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Le Monde Diplomatique, dicembre 2011, pagg. 16-17
Produrre unità nella diversità
Da Roma a Costantinopoli, pensare l’impero per comprendere il mondo

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Riuscirà la moneta unica euro a costruire gli Stati Uniti d'Europa? Ormai siamo arrivati a chiedercelo, vista l'ampiezza di vedute, storiche in particolare, di coloro che dovrebbero rappresentare i nostri interessi di cittadini europei, se mai lo saremo. A proposito di cultura storica: è un po' lungo, ma l'articolo allegato dà un'interpretazione della storia dell'umanità che potrebbe insegnare e ispirare. 
J.F.Padova

Per chi volesse approfondire: Mantran e altri, Storia dell'Impero ottomano, Argo, EAN 9788882340193
Georg Ostrogorsky, Storia dell'Impero bizantino, Einaudi. ISBN 86-06-17362-6

Le Monde Diplomatique, dicembre 2011, pagg. 16-17

Produrre unità nella diversità
Da Roma a Costantinopoli, pensare l’impero per comprendere il mondo

Nel tempo in cui gli Stati-nazione si piegano sotto le forze dei mercati e traballa la configurazione geopolitica ereditata dal dopoguerra, i dirigenti sognano la stabilità. Ora, le forme di governo messe in funzione dagli imperi affascinano per la loro resistenza ai sussulti della storia, per la loro plasticità, la loro capacità di unire popolazioni differenti. Che cosa ci possono insegnare?
Jane Burbank e Frederick Cooper, docenti di Storia presso l’Università di New York, autori di Empires. De la Chine ancienne à nos jours (Imperi. Dall’antica Cina ai giorni nostri), Payot, Paris, 2011
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Perché interessarsi alla nozione d’impero? Non viviamo forse in un mondo di Stati-nazione – quelli, per esempio, che siedono all’ONU, con le loro bandiere, i loro francobolli e le loro istituzioni?

Salvo che, paragonati alla longevità dell’Impero ottomano (seicento anni) e anche senza ricordare la successione delle dinastie cinesi durate millenni, l’«era dello Stato-nazione» potrebbe fare figura di passeggera anomalia nella storia dell’umanità. E questo a maggior ragione, poiché numerosi conflitti recenti – in Ruanda, in Iraq, in Afghanistan, nella ex Jugoslavia, in Sri Lanka, nel Caucaso, in Israele, ecc. – si spiegano con le difficoltà nel trovare nuovi sistemi di organizzazione per sostituire gli imperi, nel 1918, nel 1945 o dopo il 1989.

Nessuno suggerisce di sprofondare nella nostalgia imperiale: i modi perduti del Raj britannico o dell’Indocina francese non rischiarano le nostre riflessioni politiche moderne. Non più di quanto il ricorso sistematico alle definizioni «impero» o «colonialismo» - scorciatoie spesso insufficienti destinate a screditare il tale intervento americano, francese o di altri – contribuisca all’analisi della geopolitica contemporanea. Tuttavia, lo studio degli imperi, antichi o recenti, permette di portare alla luce le radici del mondo contemporaneo e di approfondire la nostra comprensione dei modi organizzativi del potere politico, ieri, oggi e, perché no, domani.

Il concetto di Stato-nazione si basa su una finzione, quella dell’omogeneità: un popolo, un territorio, un governo. Gli imperi, invece, nascono dall’estensione del potere attraverso lo spazio e poggiano sulla diversità: governano in modi diversi popoli diversi e subiscono una doppia tensione. Da una parte, la volontà dei dirigenti politici di estendere il loro controllo territoriale in un contesto, nel quale i popoli vivono realtà socioculturali svariate, alimenta l’espansionismo. Dall’altra, il fatto che l’impero assorba popoli diversi porta alcune delle sue componenti ad auspicare di staccarsene. Questa situazione spiega perché gli imperi perdurano, si incrinano, si riconfigurano e crollano.

«I re della savana»
Il repertorio dei metodi che permettono di governare a distanza gruppi umani diversi fra loro si rivela particolarmente ricco. Alcuni imperi hanno sviluppato strategie prese a prestito dai loro predecessori o dai loro rivali. Gli Ottomani sono arrivati a mescolare le tradizioni turche, bizantine, arabe, mongole e persiane. Per amministrare il loro impero multiconfessionale si appoggiavano sulle élite di ogni comunità religiosa, senza tentare di assimilarle o distruggerle. Sul filo dei secolo, l’Impero britannico si è dotato di strumenti di governo tanto diversi quanto lo erano i territori sui quali era condotto a regnare: dominions, colonie, ecc. Un corpo specifico governava l’India, un protettorato travestito presiedeva ai destini dell’Egitto e l’«imperialismo del libero scambio» si estendeva a numerose zone d’influenza. Un impero che disponeva di un’attrezzatura così ben fornita poteva cambiare tempestivamente tattica senza per questo vedersi costretto ad assimilare o ad amministrare tutti i suoi territori mediante i medesimi meccanismi.

Si osservano numerosi schemi-base, ricorrenti benché eterogenei, nelle modalità di governo di popoli diversi l’uno dall’altro. In alcuni imperi, la «politica della diversità» consisteva nel riconoscere una molteplicità di popoli, quindi dei loro costumi e tradizioni. Altri tracciavano una frontiera ben definita fra gli autoctoni e gli elementi arrivati dall’esterno, considerati come «barbari». I dirigenti degli imperi mongoli, nel XIII e XIV secolo, consideravano le diversità come al tempo stesso normali e benefiche. Essi tutelarono la diffusione del buddismo, del confucianesimo, del taoismo e dell’islam, come pure delle arti e delle scienze prodotte dalle civilizzazioni araba, persiana e cinese. Roma, al contrario, aspirava a un’omogeneità fondata sulla sua cultura, certamente sincretica, ma tuttavia identificabile, sull’attrattiva che poteva esercitare l’acquisizione della cittadinanza romana e, più tardi, su un cristianesimo diventato religione di Stato.

Gli imperi si sono evoluti attorno a queste due tendenze, talvolta combinandole (come nei casi ottomano e russo). In Africa le potenze europee del XIX e XX secolo furono incerte fra un approccio di assimilazione, motivato dalla certezza della superiorità della civiltà occidentale, e forme di governo indirette, fondate sulle élite delle comunità oggetto di conquista.

La «missione civilizzatrice», della quale gli Stati europei si ritenevano investiti, entrava talvolta in contraddizione con le teorie razziali comunemente ammesse al’epoca. Qualsiasi fosse l’immagine che essi si facevano degli «altri» e delle loro culture, i conquistatori non hanno mai potuto amministrare i loro imperi da soli. Essi hanno sempre utilizzato le conoscenze, le competenze e le autorità delle società delle quali prendevano il controllo, appoggiandosi su intermediari: membri dell’élite locale suscettibili di approfittare di una forma di cooperazione, persone precedentemente marginalizzate che trovavano vantaggi nel servire il potere vittorioso. Ogni volta si trattava di sfruttare la loro rete di rapporti sociali per garantire una collaborazione efficace.

Un’altra strategia procedeva al contrario: piazzava in posizioni autoritarie schiavi o persone staccate dalle loro comunità d’origine e dipendenti totalmente dai loro padroni imperiali per benessere e sopravvivenza. Il metodo dimostrò la sua efficacia sotto il califfato degli Abassidi, poi presso gli ottomani: gli amministratori di più alto livelli venivano così tolti alle loro famiglie in età molto giovane e innalzati a collaboratori del sultano [ndt.: si tratta del devşirme = raccolta, reclutamento di ragazzi per il servizio imperiale. Così, dei ventisei Gran Visir dei quali è nota l'origine, undici erano armeni, sei greci mentre altri erano circassi, georgiani, serbi o anche italiani e solo cinque turchi. Alcuni lasciarono un segno indelebile nella storia dell'impero: Mehmed Paşa Sokolovič (gran visir di tre sultani e di origine serba), Mehmet Alì (di origine albanese) o Ibrahim Pascià (greco di Kavala)].

La teoria vuole che gli imperi europei abbiano abbandonato questi metodi di delega personale del potere a favore di strutture burocratiche. In realtà, nel bel mezzo delle vaste distese africane, gli amministratori consideravano spesso loro stessi come «re della savana». I funzionari sollecitavano la collaborazione di capi, di guardie o ancora di traduttori, che cercavano di trarre vantaggio dalla loro posizione.

Ma in tutti i tempi gli intermediari si sono rivelati altrettanto pericolosi che necessari. Élite indigene o funzionari di rango inferiore, tutti, in un momento o in un altro, avrebbero desiderato di impadronirsi del potere.

Mettere a questo modo in luce il ruolo degli intermediari porta a sottolineare i rapporti verticali in seno alla struttura del potere – fra dirigenti, agenti e sottoposti –, un genere di relazione il cui studio è attualmente spesso trascurato a favore di un approccio più orizzontale, basato sulle affinità etniche o di classe.

Non infinita né rigida, l’immaginazione politica dei costruttori di imperi e di élite locali fu un altro degli elementi essenziali della loro messa in pratica e riuscita. Per esempio, l’imperatore romano Costantino e, più tardi, il profeta Maometto hanno, ognuno a propria volta, adottato il monoteismo, che ha fornito loro il potente modello di «un impero, un dio, un imperatore». Una scelta che tuttavia conduce allo scisma quando emerge l’argomento secondo il quale l’imperatore non sarebbe il guardiano legittimo della vera fede.

Gli imperi hanno tentato di porsi come garanti della giustizia e della morale; una pretesa che talvolta si è ritorta loro contro: si pensi a Bartolomeo de Las Casas che difende le popolazioni indie d’America nel XVI secolo (1), ai movimenti per la liberazione degli schiavi nell’impero britannico del XIX secolo o ai popoli d’Asia e d’Africa che contestano la «missione civilizzatrice» della Francia per suggerire che la democrazia non doveva per forza essere l’appannaggio di un solo continente.

Il concetto di «traiettoria» applicato agli imperi permette di analizzarne le trasformazioni e le interazioni diversamente che attraverso l’abituale prisma tautologico: quello di una Storia considerata come una successione di epoche distinte fra loro. Ciò che talvolta è chiamato l’«espansione europea», a partire dal XV secolo, non fu il prodotto di un istinto inerente ai popoli del Continente, ma piuttosto la conseguenza di una particolare congiuntura.

L’Impero ottomano, più grande, più potente e più integrato delle frammentate unità politiche dell’Europa occidentale, costituiva un ostacolo di fondamentale importanza al commercio con la Cina e l’Asia sudorientale, le cui immense ricchezze attizzavano tutte le cupidigie. I re di Spagna e di Portogallo come anche, più tardi, i sovrani di Gran Bretagna e delle Province Unite(gli attuali Paesi Bassi) non desistettero mai dal cercare i mezzi per aggirare i territori sotto la dominazione ottomana e per fare cessare la loro dipendenza nei confronti dei magnati nel loro proprio Paese. Una delle conseguenze inaspettate di questo fenomeno è stata quella di mettere in contatto i popoli delle due sponde dell’Atlantico, quando Cristoforo Colombo, navigando verso ovest per raggiungere l’Asia, scoprì per caso quella che sarebbe diventata l’America.

Stati-nazione ed epurazioni etniche
Altri avvenimenti critici nella storia del mondo appaiono sotto una luce diversa quando li si studi sotto l’aspetto dei rapporti che gli imperi mantenevano fra loro. È il caso delle rivoluzioni europee e americane del XVIII e XIX secolo. Le rivoluzioni nella colonia francese di Santo Domingo (attualmente Haiti), in America del Nord (sotto il dominio britannico) e in America del Sud (sotto quello spagnolo)sono state anzitutto conflitti all’interno di un impero, prima di mutarsi in tentativi di uscire dall’impero.

Se adesso si considera il fluttuante destino dei regimi che segnarono il XIX secolo e la prima metà del XX, si scopre un mondo sconvolto da nuovi disegni imperiali – quelli della Germania, del Giappone e dell’Unione Sovietica – e dalla mobilitazione delle risorse e dei popoli di altre potenze imperiali per opporsi a queste ambizioni. Verso la metà del XX secolo la transizione da Impero a Stati-nazione non ebbe nulla di evidente. Le popolazioni, mescolate, del sud dell’Europa, che avevano conosciuto una molteplicità di regimi, compresi la legge ottomana e il regno degli Asburgo, hanno subito diverse ondate di epurazioni etniche, tutte effettuate col pretesto di dare a ogni nazione il suo Stato. In particolare questo fu il caso dei Balcani durante la guerra del 1870, nel 1912-1913 e dopo la Prima guerra mondiale, nel corso dello smantellamento degli imperi vinti. Poi, di nuovo dopo la Seconda guerra mondiale, quando tedeschi, ucraini o polacchi furono espulsi da alcuni territori. Ciò malgrado lo Stato non riusciva a identificarsi con il profilo della nazione e, negli anni 1990, la regione dei Balcani è diventata nuovamente teatro di «pulizie etniche». Il genocidio ruandese, nel 1994, deve essere ugualmente letto come il risultato di un tentativo post-imperiale di dare origine a un popolo unificato, che si sarebbe governato da sé. Il Vicino Oriente non si è ancora ristabilito dallo smantellamento dell’Impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale: nazionalismi opposti fra loro si disputano i medesimi territori in Israele e in Palestina.

Le traiettorie specifiche a ogni impero hanno dato forma alla maggior parte delle grandi potenze attuali. La Cina, a esempio, la cui eclisse nei secoli XIX e XX a favore dell’ascesa di altre potenze non sarà forse stato altro se non un interregno, più breve degli altri nella storia due volte millenaria delle sue dinastie imperiali. Durante la Repubblica (1911-1937) e il periodo comunista, i poteri esistenti non hanno rimesso in discussione le frontiere stabilite dagli Yuan nel XIII secolo, poi dai Qing fra il XVII e il XX secolo. Gli attuali dirigenti cinesi si riferiscono volentieri alle antiche dinastie e alle loro tradizioni imperiali.

La Cina recentemente ha invertito i ruoli che definivano i suoi rapporti con l’Occidente. Oltre alla seta e alla porcellana esporta ormai prodotti industriali e fruisce di un colossale avanzo del suo bilancio commerciale. Essa è diventata il prestatore di fondi agli Stati Uniti e all’Europa. Le rivendicazioni indipendentiste in Tibet e le spinte secessioniste nella regione musulmana e turcofona dello Xinjang (2) rimandano a fenomeni classici per l’Impero cinese: come in passato, i dirigenti devono controllare i baroni dell’economia e governare popolazioni differenti fra loro. Il regime dovrebbe poter attingere al suo savoir-faire imperiale per rispondere a queste sfide e ritrovare il suo rango.

La formazione e il crollo dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (URSS) possono essere analizzati partendo dal medesimo schema di lettura. La strategia di Mosca, mirante a promuovere repubbliche nazionali, dirette da intermediari comunisti autoctoni, ha fornito la mappa della disgregazione del blocco e allo stesso tempo un linguaggio comune, che ha facilitato la negoziazione delle nuove sovranità. Il più grande degli Stati dell’era post-sovietica, la Federazione Russa, è esplicitamente multietnico. La Costituzione del 1993 ha offerto a ognuna delle Repubbliche il diritto di optare per la propria lingua ufficiale, pur definendo il russo come lingua dell’insieme della Federazione.

Dopo un breve interludio, Vladimir Putin e i suoi protetti hanno ravvivato le pratiche patrimoniali della Russia degli zar. Mentre ritessevano i legami con i magnati dell’industria, inasprivano il controllo sulle istituzioni religiose, imbavagliavano la stampa, adattavano le procedure elettorali per favorire l’emergere di una «democrazia sovrana» al servizio di un solo partito, si assicuravano la lealtà dei governatori della Federazione dando garanzie ai nazionalisti russi, si rimpegnavano nei conflitti territoriali ai confini del Paese, mentre l’Impero russo faceva la sua ricomparsa, in una nuova mutazione dello spazio eurasiano.

Da Carlo Magno all’Unione Europea
L’Unione Europea è attualmente la più innovativa delle grandi potenze. Le lotte a favore dell’Europa o contro di essa attraversano le età, dall’epoca di Carlo Magno a quella di Adolf Hitler, passando per quelle di Carlo V e di Napoleone I. Solamente dopo il cataclisma della Seconda guerra mondiale e la perdita delle loro colonie gli imperi europei hanno definitivamente posto fine alla competizione che non avevano mai cessato di praticare fra loro. Fino agli anni 1960 la Francia e il regno Unito hanno tentato malgrado tutto di riconfigurare i loro imperi, allo scopo di renderli a un tempo più legittimi e più produttivi. Esclusi dal gioco imperiale, la Germania e il Giappone sono riusciti a prosperare in quanto Stati-nazione, mentre non vi erano riusciti prima.

Dagli anni ’50 agli anni ’90 gli Stati europei, liberati dal peso dei loro imperi, hanno dedicato l’essenza delle loro risorse a tessere alleanze fra loro. Essi hanno così gettato le basi di una confederazione che ha funzionato in modo efficiente finché le sue ambizioni si sono limitate all’amministrazione e all’imposizione di regole. Chiunque osservi un posto di frontiera, abbandonato lungo una linea di demarcazione per difendere la quale milioni di persone sono morte, sarà probabilmente portato a considerare la creazione dello spazio di Schengen come un progresso. Uno dei principali attributi della sovranità, il controllo delle frontiere, è stato spostato ai confini del Continente (3). Dalle ambizioni bellicose, miranti alla costituzione di imperi fino all’emergere di Stati nazionali privi di colonie, alle quali si sostituisce il progetto di foggiare una confederazione di nazioni, l’evoluzione europea sottolinea la complessità dell’assetto delle sovranità. Essa dimostra ugualmente che il concetto nazionale di Stato si è recentemente emancipato dal modello imperiale.

Dopo l’11 settembre 2001 gli esperti in materia hanno operato la consacrazione dell’«Impero americano», sia per denunciare l’arroganza della sua politica estera, sia, al contrario, per celebrare i suoi sforzi a favore della pace e della democrazia. Ma la sola domanda che veramente vale è quella che mette in questione il repertorio del potere assiso a Washington, che si fonda sull’utilizzo selettivo di strategie imperiali. Durante tutto il corso del XX secolo gli Stati Uniti hanno fatto uso della forza, violato la sovranità di molti Stati e occupato territori, anche se raramente vi hanno stabilito colonie.

Il patriottismo americano è nato da una traiettoria imperiale: fin dal 1776 Thomas Jefferson dichiarava che le province che si ribellavano contro la Corona britannica avrebbero fatto nascere un «Impero della libertà». Il sistema che ne è emerso era fondato su un principio simile alla politica romana della diversità: consacrava l’uguaglianza e il diritto di proprietà per i cittadini, come pure l’esclusione degli Indiani e degli schiavi. Esteso all’insieme del continente esso ha permesso agli americani di ascendenza europea di concentrare nelle loro mani la maggior parte delle risorse. Dopo essere inciampati per un certo tempo sulla questione della schiavitù, i dirigenti si sono trovati in una posizione sufficientemente forte per decidere del momento e delle condizioni dei loro interventi sul resto del mondo.

La forma di impero è esistita in rapporto – e spesso in conflitto – con altre forme di governo. Gli imperi hanno avuto la capacità di facilitare (ma anche di ostacolare) la circolazione dei beni, dei capitali, degli individui e delle idee. La maggior parte di essi emerge in seguito a processi violenti e la conquista spesso precede lo sfruttamento, perfino l’acculturazione forzata e l’umiliazione. Hanno foggiato sistemi politici potenti, ma ugualmente causato sofferenze umane considerevoli. Tuttavia, l’idea di nazione, sviluppata in sé nel contesto imperiale, non ha dato prova della sua efficienza, come testimoniano i conflitti irrisolti nel Vicino Oriente e in numerose regioni d’Africa.

Altre forme di sovranità
Ci troviamo oggi sui sentieri scoscesi che portano al «dopo impero», nel bel mezzo di una finzione [letteraria] secondo la quale le sovranità si equivalgono… ma chi non riesce a mascherare del tutto le disuguaglianze fra Stati? Pensare l’impero non significa che si desideri risuscitarlo dai mondi passati. Si tratta piuttosto di considerare la molteplicità delle forme di esercizio del potere su un dato spazio territoriale. Se giungiamo a considerare la storia non come l’inesorabile transizione dalla forma impero alla forma Stato-nazione, forse potremmo pensare l’avvenire da un punto di vista più ampio. E immaginare altre forme di sovranità che rispondano meglio a un mondo caratterizzato a un tempo dalla disuguaglianza e dalla diversità.

(1) Domenicano spagnolo (1474-1566). Avendo denunciato la condizione degli indigeni nella colonie della Corona spagnola, è stato accusato di voler perpetuare il potere imperiale dandogli un «volto umano».
 (2) Leggere Martine Bulard, « Quand la fièvre montait dans le Far West chinois», Le Monde diplomatique, août 2009.
(3) Leggere Alain Morice et Claire Rodier, «Comment l'Union européenne enferme ses voisins», Le Monde diplomatique, juin 2010.



Martedì 13 Dicembre,2011 Ore: 11:18
 
 
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