- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (317) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org La trappola di una contestazione senza rivendicazioni  ,di Thomas Frank

Le Monde Diplomatique, gennaio 2013, pagg. 4-5
La trappola di una contestazione senza rivendicazioni  

Occupy Wall Street, un movimento innamorato di sé stesso


di Thomas Frank

Frastornati come siamo da una campagna elettorale che è benevolo definire demenziale, priva com'è (per ora?) di programmi di governo, ci sfuggono mutamenti che a posteriori diventano sempre più significativi. Per esempio, ci siamo accorti dello svanire di Occupy Wall Street? Ci siamo chiesti: perché? E' servito a qualcosa? A che? Visto che Banche e Capitale continuano a fare ciò cui si sperava porre fine.
Cerca una risposta Thomas Frank, la presentazione del cui articolo dice: "Tutto oppone il Tea Party, preoccupato di abbassare il livello della tassazione, e il movimento Occupy Wall Street, sdegnato per l’ampliarsi delle ineguaglianze. Eppure, mentre il primo continua a pesare nella società e nelle istituzioni, il secondo ha (provvisoriamente?) levato le tende senza avere ottenuto granché. L’autore di «Perché i poveri votano a destra» trae da questa conclusione alcune crudeli lezioni di strategia politica, che vanno al di là del caso americano."
JFPadova

 

Tutto oppone il Tea Party, preoccupato di abbassare il livello della tassazione, e il movimento Occupy Wall Street, sdegnato per l’ampliarsi delle ineguaglianze. Eppure, mentre il primo continua a pesare nella società e nelle istituzioni, il secondo ha (provvisoriamente?) levato le tende senza avere ottenuto granché. L’autore di «Perché i poveri votano a destra» trae da questa conclusione alcune crudeli lezioni di strategia politica, che vanno al di là del caso americano.

Thomas Frank, giornalista di Harper’s Magazine e fondatore della rivista The Bafler, sulla quale fu pubblicata una prima versione di questo articolo. Autore di «Pourquoi les pauvres votent à droite» (nella trad. francese), Agone, Marsiglia, 2004.

(traduzione dal francese di José F. Padova)

Ogni volta che tento di ritrovare l’effetto esaltante che il movimento Occupy Wall Street (OWS) ha avuto su di me al tempo in cui sembrava destinato a un grande avvenire una scena mi torna alla memoria. Mi trovavo nel metro di Washington e leggevo un articolo sui protestatari radunati in Zuccotti Park, nel cuore di Manhattan. Era tre anni dopo che Wall Street era stata rimessa in sesto, due anni dopo che tutti i miei conoscenti avevano abbandonato la speranza di vedere il presidente Barak Obama fare prova di audacia, due mesi dopo che gli amici repubblicani dei banchieri avevano portato il Pese sul bordo del default dei pagamenti, avviando un braccio di ferro sul bilancio contro la Casa Bianca. Come tutti, ne avevo abbastanza.

Vicino a me stava un passeggero vestito alla perfezione, certamente un quadro superiore di ritorno da qualche fiera commerciale, giudicando dallo slogan giocoso stampato sulla borsa che portava a tracolla. Quello slogan indicava come ottimizzare i propri investimenti in borsa, o forse perché il lusso è un beneficio, o fino a che punto è magnifico essere un vincente. L’uomo sembrava essere estremamente a disagio. Assaporavo la situazione: ancora di recente sarei arrossito esibendo la copertina del mio giornale in una tratta sovraffollata del metro; adesso era gente come lui che passava rasente ai muri.

Qualche giorno dopo osservavo un video su Internet che mostrava un gruppo di militanti dell’OWS mentre discutevano in una libreria. A un certo punto del film uno degli intervenuti si interrogava sull’insistenza dei suoi compagni nel pretendere di non esprimersi se non «per loro stessi», invece di farsi carico della loro appartenenza a un collettivo. Allora un altro gli replicava: «Ognuno non può parlare che per sé stesso, contemporaneamente il “sé stesso” potrebbe certo dissolversi nel proprio rimettersi in discussione, come ci invita a farlo ogni corrente di pensiero post-strutturalista che porta all’anarchia. (…). “Non posso parlare se non solamente per me stesso”: è il “solamente” che conta qui e sicuramente qui ci sono altrettanti spazi che si aprono».

Ascoltando questo gergo pseudo-intellettuale ho capito che era finita. Il filosofo Slavoj Žižek aveva messo in guardia i campeggiatori di Zuccotti Park nell’ottobre 2011: «Non cadete nell’amore di voi stessi. Qui viviamo un momento piacevole. Ma, ricordatevene, i carnevali non costano caro. Ciò che conta è il giorno dopo, quando dovremo riprendere le nostre vite normali. Qualcosa sarà cambiato?».

L’avvertimento di Žižek appare nell’opera Occupy: Scenes from Occupied America («Occuper. Scènes de l'Amérique occupée », Verso, 2011), il primo libro dedicato al fenomeno protestatario dell’anno precedente. Da allora una valanga di prodotti editoriali ha sommerso gli scaffali delle librerie, dai discorsi pronunciati sul luoghi dell’occupazione alle analisi giornalistiche, passando per le testimonianze dei militanti.

Queste opere ricadono tutte nel cartellone evocato da Žižek. I loro autori sono profondamente, disperatamente innamorati di OWS. Ognuno di loro dà per scontato che gli occupanti anti-Wall Street abbiano fatto tremare i potenti di quel mondo e soffocano di ammirazione tutti i reprobi del pianeta. Questa visione beata si esprime spesso nel titolo stesso del libro: «Questo cambia tutto: Occupy Wall Street e il movimento del 99%» (1), per esempio. I superlativi si urtano l’un l’altro senza ritegno né precauzione. [ndt.: segue elenco di citazioni sia di titoli che di contenuti conformi a questa immagine, il testo francese è riportato in calce].

Ciò che rende questi libri molto noiosi è il fatto che, salva qualche eccezione, si assomigliano tutti, raccontano gli stessi aneddoti, citano i medesimi comunicati, svolgono le stesse interpretazioni storiche, si attardano sulle medesime bazzecole. […] Misurato per numero di parole al metro quadro di prato occupato, Zuccotti Park costituisce senza dubbio uno dei luoghi più studiati della storia del giornalismo.

Tuttavia la grande epopea ebbe breve durata. Gli occupanti furono evacuati due mesi dopo la loro installazione. Eccettuato qualche gruppo residuo qua e là, animato da militanti agguerriti, il movimento OWS si è disgregato. La tempesta mediatica che si era riversata nelle tende di Zuccotti Park se n’è andata a soffiare altrove. Facciamo una pausa e confrontiamo il bilancio di OWS con quello del suo brutto gemello, il Tea Party, e del rinnovamento della destra ultrareazionaria della quale esso è la punta di diamante (4). Grazie a questi volontari dell’escalation, il Partito repubblicano è ridiventato maggioranza alla Camera dei rappresentanti; nelle Camere degli Stati ha tolto seicento seggi ai democratici. Il Tea Party è perfino riuscito a proiettare uno dei suoi, Paul Ryan, alla candidatura per la vicepresidenza degli Stati Uniti.

La domanda alla quale i turiferari dell’OWS dedicano appassionate cogitazioni è la seguente: qual è la formula magica che ha permesso al movimento OWS di ottenere un simile successo? Ora, è la domanda diametralmente opposta che essi dovrebbero porsi: perché un simile fallimento di OWS? Come gli sforzi più encomiabili sono arrivati a impantanarsi nella palude degli oziosi commenti accademici e delle posizioni antigerarchiche?

Eppure le cose erano iniziate molto forte. Fin dai primi giorni dell’occupazione di Zuccotti Park la causa di OWS era diventata incredibilmente popolare. Di fatto, come sottolinea Todd Gitlin (5), mai fin dagli anni ’30 un tema progressista aveva compattato la società americana quanto l’aborrimento di Wall Street. Le testimonianze di simpatia piovevano a migliaia, gli assegni staccati a sostegno altrettanto, la gente faceva la coda per offrire libri e cibo agli occupanti. A Zuccotti erano venute a mostrarsi le celebrità e i media avevano cominciato a coprire l’occupazione con un’attenzione che non accordano spesso ai movimenti sociali marchiati sinistra.

Ma i commentatori hanno interpretato a torto il sostegno a OWS come un sostegno alle sue modalità d’azione. Le tende piantate nel parco, la preparazione della sbobba per legioni di occupanti, le ricerche senza fine del consenso, gli scontri con la polizia… ecco, agli occhi degli esegeti, ciò che ha costituito la forza e la singolarità di OWS, ecco quello che il pubblico ha sete di conoscere.

Quello che in quel periodo si tramava a Wall Street ha suscitato interesse meno vivace. In Occupy Wall Street, una raccolta di testi redatti da scrittori che avevano partecipato al movimento (6), la questione dei prestiti bancari a tassi di usura non appare se non a titolo di citazione delle parole di un poliziotto. E non sperate proprio di scoprire come i militanti di Zuccotti contassero di contrastare il potere delle banche. Non già perché sarebbe una missione impossibile, ma perché il modo con cui la campagna di OWS è presentato in queste opere dà l’impressione che essa non avesse altro da proporre se non la costruzione di «comunità» nello spazio pubblico e l’esempio dato al genere umano dal nobile rifiuto di eleggere portavoce.

Da qui la contraddizione fondamentale di questa campagna. Evidentemente protestare contro Wall Street nel 2011 implicava anche la protesta contro le manipolazioni finanziarie, che ci avevano precipitato nella grande recessione; contro il potere politico, che aveva salvato le banche; contro la delirante pratica degli incentivi e dei bonus, che aveva completamente trasformato le forze produttive in pozzi di San Patrizio per l’1% più ricco. Tutte queste calamità traggono la loro origine dalla deregolamentazione e dalle riduzioni delle imposte – detto in altre parole, da una filosofia dell’emancipazione individuale che, almeno nella sua retorica, non è contraria alle pratiche libertarie di OWS.

È inutile aver seguito corsi di «post-strutturalismo che portano all’anarchia» per comprendere come invertire la tendenza: ricostruendo uno Stato regolatore competente. Vi ricordate di quello che dicevano durante quei famosi primi giorni di settembre 2011 i militanti di OWS: reintroduciamo la legge Glass-Steagall del 1933, che separava le banche di deposito e le banche d’investimento. Viva lo «Stato obeso»! Viva la sicurezza!

Ma non è così che s’infiamma l’immaginazione dei contemporanei. Come animare un carnevale quando si sogna segretamente di esperti contabili e di amministrazione fiscale? Rimandando le cose a più tardi. Evitando di pretendere misure concrete. Reclamare è ammettere che gli adulti compassati e senza humour hanno ripreso in mano la barra e che la ricreazione è finita. Questa scelta tattica ha funzionato notevolmente bene all’inizio, ma ha anche fissato una data di scadenza a tutto il movimento. Negando a sé stesso di esigere qualunque cosa, OWS si è richiuso in ciò che Christopher Lasch chiamava – nel 1973 – il «culto della partecipazione». Altrettanto si può dire di una protesta il cui contenuto si riassume nella soddisfazione di aver protestato.

I confusi discorsi dei militanti

Nelle loro dichiarazioni d’intenti, gli occupanti di Zuccotti Park celebravano alta e forte la vox populi. Nella pratica, tuttavia, il loro centro di gravità pendeva da una sola parte, quella del piccolo mondo universitario. I militanti citati nei libri non svelano sempre la loro identità socio-professionale ma, quando lo fanno, si rivelano essere sia studenti, sia ex studenti recentemente diplomati, sia insegnanti.

Alla mobilitazione del mondo universitario non si può che rendere omaggio. La società ha bisogno di sentire quella voce. Quando i costi della scolarizzazione salgono a vette vertiginose, quando l’indebitamento dei diplomati che sbarcano sul mercato del lavoro raggiunge facilmente i 100.000 dollari, quando dottorandi si ritrovano sfruttati spudoratamente, le persone coinvolte hanno perfettamente ragione di protestare (7). Dovrebbero affrontare il sistema, esigere uno stretto controllo dei costi per la formazione. Si pensi alle manifestazioni che hanno scosso il Quebec la scorsa primavera, quando una parte importante della popolazione è venuta a sostenere nelle strade l’esigenza studentesca di un’educazione accessibile a tutti: lassù il movimento ha vinto. Gli studenti hanno ottenuto quasi tutto ciò che chiedevano. La protesta sociale ha fatto cambiare l’accesso all’università.

Ma è quando accade il contrario, quando la discussione accademica di alta cultura diventa un modello di lotta sociale, che sorge il problema. Perché OWS ispira tanto spesso ai suoi ammiratori il bisogno di esprimersi in un gergo inintelligibile? Perché tanti militanti hanno sentito il bisogno di lasciare il loro posto per partecipare a dibattiti da salotto fra eruditi (8)? Perché altri hanno scelto di riservare le loro testimonianze a riviste specializzate come American Ethnologist o Journal of Critical Globalisation Studies? Perché un pamphlet concepito per galvanizzare le truppe di OWS è riempito di dichiarazioni lambiccate del genere: «Il nostro punto di attacco si situa nelle forme dominanti di soggettività, prodotte nei contesti delle attuali crisi sociali e politiche. Noi ci rivolgiamo a quattro figure assoggettate – l’indebitato, il mediatizzato, l’assicurato [sociale] e il rappresentato – che tutte sono sulla strada dell’impoverimento e il cui potere d’azione sociale è mascherato o mistificato. Pensiamo che i movimenti di rivolta o di ribellione ci diano i mezzi non solamente di rifiutare i regimi repressivi dei quali soffrono le figure ricordate, ma anche di rovesciare questi assoggettamenti nei confronti del potere (9)»? E perché, qualche mese soltanto dopo aver occupato Zuccotti Park, diversi militanti hanno giudicato indispensabile creare una loro propria rivista universitaria con pretese di teorizzazione, Occupy Theory, destinata sicuramente ad accogliere dissertazioni impenetrabili miranti a dimostrare la futilità di qualsiasi teorizzazione. È così che si costruisce un movimento di massa? Ostinandosi a parlare un linguaggio che nessuno comprende?

La risposta è nota: prima che una protesta si allarghi in movimento sociale di grande ampiezza, i suoi protagonisti devono anzitutto riflettere, analizzare, teorizzare. Il fatto è che, da questo punto di vista, OWS ha fornito abbastanza materiale per alimentare un mezzo secolo di lotte – senza riuscire per questo a portare la propria lotta se non in un vicolo cieco.

Occupy Wall Street ha realizzato cose eccellenti. Ha saputo trovare un buon slogan, identificare il vero nemico e captare l’immaginazione del pubblico. Ha dato forma a una cultura protestataria democratica. Ha stabilito rapporti con i sindacati dei lavoratori, un passo cruciale nella buona direzione. Ha ridato vigore al concetto di solidarietà, virtù cardinale della sinistra. Ma i riflessi universitari hanno presto preso un posto schiacciante, trasformando OWS in un laboratorio nel quale i suoi sgobboni venivano per convalidare le loro teorie. Perché gli accampamenti non accoglievano soltanto militanti preoccupati di cambiare il mondo: sono serviti anche di arena alla promozione di qualche carrierista.

E questo è un modo ancora troppo ottimista di presentare le cose. Il modo pessimista consisterebbe nell’aprire l’ultimo libro di Michael Kazin, American Dreamers (Knopf, New York, 2011) e nel convenire con lui che, dopo la guerra del Vietnam e la lotta per i diritti civili negli anni ’60, nessun movimento progressista ha effettuato il collegamento con il grande pubblico americano – a eccezione della campagna anti-apartheid degli anni ’80. È vero che al tempo del Vietnam il Paese formicolava di militanti di sinistra, soprattutto nelle università. Ma, in seguito, studiare la «resistenza» ha costituito un modo collaudato di migliorare le proprie prospettive di carriera, quando non si tratta proprio della materia prima di certe discipline annesse. Tuttavia, per quanto erudita sia sul piani intellettuale, la sinistra continua a passare da una disfatta all’altra. Non riesce più a fare causa comune con il popolo.

Questo scacco si spiega forse con la sovra rappresentazione, al suo interno, di una professione il cui modus operandi è deliberatamente astruso, ultra gerarchizzato, verboso e professorale, poco propizio a un processo federativo. O forse risulta dalla persistenza a sinistra di un disprezzo per l’uomo della strada, soprattutto quando gli si può rimproverare di avere votato male o commesso qualche peccato politico. O forse ancora si tratta del crollo dell’apparato industriale che rende obsoleti i movimenti sociali. Non è nelle opere sull’OWS che se ne troverà una risposta benché minima.

Gli attivisti anti-Wall Street non amano, è chiaro, i loro omologhi del Tea Party. Nel loro spirito, apparentemente, non sono per niente delle persone vere, come se alla loro specie si applicassero altri principi biologici. La filosofa Judith Butler, professore all’Università della Columbia, evoca con ripugnanza una riunione del Tea Party, nel corso della quale alcuni individui si sono rallegrati per la prossima morte di numerosi malati sprovvisti di assicurazione sanitaria. «In quali condizioni economiche e politiche vengono alla luce simili forme di gioiosa crudeltà?», s’interroga.

È una buona domanda. Due paragrafi oltre, tuttavia, Butler cambia soggetto per lodare l’ammirevole decisione di OWS di non reclamare nulla, ciò che le fornisce l’occasione di abbozzare una teoria di alto volo: una folla che protesta è spontaneamente e intrinsecamente liberazionista. «Quando corpi si riuniscono per manifestare la loro indignazione e affermare la loro esistenza plurale nello spazio pubblico, esprimono anche richieste più ampie», ella scrive. «Essi chiedono di essere riconosciuti e valorizzati: rivendicano il diritto di apparire ed esercitare la loro libertà, reclamano una vita vivibile (10)». È strutturato come un congegno a orologeria: i malcontenti che scendono nelle strade lo fanno necessariamente per affermare l’esistenza plurale dei loro corpi, dovunque e sempre – salvo che appartengano al gruppo ricordato due paragrafi sopra…[ndt.: il Tea Party]

Eppure i due movimenti presentano qualche rassomiglianza. Condividono la medesima avversione ossessiva per i piani di salvataggio del 2008, qualificati nei due campi come «capitalismo di connivenze». L’uno e l’altro si esprimono occupando spazi pubblici; l’uno e l’altro hanno riservato un posto importante ai seguaci di Ron Paul, il capofila della corrente «libertaria» del Partito repubblicano. È perfino circolata in entrambi i campi la maschera di Anonymous (l’effige di Guy Fawkes, il vendicatore solitario del film V come vendetta).

Esistono analogie anche sul piano tattico. OWS e Tea Party sono rimasti ugualmente sfumati nelle loro rivendicazioni, allo scopo di mettere meglio insieme cani e porci. I due gruppi si sono appesantiti con la medesima enfasi sulle persecuzioni delle quali si ritenevano vittime. Sul lato degli occupanti, si insisteva sulle brutalità poliziesche. In un rapporto di quarantacinque pagine (11) Will Bunch narra nei dettagli la cieca repressione e l’arresto di massa di una manifestazione sul ponte di Brooklin. Sul lato del Tea Party si tratta del supplizio inflitto dai «media di sinistra» e delle loro accuse di razzismo che nutre il martirologio collettivo (12).

L’assenza di dirigenti è un altro punto comune ai due campi. Nel manifesto del Tea Party redatto nel 2010 da Richard (“Dick”) Armey, ex parlamentare repubblicano del Texas, figura perfino un capitolo intitolato «Noi siamo un movimento d’idee, non di leader». Il ragionamento riferito qui non sfigurerebbe presso i teorici di OWS: «Se essi [i nostri avversari] sapessero chi tira i fili, potrebbero prendersela con lui o con lei. Potrebbero schiacciare l’opposizione sgradevole del Tea Party».

Se ci s’immerge nei riferimenti letterari del Tea Party vi si può ugualmente scoprire tracce della filosofia di OWS relativa al rifiuto di qualsiasi rivendicazione. Guardiamo quello che ne dice la filosofa Ayn Rand, le cui teorie «obiettiviste» sono servite da zoccolo morale alla deregulation capitalista (13). In La Grève [Lo Sciopero], la sua grande opera romanzesca pubblicata nel 1957, venduta in sette milioni di esemplari negli Stati Uniti, le «rivendicazioni» sono assimilate al mondo nocivo del potere politico, che le formula in nome dei suoi amministrati forzatamente fannulloni e improduttivi. Gli uomini d’affari, al contrario, negoziano contratti: agiscono nell’armonia dei rapporti consensuali stabiliti dal libero mercato. Il pezzo di bravura si effettua nel momento in cui il personaggio di John Galt, che si è messo in sciopero contro il flagello dell’egualitarismo, indirizza questo discorso al governo americano: «Non abbiamo alcuna rivendicazione da presentarvi, alcuna disposizione da contrattare, nessun compromesso da raggiungere. Voi non avete nulla da offrirci. Noi non abbiamo bisogno di voi».

Fare sciopero senza reclamare nulla? Si, perché chiedere qualcosa allo Stato equivarrebbe riconoscere la sua legittimità. Per definire questo atteggiamento Rand ha forgiato una sofisticata espressione: la «legittimazione della vittima». Impegnato nella realizzazione della sua potenzialità personale, il grande proprietario – la «vittima», nella pittoresca visione del mondo dell’autrice – rifiuta la benedizione di una società che lo tiranneggia a colpi d’imposte e di regolamenti. Il miliardario illuminato non vuole avere niente a che fare con i predatori e i parassiti che popolano una società livellata verso il basso.

Questi precursori dell’ «1%» come procederanno per spuntarla? Costruendo una comunità modello nel cuore stesso del vecchio mondo. Tuttavia i miliardari contusi immaginati dalla Rand non organizzano assemblee generali nei giardini pubblici, ma si ritirano in una valle deserta del Colorado, dove creano un capitalismo paradisiaco, non coercitivo, la cui moneta, un’unità-base d’oro fatta in casa, non deve nulla allo Stato.

Come adescare il cliente?

Un’ultima similitudine. L’astuzia ideologica del Tea Party è consistita, certamente, nello stornare la collera popolare che si era scatenata contro Wall Street per riportarla contro lo Stato (14). L’OWS ha fatto lo stesso, ma in maniera più astratta e teorica. Ci si accorge di questo, per esempio, decifrando l’argomentazione dell’antropologo Jeffrey Juris: «Le occupazioni hanno rimesso in causa il potere sovrano dello Stato di regolare e controllare la distribuzione dei corpi nello spazio, (…), in particolare con l’appropriazione di peculiari spazi urbani come i parchi pubblici e gli square e con la loro riqualificazione in luoghi di assemblea pubblica e di espressione democratica (15)». Questo tipo di retorica illustra un punto di convergenza fra OWS e la sinistra universitaria: la messa in accusa dello Stato e del suo potere di tutto «regolare», «controllare», anche se, nel caso di Wall Street, il problema deriva piuttosto dal fatto che esso non regola e non controlla pressoché niente. Fatte salve alcune correzioni di minore importanza il testo potrebbe essere letto come un pamphlet libertario contro gli spazi verdi.

Dal momento che nessuno dei libri citati qui ha prestato attenzione a queste concordanze, non si rischia nel cercarvi una teoria suscettibile di spiegarli. Mi si permetta quindi di proporre la mia.

La ragione per la quale OWS e Tea Party paiono talvolta tanto somiglianti si deve al fatto che entrambi prendono a prestito da quel libertarismo un po’ pigro e narcisistico che ormai impregna la nostra visione della contestazione, dagli adolescenti di Disney Channel alla ricerca di loro stessi fino agli pseudo anarchici che vandalizzano uno Starbuck’s. Tutti immaginiamo che essi si ribellino contro «lo Stato». Sembra sia nel genoma della nostra epoca.

Poiché il successo arrivava, il Tea Party ha rimesso negli armadi i suoi discorsi arroganti sull’organizzazione orizzontale. Tutte frottole la cui principale destinazione era quella di adescare il cliente. Questo movimento non aveva pensatori post strutturalisti, ma disponeva di denaro, di reti organizzative e dell’appoggio di una grande catena televisiva (Fox News). Così non ha tardato a produrre dirigenti, rivendicazioni e un fruttuoso allineamento verso il Partito repubblicano. Occupy Wall Street non ha preso quella strada. All’orizzontalità credeva veramente. Dopo aver conosciuto un successo folgorante si è sfasciato al volo

Le elezioni presidenziali e legislative del novembre 2012 sono ora terminate. Obama è stato riportato alla Casa Bianca, Ryan ha conservato il suo seggio alla Camera dei rappresentanti, la guerra contro i lavoratori continua – in particolare nel Michigan – e Wall Street dirige sempre il mondo. Certamente, la plutocrazia non è riuscita a convincere la popolazione di essere la sua migliore amica, ma il vecchio ordine perdura e appare sempre più evidente che solamente un movimento sociale di massa, solidamente ancorato a sinistra, potrà mettere fine all’era neoliberista. Purtroppo OWS non lo fu.

(1) Sarah Van Gelder et l'équipe de Yes! Magazine, This Changes Everything : Occupy Wall Street and the 99 % Movement, Berrett-Koehler, San Francisco, 2012.

(2) Lenny Flank, Voices From the 99 Percent: An Oral History of the Occupy Wall Street Movement, Red Black & Publishers, St Petersburg (Floride), 2011.

(3) Chris Hedges et Joe Sacco, Jours de destruction, jours de révolte, Futuropolis, Paris, 2012.

(4) Lire Robert Zaretsky, «Au Texas, le Tea Party impose son style», Le Monde diplomatique, novembre 2010.

(5) Todd Gitlin, Occupy Nation : The Roots, the Spirit, and the Promise of Occupy Wall Street, It Books, New York, 2012.

(6) Collectif Writers for the 99 %, Occupying Wall Street : The Inside Story of an Action that Changed

(7) Lire Christopher Newfield, «La dette étudiante, une bombe à retardement», Le Monde diplomatique, septembre 2012.

(8) Une situation qu'on observe aussi ailleurs. Lire Pierre Rimbert, «La pensée critique dans l'enclos universitaire », Le Monde diplomatique, janvier 2011.

(9) Antonio Negri et Michael Hardt, « Declaration», repris par Jacobin sous le titre «Take up the baton», www.jacobinmag.com

(10) Judith Butler, «From and against precarity», décembre 2011, www.occupytheory.org

(11) Will Bunch, October 1", 2011: The Battle of the Brooklyn Bridge, Kindle Singles, Seattle, 2012.

(12) Par exemple, Michael Graham, That's No Angry Mob, That's My Mom : Team Obama'sAssault on Tea-Party, Talk-Radio Americans, Regnery Publishing, Washington, DC, 2010.

(13) Lire François Flahault, «La philosophe du Tea Party », Manière de voir, n°125, «Où va l'Amérique? », octobre-novembre 2012.

(14) Lire «Et la droite américaine a détourné la colère populaire», Le Monde diplomatique, janvier 2012.

(15) Jeffrey S. Juris, «Reflections on #Occupy everywhere : Social media, public space, and emerging logics of aggregation », American Ethnologist, vol. 39, n°2, Davis (Californie), mai 2012.

«Les 99 % se sont éveillés. Le paysage politique américain ne sera plus jamais le même », annonce l'auteur de Voices From the 99 Percent (2). Une prophétie presque tiède comparée à l'enthousiasme péremptoire de Chris Hedges. Dans fours de destruction, jours de révolte (3), l'ancien journaliste du New York Times compare OWS aux révolutions de 1989 en Allemagne de l'Est, en Tchécoslovaquie et en Roumanie. Les protestataires new-yorkais, écrit-il, « étaient d'abord désorganisés, pas très sûrs de ce qu'ils devaient faire, pas même convaincus d'avoir accompli quoi que ce soit de méritoire. L'air de rien, ils ont pourtant déclenché un mouvement de résistance global qui a résonné à travers tout le pays et jusque dans les capitales européennes. Le statu quo précaire imposé par les élites durant des décennies a volé en éclats. Un autre récit a pris forme. La révolution a commencé. »




Venerdì 18 Gennaio,2013 Ore: 17:42
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Stampa estera

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info