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www.ildialogo.org La Spagna saccheggiata dai suoi dirigenti<br>Il gatto di Felipe Gonzales,di Luis Sepúlveda

Le Monde Diplomatique, agosto 2012, pagg. 18-19
La Spagna saccheggiata dai suoi dirigenti
Il gatto di Felipe Gonzales

di Luis Sepúlveda

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Luis Sepúlveda, che attualemente vive in Spagna, vede con la sua esperienza di scampato ai massacri cileni, attivista di Greenpeace, scrittore tanto amato (non soltanto da me) la situazione in cui si trova la Spagna. Chi legge rifletta e cerchi accostamenti a un'altra simile situazione, a noi più vicina...(J.F.Padova)

Ogni racconto ha come punto di partenza un luogo e un momento determinati. La crisi mi affligge direttamente: molti dei miei amici spagnoli stanno subendone la furia devastante. Essi sentono che l’avvenire è costellato da incertezze e vedono, stupefatti, la normalità di un Paese europeo che si dissesta un giorno dopo l’altro, trascinata nella folle corsa di un potere a due teste, il Partito popolare (PP) e il Partito socialista operaio spagnolo (PSOE), incapaci sia l’uno che l’altro di fornire la benché minima spiegazione su ciò che è andato storto ieri, che va storto oggi e che soprattutto potrebbe andare ancora più storto domani.

Si suppone che il compito di un governo sia quello di formare il resoconto della società [civile], delle sue contraddizioni e dei suoi problemi; ora, in Spagna un simile resoconto non esiste e non è mai esistito. E questo per la buona ragione che, dopo la morte di Franco e l’esordio della transizione verso la democrazia (1), i responsabili politici hanno istituito la pigrizia intellettuale come loro marchio di fabbrica. Mai è stato pensato un modello di funzionamento sostenibile per il Paese. Quando si rileggono, come ho fatto io, le dichiarazioni in Parlamento o i discorsi elettorali, vi si cercherebbe invano la minima espressione di un’idea per la società spagnola.

Il solo uomo di Stato che abbia mai intrapreso un simile resoconto fu Manuel Azaña, l’ultimo Presidente della Repubblica prima del colpo di Stato franchista. Non ve ne sono stati altri, perché la grande carenza della Spagna dipende dall’inesistenza di una borghesia illuminata, che deriva a sua volta dall’assenza di uomini di Stato.

La sola dichiarazione saliente è il motto del dirigente cinese Deng Xiaoping citato a suo tempo da Felipe Gonzáles (2): «Poco importa che il gatto sia bianco o nero, purché acchiappi i topi». Partendo da questa metafora, il cui significato ha finito con l’imporsi in tutte le situazioni sociali,economiche, culturali e politiche del Paese, tenterò di costruire un resoconto che permetta di comprendere ciò che è accaduto, ciò che accade e perché. In quanto cittadino europeo ho bisogno di un ragguaglio che renda intelligibile il nostro presente da incubo e che mi aiuti a trovare la via d’uscita, prima che esso si impadronisca di me, come nel ritratto maledetto di Dorian Gray.

Faceva freddo a Madrid, in quella mattina del 4 febbraio 1988; ma la rigidità dell’inverno si avvertiva in strada e non nella sala confortevolmente riscaldata del Palazzo dei Congressi. Su invito dell’Associazione per il progresso della direzione (APD), più di un migliaio di dirigenti d’impresa bevevano le parole di Carlos Solchaga, il ministro dell’Economia e delle finanze del governo di Felipe Gonzáles: «La Spagna è il Paese in Europa e forse nel mondo nel quale si può guadagnare più soldi a breve termine. Non sono soltanto io a dirlo: è anche quello che affermano i consulenti e gli agenti di Borsa».

L’ovazione incassata dal ministro fece salire la temperatura a un livello tropicale. Il PSOE parlava chiaro e schietto: la Spagna era un Paese nel quale solamente gli idioti non diventavano ricchi – o trascuravano di convincersi che lo erano. Il funzionamento dell’economia, il principio di solidarietà, la concezione socialdemocratica del benessere, un’analisi di sinistra delle origini della ricchezza: tutto questo e tutto il resto era stato spazzato via sulla strada gloriosa che avrebbe dovuto condurre la società a riconoscersi soltanto nel patrimonio e, per di più, in un patrimonio «a breve termine».

Come fa un Paese a cedere alle sirene del denaro facile? Gli argomenti messi avanti dagli economisti per spiegare la crisi mondiale eludono un fattore essenziale: non soltanto il sistema capitalista ha fallito nel suo insieme, ma, nel caso particolare della Spagna, questo fallimento è stato amplificato dalla mancata transizione da una dittatura nazional-cattolica a uno Stato democratico che aveva come sua sola ossessione quella di voltare pagina.

L’incorporazione alla Comunità delle nazioni europee ha reso impossibile o impercettibile ogni discussione sulla natura del cantiere democratico. L’esperienza repubblicana fu ignorata senza che ci si preoccupasse del prezzo da pagare per l’assenza di referenti storici né del desiderio di Occidente che ci ha gettati nelle braccia della NATO alla fine della guerra fredda né, soprattutto, per quella maledizione culturale chiamata il «genere picaresco» (3). Il gatto, quale che fosse il colore, doveva acchiappare i topi.

Si può ridere davanti allo spettacolo della canaglia che si offre l’uva rubata al povero cieco, ma quando questa regola picaresca diventa un principio di vita, di governo, le conseguenze diventano durature. Perché le nostre crisi di oggi esistono per ricordarci quelle di ieri. Fra questi disfacimenti vi è anche l’uso di un vocabolario pervertito per allontanare la realtà. Non è un caso se il terrorismo di Stato praticato contro l’ETA (4) negli anni ’80 ricevette la definizione di «politica antiterrorista», né se la parola «crisi» venne sostituita da «calo della crescita», né se il salvataggio di una banca privata da parte di fondi pubblici venne presentato come un «prestito alle condizioni migliori». Dal primo giorno della transizione democratica in poi l’eufemismo si era imposto come un elemento strutturante del discorso politico.

Tre anni prima della caduta del muro di Berlino, il crollo del socialismo falsamente reale nei Paesi dell’Est e la proclamazione del «nuovo ordine mondiale», la Spagna aderiva all’Unione Europea e la parola «mondializzazione» risuonò in un baccano assordante, mettendo a tacere ogni riflessione sulla reale opportunità o sul modo più saggio di integrare il Paese nella nuova economia mondializzata. Impoltroniti nella certezza d’appartenere per osmosi alla minoranza fortunata dell’umanità, la classe politica in generale e la grande maggioranza degli economisti non rifletterono neppure per un secondo alle conseguenze di una decisione che, tuttavia, si trova alla radice della crisi attuale.

Quando le più potenti economie del mondo decisero che le nazioni meno sviluppate dovevano trasformarsi in un mercato gigantesco, alla condizione di aprirsi alla concorrenza del Primo mondo, nessun profeta sullo stile di Carlos Solchaga smise di credere e di martellare che le condizioni imposte ai Paesi del terzo mondo, per ingiuste e ingrate che fossero, avrebbero dato impulso a una dinamica irresistibile: i poveri venderebbero più merce ai ricchi e diverrebbero più competitivi in rapporto alle loro industrie.

Questi Paesi conobbero una crescita spettacolare e furono battezzati «economie emergenti». La loro prosperità, che si sarebbe potuto salutare come una giusta riparazione per secoli di depredazione, ebbe l’effetto di concentrare nelle mani delle élite la maggior parte delle ricchezze create, spingendo gli Stati a fare prevalere le «necessità» economiche sulle considerazioni politiche. Proprio per le loro esigenze di profitto i Paesi occidentali non hanno esitato a sacrificare le loro proprie industrie nazionali. Le delocalizzazioni delle fabbriche e i ricatti del tipo «Niente imposte o me ne vado» li hanno spinti a limitare il loro tenore di vita e a scavare i primi squarci nello Stato assistenziale, nell’attesa del suo completo smantellamento.

Occorreva stupirsi per il comportamento dei nuovi signori? No. Le fattezze che il capitalismo inalberava non avevano nulla di nuovo. Molto tempo prima che il termine «mondializzazione» entrasse nel vocabolario dell’economia e della politica il suo contenuto era stato perfettamente tratteggiato dal presidente di una lontana nazione sudamericana, Salvador Allende (5), in occasione di un discorso pronunciato davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 4 dicembre 1972: «Noi assistiamo a un conflitto frontale fra le grandi multinazionali e gli Stati. Questi ultimi si trovano a essere interferiti nelle loro decisioni essenziali, politiche, militari, economiche, da organizzazioni mondiali che non dipendono da alcuno Stato e non rispondono dei loro atti né ad alcun Parlamento né ad alcuna istituzione garante dell’interesse collettivo. In una parola, è tutta la struttura politica del mondo che viene scalzata».

Già a quell’epoca il mercato si comportava come una dittatura e la politica, questa vecchia arte del possibile, prendeva le caratteristiche di un test di competenze, che serviva a valutare i migliori gestori del mercato. Tutto questo i politici spagnoli l’hanno scientemente ignorato. L’adagio «Disprezzo ciò che ignoro», tanto caratteristico del picaro, li ha fossilizzati in un assoluto immobilismo di fronte ai primi sintomi della crisi.

Non ve n’è uno che non si diletti affermando che il turismo è la prima (o la seconda, per i più placidi) industria del Paese, non uno che ricordi come la manna turistica è soggetta a contingenze esterne alla volontà di coloro che la ambiscono e come essa generi, oltre alla ricchezza dei padroni degli alberghi, un complesso d’inferiorità che rovina la società intera. Non è la medesima cosa abitare in un Paese di punta nell’innovazione tecnologica o un Paese di domestici, cuochi e addetti al ricevimento.

L’adesione della Spagna all’Unione Europea, a fianco della Grecia e del Portogallo, contrassegnò non soltanto la fine dell’autarchia iberica, ma anche l’inizio di un annaffiatura intensiva – i famosi Fondi di coesione e d’aiuto allo sviluppo – che drenò più denaro di quello che il Piano Marshall aveva raccolto per l’Europa del dopoguerra. Nel solo periodo 2007-2013 la Spagna ha ottenuto 3,25 miliardi di euro. Malgrado il dogma «La Spagna va bene», predicato durente gli otto anni di regno di José Maria Aznar, e malgrado il decreto del suo successore, José Luis Rodriguez Zapatero (6), secondo il quale il Paese godeva di un’economia più prospera di quella dell’Italia e di una finanza più efficiente di quella del resto del mondo, la Spagna non ha versato un solo centesimo per i dieci Paesi dell’Est che si sono uniti all’Unione nel 2004. Questa tirchieria sarebbe stata sufficiente a mettere la pulce nell’orecchio dei suoi vicini europei. Se non ne è stato il caso è perché i mercati avevano individuato nella Spagna come l’avevano fatto precedentemente con gli Stati Uniti – una gallina dalle uova d’oro più promettente dell’incerta modernizzazione del sistema produttivo: la speculazione immobiliare e la concessione illimitata di prestiti ipotecari.

Sono rari gli uomini politici e gli economisti spagnoli che hanno preso la misura del fatto che, nei cinque anni che hanno preceduto il fallimento della banca Lehman Brothers, le economie emergenti come la Cina, il Brasile e l’India, hanno registrato fenomenali picchi di crescita. Sono rari perché la corsa alla competitività impegnata dalle poche industrie spagnole ancora capaci di ricuperare quanto avevano messo nel gioco mondiale importava poco rispetto ai guadagni a breve termine promessi dalla bolla immobiliare.

Nella vita politica spagnola la corruzione fece la sua comparsa come essenza stessa del picaresco: io ti finanzio la tua campagna elettorale e tu mi accordi i permessi di costruzione sui terreni del tuo comune. Si misero a spuntare un po’ dovunque spaventapasseri urbani, come Seseña, la città fantasma del deserto di Toledo: tredicimilacinquecento appartamenti senza acqua né gas né infrastrutture, né tantomeno abitanti, eccetto qualche naufrago e turbini di sabbia. Le banche avevano fatto salire artificialmente il prezzo di questa verruca immobiliare prima di cederla a uno degli imprenditori più ricchi di Spagna, Francisco Hernando Contreras, detto «il Fognaiolo» - un personaggio molto picaresco, analfabeta diventato miliardario grazie all’evacuazione degli escrementi.

Città morte come Seseña se ne sono costruite ai quattro angoli del Paese. È vero che l’edilizia crea posti di lavoro. Con una di quelle stravaganti dichiarazioni, delle quali aveva il segreto, l’ex capo del governo Zapatero assicurò che fra il 2006 e il 2008 la Spagna aveva creato più posti di lavoro di Francia, Italia e Germania messe assieme – omettendo di precisare che i salariati spagnoli erano tre volte meno remunerati dei loro omologhi francesi, italiani o tedeschi. Il Paese stava meravigliosamente bene. Il marchio «Spagna» rendeva fieri i suoi proprietari.

Il modello produttivi sta applicato al settore immobiliare ha corrotto non soltanto la vita politica, ma anche quella culturale e sociale. Centinaia di migliaia di giovani rinunciarono di buon grado al loro diritto all’educazione, perché la gru e il mattone li aspettavano a braccia aperte. Perché affaticarsi a fare sei, sette o otto anni di studi per diventare ingegnere o medico, quando bastavano tre mesi di paga per ottenere un prestito ipotecario rimborsabile in trenta o quarant’anni, che vi garantisce casa, auto, televisore ad alta definizione e cellulare ultimo grido? Mai un Paese ha conosciuto una diserzione tanto massiccia e tanto rapida dalle sue università. Mai con altrettanta allegria un Paese ha sacrificato il suo avvenire alla promessa del «già che ci siete, mettetemene due».

La febbre immobiliare e l’afferente corruzione si concretizzarono in aeroporti grandiosi dove mai un aereo è atterrato, in linee ferroviarie ad alta velocità senza passeggeri, in circuiti di corse automobilistiche dove fornicano le lepri, in case della cultura faraoniche che servono ai piccioni come voliere. In mezzo a tutto questo, le banche presentavano i bilanci contabili più trionfalistici della storia. Il gatto acchiappava i topi.

La profezia del mago Solchaga aveva preso forma, la Spagna era proprio il miglior Paese al mondo nel quale guadagnare milioni dall’oggi al domani, grazie a una risorsa naturale inesauribile il cui valore non smetteva di crescere: il suolo. Sembra che la cultura imprenditoriale di un Paese si misuri dalla diversificazione della sua produzione. L’immobiliare ha smentito questo assioma, perché le piccole e medie imprese si consacravano quasi interamente a far girare le betoniere.

La prova migliore, forse, dell’infermità intellettuale dei dirigenti spagnoli sta nella loro incapacità di comprendere che il resoconto di una società deve seguire le regole della drammaturgia aristotelica, vale a dire una progressione in tre tempi: dapprima il prologo, poi il parodo o episodio [ndt.: l’azione], e infine l’esodo. L’incapacità di capire con ciò che il futuro non è la ripetizione del presente. O, in termini economici, che i cicli hanno necessariamente una fine. Fin dall’inizio del boom immobiliare, i dirigenti economici e sindacali sapevano di essere seduti su un barile di polvere. Ma, nonostante i timidi avvertimenti della Sinistra Unita (7), nessuno ha voluto fare il primo passo. Il gatto doveva continuare ad acchiappare topi, perfino se questi non erano che miraggi.

Se il popolo deve cambiare i dirigenti quando valgono nulla, talvolta i dirigenti vorrebbero cambiare di popolo quando questo non conviene più loro. Questa osservazione di Bertolt Brecht inquadra abbastanza bene lo stato d’animo del PSOE dopo la sua cocente disfatta elettorale dell’anno scorso. Durante i loro ultimi mesi al potere i socialisti avevano fatto fronte alla crisi – della quale avevano dapprima negato l’esistenza, perché l’ideologia del mercato certificava il carattere invulnerabile dell’economia spagnola –, seppellendo per davvero qualsiasi velleità di governare a destra. Si giudicò non necessario spiegare ai cittadini perché le banche non facevano più prestiti, perché le piccole e medie imprese facevano fallimento le une dopo le altre, perché la disoccupazione si gonfiava giorno dopo giorno. I rari sforzi consentiti dal governo Zapatero per salvare il salvabile si urtavano contro i tiri di sbarramento della destra, impegolata in una delle opposizioni più irresponsabili che si siano mai viste in un Paese democratico. Da una parte e dall’altra si era nondimeno d’accordo su un punto: l’ansietà che sommergeva il popolo non valeva nulla di fronte all’imperiosa necessità di «rassicurare i mercati», detto altrimenti, di gratificare le banche con un’indigestione di fondi pubblici.

Una tragicommedia, ecco in che cosa si riassumono gli ultimi mesi del mandato socialista. Mentre il governo riduceva i salari e abbeverava le banche, oppositori come Cristóbal Montoro, l’attaule ministro delle Finanze e dell’amministrazione pubblica, si dava arie in pubblico: lasciamo andare a fondo il Paese, saremo noi che lo risolleveremo. Nel rango dei salvatori Luis de Guindos : presidente esecutivo di Lehman Brothers per la Spagna e il Portogallo dal 2006 al 2008, occultò alle autorità iberiche le informazioni di prima mano che avave sui conti truccati della banca e sui segni annunciatori del suo crollo. Ne fu ricompensato tre anni più tardi con il posto di ministro dell’Economia e della competitività nel governo di Mariano Rajoy.

Così, mentre il governo socialista strangolava le spese sociali col pretesto degli «adeguamenti necessari» e degli «obblighi imposti da Bruxelles», il numero dei disoccupati passava da due milioni a tre, poi a quattro, poi oggi a cinque. Con discrezione, a tradimento, si cambiò la Costituzione per imporre una regola d’oro di bilancio, che avrebbe finito per trasformare la crisi economica in crisi sociale: una propagazione accelerata della povertà, su un suolo che non ispira più per niente i promotori immobiliari.

Alle elezioni l’assenza di un’informazione suscettibile di chiarire la piega degli avvenimenti lasciò in sospeso una sola domanda: vogliamo essere cittadini o consumatori? Una parte importante della società optò per il secondo termine dell’alternativa, accordando alla destra una maggioranza schiacciante.

Il gatto poteva continuare ad acchiappare i topi. Tanto più che un nuovo festino si offriva alla sua voracità: il discount del debito pubblico. I fondi riversati sulle banche non servirono, in effetti, a irrigare le imprese per salvarle dal fallimento né a rendere più flessibili i crediti ipotecari con la prospettiva di evitare l’espulsione dei piccoli proprietari incapaci di rimborsarli, bensì ad acquistare titoli del debito pubblico a un tasso d’interesse dal 3% al 5%: una speculazione sovvenzionata dallo Stato. Insomma, la crisi finanziaria ha lasciato indenne la finanza. Essa forse si rimpinza meno di prima, ma non muore di fame, non è stupida, tutt’altro!

In virtù delle regole dell’Unione Europea spetta agli Stati garantire la serietà, la robustezza e la perennità dei loro sistemi finanziari. Questa perversione permette agli speculatori di guadagnare ogni volta: o gli affari marciano ed essi monopolizzano i profitti o gli affari non marciano più ed è il contribuente che tira loro le castagne dal fuoco.

Gli introiti fiscali si esaurirono qualche mese prima della partenza del governo Zapatero. Poiché il gatto aveva fame, la Banca Centrale Europea sbloccò i prestiti a un tasso di solo l’1%, senza preoccuparsi della salute delle banche alle quali erano destinati i prestiti. Il gatto poteva ingrassare ancora di più: con il denaro a buon mercato della BCE le banche arraffarono titoli del debito pubblico al sontuoso tasso del 5%, poi del 6%, e poi ancora del 7%. Solchaga non aveva mentito: la Spagna restava di gran lunga il miglior posto al mondo per guadagnare il massimo di soldi in un minimo di tempo.

Nel paradiso degli eufemismi il disgusto di fronte alla corruzione si chiama «disaffezione verso la politica». Mentre il Paese affondava nella palude della disoccupazione i dirigenti delle banche e delle casse di risparmio preparavano la loro pensione concedendosi bonus mirabolanti, sotto l’occhio placido della malfamata «classe politica». Una classe sociale si riconosce dalla cura che dedica a difendere i propri interessi; ora, la classe politica spagnola serve innanzitutto gli interessi dei mercati. È vero che le frontiere fra i due mondi sono talvolta porose. L’ex capo del governo José Maria Aznar, diventato consulente di lusso, si divide ormai fra News Corp., l’impero di Rupert Murdoch, e Endesa, la multinazionale spagnola dell’elettricità. Il suo predecessore, Felipe Gonzales, si è riciclato come consulente del gruppo Gas Natural Fenosa. Menzione speciale per l’ex ministro socialista Elena Salgado, promossa consulente di Chilectra, la filiale cilena di Endesa, la stessa che devasta l’ambiente in Patagonia. Il gatto non si stanca di acchiappare i topi.

In Spagna temiamo tutti il sorgere del sole, perché ogni giorno porta con sé la sua razione di cattive notizie. Cominciando da questa, che ritorna sempre: il governo gestisce il Paese come un amministratore di condominio. Con le sue manchette di velluto nero che mettono in risalto l’immacolato candore delle sue camicie, Mariano Rajoy sembra essere scappato da uno studio notarile del XIX secolo. Ma in quanto uomo del suo tempo l’emissario dei mercati si dedica ad accrescere la precarietà dei cittadini, visti come consumatori caduti in disgrazia. Ogni mattina siamo risvegliati da un nuovo colpo di artigli: sempre il gatto che acchiappa i topi, perfino quando hanno forma umana. Tagli nell’istruzione, riduzione delle spese per la sanità, licenziamenti battezzati «adeguamenti», silenzio di piombo di fronte agli scandali per corruzione, furti e truffe in serie…

Sintomatico della cleptomania imperante, l’affaire Bankia, ovvero come l’istituto bancario reputato come il più solido del Paese minaccia adesso di far rotolare giù tutto il sistema finanziario. Nata nel 2010 dalla fusione di sette casse di risparmio regionali, Bankia aveva lanciato un chiaro messaggio: l’ardente obbligo di essere «competitivo» imponeva di eliminare le ultime vestigia della funzione sociale attribuita una volta alle casse di risparmio. I primi risultati si annunciano promettenti, soprattutto per i detentori di azioni. Ma, bruscamente, la bolla si sgonfia. Benché uno spesso mistero circondi fino a oggi le cause della foratura, lo Stato si affretta a iniettare 23,5 miliardi di euro nelle casse bucate di Bankia. Più del budget nazionale destinato alle infrastrutture.

Tutti hanno nella memoria l’immagine del banchiere rovinato che si getta nel vuoto ai tempoi del crac del 1929. nella Spagna d’oggi i responsabili di catastrofi finanziarie conoscono un destino più clemente. Il boss di Bankia, Rodrigo Rato, ex ministro dell’Economia nel governo Aznar ed ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale non è saltato dalla finestra. Che razza d’idea, quando si incassano più di 2 milioni di euro di salario annuale!

Quindi così il racconto della crisi spagnola comincia e si conclude con un’apologia della corruzione, una perorazione socialista per l’attrattiva del guadagno e un gatto di colore indefinito, grande mangiatore di topi.

Karl Marx diceva che il capitalismo conteneva i germi della propria distruzione. Il filosofo dalla barba bianca pensava all’Inghilterra, ma se avesse preso il sole oggi su una spiaggia di Marbella, con il gatto di Felipe Gonzales che gli mordicchiava gli alluci, direbbe piuttosto a sé stesso che il capitalismo, in quanto sistema di sfruttamento che crea plusvalore, ben lungi dall’autodistruggersi, si è rigenerato prendendo in prestito dal mercato il suo volto invisibile, il suo corpo inafferrabile, la sua prodigiosa voracità. E forse Marx prenderebbe il suo iPhone per chiamare Friedrich Engels e dirgli: «Uno spettro ossessiona il mondo. È lo spettro del mondo nel quale vogliamo vivere, lo spettro di una società possibile della quale vogliamo fare parte».

Ma aspettando che lo spettro si metta in moto, il gatto maledetto non ha finito di acchiappare i topi.




Martedì 04 Settembre,2012 Ore: 18:27
 
 
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