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www.ildialogo.org Opporre lotta di classe e rivendicazione della diversità?,Di Nancy Fraser

Le Monde Diplomatique, giugno 2012
Opporre lotta di classe e rivendicazione della diversità?

Uguaglianze, identità e giustizia sociale


Di Nancy Fraser

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Disuguaglianza economica e disuguaglianza culturale: come far sì che interagiscano? Le Monde Diplomatique, giugno 2012, Nancy Fraser. (JFPadova)

Di Nancy Fraser, titolare della cattedra Rethinking Social Justice presso il Collège d’études mondiales della Fondazione Maison des sciences de l’homme.

(traduzione dal francese di José F. Padova)

Le lotte per ridurre le ineguaglianze si sono per lungo tempo concentrate sulla ripartizione equa delle ricchezze. Da qualche decennio un nuovo tipo di domanda muove l’esigenza di redistribuzione verso il rispetto delle diversità, delle identità minoritarie e alla lotta contro le discriminazioni. Si può pensare il rapporto fra queste due concezioni, in modo che esse si rafforzino reciprocamente?

Il «riconoscimento» si è imposto come un concetto-chiave della nostra epoca, nell’ora in cui il capitalismo accelera i contatti transculturali, rompe gli schemi interpretativi e politicizza le identità. I gruppi mobilitati sotto il vessillo della nazione, dell’etnia, della «razza», del genere, della sessualità lottano per «fare riconoscere una diversità». In queste lotte l’identità sostituisce gli interessi di classe come luogo della mobilitazione politica – si chiede più spesso di essere «riconosciuto» come Nero, omosessuale, lombardo [ndt.: corrézien nel testo = cittadino della Corrèze, altipiano della Francia sud-occidentale] o ortodosso come sinonimo di fondamentale ingiustizia.

Questa mutazione costituisce una diversione che condurrebbe a una forma di balcanizzazione della società e al rigetto delle norme morali universaliste (1)? Oppure offre la prospettiva di una correzione della griglia di lettura materialista, ritenuta ormai screditata dalla caduta del comunismo di tipo sovietico e che, cieca di fronte alle diversità, rafforzerebbe l’ingiustizia universalizzando falsamente le norme del gruppo dominante (2)?

Si confrontano qui due concezioni globali dell’ingiustizia. La prima, l’ingiustizia sociale, risulta dalla struttura economica della società e prende la forma dello sfruttamento o dell’indigenza. La seconda, di natura culturale o simbolica, deriva dai modelli sociali di rappresentazione i quali, quando impongono i loro codici d’interpretazione e i loro valori e cercano di escludere gli altri, causano il dominio culturale, il non-riconoscimento o il disprezzo.

Questa distinzione fra ingiustizia culturale e ingiustizia economica non deve cancellare il fatto che, nella pratica, le due forme abitualmente s’incastrano, in modo da rafforzarsi dialetticamente. La subordinazione economica impedisce in effetti qualsiasi partecipazione alla produzione culturale, le cui stesse norme sono istituzionalizzate dallo Stato e dal mondo economico.

Correggere o trasformare?

Porre rimedio all’ingiustizia economica passa attraverso cambiamenti di struttura: distribuzione dei redditi, riorganizzazione della divisione del lavoro, sottomissione delle decisioni sugli investimenti a un controllo democratico, fondamentale trasformazione del funzionamento dell’economia… questo complesso, in tutto o in parte, dipende dalla «redistribuzione». Il rimedio per l’ingiustizia culturale, da parte sua, si trova nel cambiamento culturale o simbolico: rivalutazione delle identità disprezzate, riconoscimento e valorizzazione della diversità culturale o, su un livello più globale, rovesciamento generale dei modelli sociali di rappresentazione, che modificherebbe la percezione che ognuno ha di sé stesso. Questo complesso dipende dal «riconoscimento».

Questi due concetti divergono nella rappresentazione che hanno dei gruppi vittime dell’ingiustizia. Nella cornice della redistribuzione si tratterà di classi sociali in senso ampio, definite anzitutto in termini economici, secondo il loro rapporto col mercato o con i mezzi di produzione. L’esempio classico ne è l’idea marxista della classe operaia sfruttata, che include ugualmente i gruppi d’immigranti, le minoranze etniche, ecc. Nel quadro del riconoscimento, l’ingiustizia non è più legata ai rapporti con la produzione, ma a una mancanza di considerazione. Si cita in generale il gruppo etnico, che i modelli dominanti proscrivono come diversi e di minor valore: ciò che viene applicato agli omosessuali, alle «razze», alle donne…

Le rivendicazioni legate alla redistribuzione esigono sovente l’abolizione dei dispositivi economici che costituiscono il basamento della specificità dei gruppi e tendono a promuovere l’indifferenziazione fra essi. Al contrario, le differenziazioni legate al riconoscimento, che si basano sulle presunte diversità dei gruppi, tendono a promuovere la differenziazione (quando non la creano addirittura in modo performativo, prima di affermarne il valore). Politica di riconoscimento e politica di redistribuzione sembrano essere… in tensione.

Come pensare la giustizia, in queste condizioni? Si deve dare priorità alla classe sul genere, la sessualità, la razza, l’etnicità, e respingere tutte le rivendicazioni «minoritarie»? Insistere sull’assimilazione alle norme maggioritarie, in nome dell’universalismo o del repubblicanesimo? Oppure occorre cercare di unire ciò che resta di insuperabile nella visione socialista e ciò che sembra giustificato nella filosofia «post-socialista» del multiculturalismo?

Vi sono due modi di rimediare all’ingiustizia. I rimedi correttivi, anzitutto, mirano a migliorare i risultati dell’organizzazione sociale senza modificarne le cause profonde. I rimedi trasformatori, da parte loro, si applicano alle cause profonde: l’opposizione si situa fra sintomi e cause.

Sul piano sociale, i rimedi correttivi, storicamente associati allo Stato assistenziale liberale, sono applicati ad attenuare le conseguenze di una distribuzione ingiusta, lasciando intatta l’organizzazione del sistema produttivo. Nel corso degli ultimi due secoli, i rimedi trasformatori sono stati collegati al progetto del socialismo: il cambiamento radicale della struttura economica che sottende l’ingiustizia sociale, riorganizzando i rapporti nella produzione, modifica non soltanto la ripartizione del potere d’acquisto, ma ugualmente la divisione sociale del lavoro e delle condizioni di esistenza.

L’esempio dell’ affirmative action (spesso tradotto con «discriminazione positiva») negli Stati Uniti chiarisce questa distinzione. Gli aiuti attribuiti in funzione delle risorse, orientando verso i più poveri un sostegno materiale, contribuiscono ugualmente a cementare differenziazioni che possono portare al conflitto. Così, la redistribuzione correttiva sul piano sociale si utilizza per garantire alle persone di colore una parte equa negli impieghi e nella formazione, senza modificarne la natura o il numero. Sul piano culturale, il riconoscimento correttivo si traduce in un nazionalismo culturale, che si sforza di garantire il rispetto per le persone di colore valorizzando la «negritudine», pur mantenendo inalterato il codice binario bianco-nero che ne dà il senso. L’ affirmative action combina quindi la politica socio-economica dell’antirazzismo progressista con la politica culturale del black power.

Questa soluzione non affronta le strutture profonde che producono disuguaglianze di classe e ineguaglianze «razziali». Così le ristrutturazioni superficiali si moltiplicano all’infinito, contribuendo a rendere ancor più percettibile la differenziazione «razziale», a dare dei più svantaggiati l’immagine di una classe di deficienti e di insaziabili, che sempre hanno bisogno di aiuto, e perfino talvolta quella di un gruppo privilegiato, che riceve un trattamento… di favore. In questo modo un approccio mirante a correggere le ingiustizie legate alla redistribuzione può suscitare uno choc di ritorno e alla fine creare ingiustizie in termini di riconoscimento.

Combinando sistemi sociali universali e imposizione [fiscale] strettamente progressiva, i rimedi trasformatori, per contro, tendono ad assicurare a tutti l’accesso al posto di lavoro, cercando di dissociare questo posto di lavoro dalle esigenze del riconoscimento. Da qui la possibilità di ridurre l’ineguaglianza sociale senza creare categorie di persone vulnerabili, presentate come profittatori della carità pubblica. Un approccio di questo genere, centrato sul problema della distribuzione, contribuisce quindi a porre rimedio ad alcune ingiustizie di riconoscimento.

Redistribuzione correttiva e redistribuzione trasformatrice presuppongono entrambe una concezione universalista del riconoscimento, vale a dire l’uguale valore morale delle persone. Ma esse si basano su logiche differenti in rapporto alla differenziazione dei gruppi.

I rimedi correttivi dell’ingiustizia culturale derivano da ciò che comunemente si chiama il multiculturalismo: si tratta di porre fine al non-rispetto delle identità collettive ingiustamente svilite, lasciando però intatti al tempo stesso il contenuto di queste identità e il sistema di differenziazione identitario sul quale si basano. Quanto ai rimedi trasformatori, essi sono abitualmente associati alla destrutturazione. Essi cercano di porre fine al non-rispetto trasformando la struttura di valutazione culturale soggiacente. Destabilizzando le identità e la differenziazione esistenti questi rimedi non si accontentano di favorire il rispetto di sé, ma cambiano le percezioni che noi ci facciamo di noi stessi.

L’esempio delle sessualità disprezzate chiarisce questa distinzione. I rimedi correttivi dell’omofobia sono abitualmente collegati al movimento gay, che punta a rivalorizzare l’identità omosessuale. I rimedi trasformatori al contrario si apparentano al movimento queer [http://it.wikipedia.org/wiki/Queer], che intende destrutturare la dicotomia omosessuale-eterosessuale. Il movimento gay considera l’omosessualità come una cultura, dotata di tratti particolari, un poco alla maniera dell’etnicità. È un «modello identitario», adottato in numerose lotte per il [proprio] riconoscimento. Esso intende sostituire a immagini di sé negative, imposte dalla cultura dominante e interiorizzate, una cultura propria la quale, manifestata pubblicamente, otterrà il rispetto da parte della società nel suo insieme.

Questo modello implica autentici apporti ma, sovrapponendo politica di riconoscimento e politica d’identità, incoraggia la naturalizzazione dell’identità di un gruppo, se pur non la sua essenzializzazione, tramite un’affermazione della sua «autenticità» e della sua diversità.

Il movimento queer, al contrario, abborda l’omosessualità come il correlato costruito e svalorizzato dell’eterosessualità: entrambe non hanno senso se non l’una in rapporto all’altra. L’obiettivo non è più quello di valorizzare un’identità omosessuale, ma di abolire questa dicotomia. Il movimento gay cerca di valorizzare la differenziazione esistente fra i gruppi sessuali – proprio come fanno le politiche correttive di redistribuzione dello Stato assistenziale per le differenziazioni sociali; il movimento queer cerca di rimetterle in discussione – sull’esempio del progetto socialista.

Trattando la mancanza di riconoscimento come un pregiudizio generato unicamente dai valori ideologici e culturali, i difensori del modello identitario arrivano perfino a misconoscere il suo fondamento nella struttura sociale e a ignorare l’ingiustizia economica, per concentrare i loro sforzi sulla sola trasformazione della cultura, considerata come una realtà a sé. In questo modo possono essere trascurati i legami, istituzionalizzati nei sistemi di assistenza sociale, fra le norme eterosessuali dominanti e il fatto che certe risorse siano rifiutate alle persone omosessuali. Ma questa corrente di pensiero può ugualmente non vedere le ineguaglianze economiche che derivano dall’oppressione di classe come semplici espressioni di gerarchie culturali, in quella logica del deprezzamento dell’identità proletaria. Come immagine rovesciata di un marxismo volgare che un tempo metteva al bando la politica del riconoscimento a favore della politica di redistribuzione, il culturalismo volgare implica il fatto che rivalutare identità svilite equivarrebbe attaccare le origini stesse dell’ineguaglianza economica…

Il rischio della psicologizzazione

Al modello identitario (correttivo) si oppone ciò che si definirà il modello statutario (trasformatore): il diniego di riconoscimento non è più considerato allora come una deformazione psichica, o un pregiudizio culturale autonomo, ma come una relazione istituzionalizzata di subordinazione sociale, prodotta da istituzioni sociali. Ciò che deve essere l’oggetto di un riconoscimento non è quindi l’identità peculiare a un gruppo, ma lo status, per i membri di quel gruppo, di partner a pieno titolo nell’interazione sociale. Questa politica propone di disassemblare le due forme connesse di strutturazione di una società, l’economica e la culturale, e di decifrare ciò che esse portano come ostacolo a questa uguaglianza. Non è allora qui il caso di postulare il diritto per tutti a una «eguale stima sociale» (3), ma, rivendicando la parità di partecipazione all’interazione in seno alla società per tutti, di definire il campo della giustizia come entità implicando a un tempo redistribuzione e riconoscimento, classe e status. Evitando la psicologizzazione e la moralizzazione, sta forse qui il quadro di pensiero per una strategia coerente, che contribuirebbe a sminare conflitti e contraddizioni fra questi due grandi tipi di lotte.

(1) Cf Richard Rorty, Achieving Our Country Leftist Thought in liventieth-Century America, Harvat University Press, Cambridge, 1998; Todd Gitlin, The Twilight of Common Dreams : Why America Is Wrecks by Culture Wars, Metropolitan Books, New York, 199

(2) Cf Charles Taylor, «The politics of recognition) dans Amy Gutman (sous la dir. de), Multiculturalism Examining the Politics of Recognition, Princeto University Press, 1994.

(3) Axel Honneth, La Lutte pour la reconnaissance Le Cerf, Paris, 2000.



Lunedì 09 Luglio,2012 Ore: 15:42
 
 
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