2013)




Mercoledì 17 Luglio,2013 Ore: 08:15
 
 
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