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www.ildialogo.org Gli Economisti Costernati mettono in guardia contro il Trattato di Bilancio,a cura di Josč F. Padova

Comunicati
Gli Economisti Costernati mettono in guardia contro il Trattato di Bilancio

a cura di Josč F. Padova

Spesso è necessario investire tempo ed energia, se si vuole estrarre una parvenza di verità dalla cacofonia mediatica. La lettura dei Trattati che hanno sancito l’avvento di moneta unica e struttura (burocratico-amministrativa) europea è un lavoro pesante. Eppure alla fine il quadro si delinea: chissà se congegnata ingenuamente e in buona fede, o invece sotto la spinta di giganteschi interessi, l’Europa tanto sbandierata si rivela una costruzione sbilenca, nella quale i popoli hanno poca (nulla) voce in capitolo e sono destinati al ruolo di vittime delle politiche decise altrove. Come quella attuale della “competitività”, dell’ “austerità” e dei “bilanci in ordine”, con la conseguenza di sottrarre alle nazioni la loro sovranità e spingere i popoli (finora quelli greco e spagnolo) a ribellarsi. Qual è il modello? Vi si intravede una velleitaria tendenza alla costituzione di una Federazione come gli Stati Uniti d’America? O si vorrebbe un’Europa-calderone di popoli, che eleggono un fantomatico Governo espresso dalle componenti più forti? O che altro?
Il testo allegato, frutto del lavoro di una numerosa équipe di economisti francesi, esamina il Trattato di Stabilità, Coordinamento e governance, conseguenza più recente dei Trattati di Maastricht e di Lisbona, mettendone in luce gli aspetti che più ci riguardano, anche personalmente, come individui nella nostra vita quotidiana. Negli ultimi tempi sono molte le voci autorevoli che lanciano allarmi nel deserto dell’opinione pubblica (uno fra tutti, Paul Krugman, ma anche Bauman e Habermas e altri ancora). Sarebbe bene diventassimo tutti più consapevoli. I nostri “politici” (si fa per dire) latitano.
JFPadova

18 settembre 2012

atterres.org

Noi interveniamo qui, come economisti, per mettere in guardia contro i pericoli che comporta il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria. Questo Patto di bilancio segna una nuova tappa delle due offensive, quella dei liberisti contro la pratica keynesiana della politica economica e quella delle istituzioni europee contro l’autonomia delle politiche nazionali di bilancio.

Questo Trattato non affronta le cause della crisi finanziaria: la cecità e l’avidità dei mercati finanziari, l’esplosione delle bolle finanziarie e immobiliari indotte dalla finanziarizzazione, l’ingigantirsi delle disuguaglianze dei redditi consentita dalla sfrenata concorrenza fra Paesi favoriti dalla mondializzazione.

Non affronta le cause della crisi della Zona euro: l’assenza di un reale coordinamento delle politiche economiche che hanno l’occupazione come obiettivo [primario], lo squilibrio provocato dalla esigenza di ottenere eccedenti [di bilancio] da parte dei Paesi del nord, il divieto iscritto nella Costituzione europea del finanziamento degli Stati da parte della BCE, ciò che permette alla speculazione di scatenarsi, quando invece è impotente nei confronti degli Stati Uniti, del Giappone e del Regno Unito, che pure sono più indebitati della Zona euro.

Il Trattato ratifica le politiche di austerità, in atto da tre anni, che affossano l’Europa in una recessione senza fine, che aggravano la chiamata in causa del modello sociale europeo, che immergono milioni di europei, in primo luogo i giovani, nella disoccupazione e milioni di famiglie nella povertà.

Il Patto di bilancio si fonda su una diagnosi errata. Il colpevole sarebbe la mancanza di disciplina di bilancio. Tuttavia, prima della crisi i Paesi della Zona euro non si distinguevano per deficit di bilancio pubblico particolarmente forti: nei tre anni precedenti la crisi (2004-2007), gli Stati Uniti avevano un deficit del 2,8% del PIL, il Giappone del 3.6%, la Zona euro dell’1,5%, nettamente inferiori agli importi degli investimenti pubblici o al livello richiesto per stabilizzare il debito. Solamente la Grecia presentava un deficit pubblico elevato. In realtà, le istituzioni europee, polarizzate sul cieco rispetto di norme arbitrarie, preoccupate di affermare il loro controllo sulle politiche nazionali, hanno lasciato che in Europa crescessero gli squilibri fra i Paesi del nord, che accumulavano gli avanzi di bilancio, e i Paesi del sud, trascinati in basso da una bolla immobiliare. Gli organismi europei hanno negato i pericoli che la deregolamentazione finanziaria faceva correre.

Secondo l’Articolo 1 del Trattato [vedi: european-council.europa.eu ) le regole sarebbero destinate a « a rinsaldare la disciplina di bilancio attraverso un patto di bilancio, a potenziare il coordinamento delle loro politiche economiche e a migliorare la governance della zona euro, sostenendo in tal modo il conseguimento degli obiettivi dell'Unione europea in materia di crescita sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale». Ma costrizioni numeriche su debiti e deficit pubblici, che non tengono conto della situazione economica, non possono essere considerate come un coordinamento delle politiche economiche.

Secondo l’art. 3 i Paesi dovranno mantenere un quasi equilibrio delle finanze pubbliche (ovvero un deficit pubblico strutturale inferiore allo 0,5% del PIL), ciò che non ha alcun fondamento economico. La vera «regola d’oro delle finanze pubbliche» giustifica, al contrario, che gli investimenti pubblici siano finanziati dall’indebitamento. Nel caso della Francia, questo autorizza un deficit pubblici strutturale dell’ordine del 2,4% del PIL.

Il medesimo articolo impone ai Paesi «una rapida convergenza verso questo obiettivo», convergenza che verrebbe proposta dalla Commissione europea, senza tenere conto della situazione congiunturale. I Paesi perderebbero quindi la loro libertà d’azione. Così, per il 2013, la Francia si vede costretta a raggiungere un deficit del 3% del PIL, dunque a praticare una politica recessiva in periodo di depressione. Tanto più recessiva quanto più sono deboli le previsioni economiche.

Per ridurre il deficit sarebbe messo in opera un meccanismo automatico. Ancora una volta, in questo caso un Paese vedrebbe essergli imposta la sua politica di bilancio. Se ha un deficit strutturale di 3 punti del PIL, l’anno successivo dovrà avere un deficit strutturale di 2 punti e poi fare sforzi per raggiungere 1 punto del PIL, quale che sia l’evoluzione economica. Un Paese colpito da un rallentamento economico non avrà il diritto di applicare una politica di sostegno.

L’obiettivo del Trattato è proprio quello di realizzare il sogno di sempre dei liberisti: paralizzare le politiche di bilancio, imporre a ogni costo l’equilibrio del bilancio. Esso volta le spalle agli insegnamenti di 75 anni di teoria macroeconomica.

Il Trattato si fonda sulla nozione di deficit strutturale, vale a dire il saldo [di bilancio] pubblico corretto dal saldo congiunturale. Il Paese si troverebbe di fronte al deficit delle sue finanze pubbliche se la sua produzione fosse al suo livello d’equilibrio, cioè la sua produzione potenziale. Esso deve essere valutato, secondo diverse teorie, con metodi differenti. La sua misura dipende dal metodo impiegato; essa è più che problematica, in particolare nei periodi cruciali, quelli di depressione o di shock macroeconomici. In realtà sono le valutazioni della Commissione che dovranno essere impiegate. Ora, queste hanno due difetti: variano fortemente nel corso del tempo e così le stime di produzione potenziale fatte per il 2006 sono state fortemente ridotte nel 2008: sono sempre vicine alla produzione effettiva, perché questo metodo considera come strutturale la diminuzione del capitale dovuta alla caduta dell’investimento durante una crisi; sottostima il deficit congiunturale e obbligherebbe ad applicare politiche pro-cicliche. Così la Commissione stima che la differenza di produzione (la differenza fra produzione potenziale e produzione effettiva) nel 2012 per la Francia sia soltanto del 2,8% (ossia un deficit strutturale del 3%), mentre altri metodi giungono a una differenza di produzione dell’8% (e quindi a un deficit strutturale dello 0,5%). Può la politica economica dipendere da simili stime?

L’obiettivo di deficit strutturale potrà essere abbassato all’1% se il debito pubblico è al disotto del 60% del PIL. Un Paese che ha in media una crescita del 2% all’anno e un’inflazione del 2% e che mantiene indefinitamente un deficit dell’1% del PIL vede il suo debito convergere verso il 25% del PIL. Ora nulla garantisce che l’equilibrio macroeconomico possa essere assicurato con valori a priori: un debito del 25% del PIL, un deficit dell’1% del PIL! Inserire questo nella Costituzione è altrettanto fondato che scrivervi: «Gli uomini dovranno pesare 70 kg e le donne 50».

Gli Stati membri dovranno iscrivere la regola dell’equilibrio di bilancio e il meccanismo di correzione automatica nella loro Costituzione o, se ciò non è possibile, in un dispositivo cogente e permanente. In questo modo dispositivi indefiniti, inapplicabili, senza fondamento economico, verrebbero scolpiti nel marmo.

I Paesi membri dovranno mettere in opera istituzioni indipendenti incaricate di verificare il rispetto della regola dell’equilibrio di bilancio e della traiettoria dell’aggiustamento. Si tratta di un passo ulteriore verso la completa tecnocratizzazione della politica economica. Queste istituzioni indipendenti avranno il diritto di rimettere in discussione la regola, se questa non corrisponde alle necessità della congiuntura?

Secondo l’art. 4 un Paese, il cui rapporto debito/PIL supera il 60% del PIL, dovrà ridurlo ogni anno di almeno un ventesimo della differenza con il 60%. Questo presuppone che un rapporto del 60% sia una cifra ottimale realizzabile da tutti i Paesi. Ora, Paesi come l’Italia o il Belgio avevano da decenni debiti pubblici del 100% del PIL (il Giappone perfino del 200%) senza squilibri, perché questi debiti corrispondono a forti tassi di risparmio delle famiglie.

Secondo l’art. 5 un Paese sottoposto a una «procedura per debito eccessivo» (PDE) dovrà sottoporre il budget e un programma di riforme strutturali alla Commissione e al Consiglio, che dovranno approvarli e seguirne l’applicazione. Questo articolo è una nuova arma per permettere d’imporre ai popoli riforme liberiste. Oggi la quasi totalità dei Paesi dell’Unione Europea (21 su 27) sono sottoposti a PDE; essi non hanno bisogno di riforme liberali, ma di crescita sociale ed ecologica. A meno che per “riforme strutturali” il Trattato intenda provvedimenti miranti a rompere il dominio dei mercati finanziari, ad aumentare le imposte sui più ricchi e sulle grandi imprese, a finanziare la transizione ecologica.

Secondo l’art. 7 le proposte della Commissione saranno adottate automaticamente, salvo che si verifichi contro di esse una maggioranza qualificata [di Stati], poiché il Paese in questione non vota. Così, in pratica, la Commissione avrà sempre l’ultima parola.

Questo progetto impone politiche di bilancio quasi automatiche, vieta ogni politica di sostegno dell’attività [economica]. Ma queste ultime sono indispensabili per la stabilizzazione economica. Alla fine del 2008 il FMI, il G20 e la Commissione europea hanno chiesto ai Paesi di intraprendere simili politiche. Occorre vietarle quattro anni dopo?

Secondo il Trattato ogni Paese deve prendere isolatamente misure restrittive, senza tenere conto della sua situazione congiunturale e delle politiche dei partner. Il Trattato fa l’implicita ipotesi che il moltiplicatore keynesiano sia nullo, che le politiche di bilancio restrittive non abbiano alcun impatto sull’attività economica. Oggi, a metà del 2012, questo impone che la maggior parte dei Paesi pratichino politiche di austerità mentre la causa dei debiti pubblici è globalmente un livello insufficiente di produzione e di occupazione dovuto all’esplosione della bolla finanziaria.

Il desiderio del nuovo governo francese [ndt.: di François Hollande] di rinegoziare il Trattato è giunto il 29 giugno a un Patto per la crescita e l’occupazione. Malgrado il suo titolo esso non è simmetrico al Patto di bilancio. Non comporta alcun obiettivo preciso in termini di occupazione o di crescita. Nell’essenziale non fa che riprendere progetti già avviati, generalmente d’ispirazione liberista: la strategia per l’Europa 2020, la necessità di garantire la efficacia dei sistemi di pensionamento (vale a dire di prolungare l’età del pensionamento o di ridurre il livello delle pensioni), di migliorare la qualità della spesa pubblica (ciò che significa spesso ridurre le spese sociali giudicate improduttive, aumentando gli aiuti alle imprese), di favorire la mobilità della mano d’opera, di aprire la concorrenza in materia di servizi, di energia, di mercato pubblico. Il Patto riconosce che non vi è accordo circa una tassa sulle transazioni finanziarie; non fa che aprire la porta a una cooperazione rafforzata, a un accordo fra alcuni Paesi, senza il Regno Unito e il Lussemburgo, cosa che ne limita fortemente la portata. Le misure di rilancio, a dire il vero, sono limitate, per non dire inesistenti. Si tratta di 120 miliardi ossia l’1% del PIL della Zona, ma su un lasso di tempo indefinito, quando i programmi di austerità nazionale rappresentano 240 miliardi all’anno. Questi 120 miliardi si articolano su un previsto aumento, di 60 miliardi, della capacità di prestito della Banca Europea d’Investimenti mediante un aumento di 10 miliardi del suo capitale, un’emissione progettata di 5 miliardi di obbligazioni su progetti destinati a finanziare infrastrutture e infine lo stanziamento, per «misure destinate a rendere dinamica la crescita», di 55 miliardi di fondi strutturali, che erano già disponibili. Nulla garantisce che nei tre anni vi saranno effettivamente impegnati fondi supplementari. In questo modo il Patto appare soprattutto come una concessione di facciata, che permette al governo francese di ratificare il Trattato di Bilancio.

Il Trattato non rimette in discussione l’assenza di garanzia dei debiti pubblici da parte della BCE; non prevede l’emissione di euro-bond; il Meccanismo europeo di Solidarietà non prevede di aiutare se non i Paesi che avranno ratificato e rispettato il Trattato. Il Paese aiutato perderà tutta la sua autonomia, dovrà sottoporre la sua politica economica alla «troika» (Commissione, BCE, FMI) e impegnarsi a una politica restrittiva, che come gli esempi di Grecia, Portogallo e Irlanda dimostrano, lo precipiterà nella recessione e nella miseria. Il dispositivo messo in piedi non stronca la speculazione. La BCE subordina il suo sostegno ai Paesi i cui tassi d’interesse salgono a riforme liberiste e a piani di austerità sempre più drastici, che li immergono nella depressione.

Il Trattato di bilancio impone l’adozione in Europa nel lungo periodo di politiche di austerità che non soltanto manderanno in pezzi l’attività economica della Zona, aggraveranno ancor più gli squilibri nei Paesi più fragili, aumenteranno le tensioni [sociali], ma bloccheranno ambiziose politiche d’investimenti ecologici nell’avvenire. Gli Stati membri possono rassegnarsi a un Trattato che paralizza per sempre le loro politiche di bilancio, per convincere i mercati della loro disciplina di bilancio futura? Possono risolversi a vedersi confiscare le redini del bilancio dopo aver perduto quelle della politica monetaria?

Il gruppo di una trentina di docenti e ricercatori in materie economiche, che si è denominato “Economisti costernati”, espone le sue idee e aspirazioni nel sito atterres.org, dove si possono ottenere informazioni circa gli statuti, il manifesto, le pubblicazioni e altro. La politica economica che suggeriscono NON è quella attuale della Burocrazia europea, che oltretutto NON è legittimata da elezioni popolari.

EUROPA - Trattato di Lisbona - Testo completo del trattato

europa.eu




Venerdė 09 Novembre,2012 Ore: 18:37
 
 
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