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www.ildialogo.org Psicologia e management<br>La fabbrica dell’anima standard,di Eva Illouz

Le Monde Diplomatique, novembre 2011, pag. 3
Psicologia e management
La fabbrica dell’anima standard

di Eva Illouz

Costruire il consenso e calmare le relazioni, cominciare a conoscersi, privilegiare il dialogo, dominare le proprie emozioni: altrettante virtù oggi raccomandate nelle imprese come nella vita privata. Perché esse incarnano un comportamento idealmente adulto oppure perché favoriscono una migliore redditività dell’individuo?


 "... la persona nella sua interiorità è diventata il bersaglio di un’industria che ha l’individuo come sua merce principale. Perché l’umano sia sempre più redditizio se ne è standardizzata l’anima." 
Orwell e Huxley, pur senza colpire direttamente, l'hanno compreso nella loro visione.
JFPadova

Eva Illouz, Docente di sociologia, autrice di Les sentiments du capitalisme, Seuil Ed., Parigi, 2006.

(traduzione dal francese di José F. Padova)

«Suona una sveglia. Nel suo appartamento di New York Michael Galpert, 28 anni, imprenditore del Web, salta dal suo letto. Riavvolge la bobina del registratore che rileva, durante la notte, le sue onde cerebrali e studia la curva delle fasi del suo sonno. Va in bagno, misura il suo peso e la sua massa muscolare con uno strumento digitale che mette in Rete i dati».  Più tardi il signor Galpert si installa nel suo ufficio. «Un inglese [via Internet] svolge un grafico di 4 metri che identifica le fluttuazioni del suo umore nel corso dell’anno precedente. (…) Spostamenti, essudazione, caffeina, ricordi, stress, sesso e incontri: tutto può essere riferito a una statistica. E se lo strumento necessario non è ancora stato inventato, lo sarà certamente nel corso dei prossimi anni (1)». Compreso quanto riguarda l’anima. Descritto dal Financial Times, questo archetipo dell’uomo moderno considera che il proprio «sé» non dipende dall’inconoscibile o dall’Infinito, ma da un insieme di forze materiali, chimiche, suscettibili di essere misurate e controllate, sull’unità di misura di un modello astratto di «normalità».

Il pensiero pre-moderno aveva un altro concetto dell’umano: postulava spesso l’esistenza dell’anima, «superiore» al corpo, insondabile, eterna, legata al divino; come verrà espresso con grande forza dal cristianesimo. Essa è allora intesa come infinita, ma suscettibile di essere turbata da quelle che sono chiamate le passioni, vale a dire i sentimenti, gli umori, gli affetti; in breve, da tutto quello che sfugge alla ragione e alla volontà. Il cristianesimo li identifica talvolta con i sette peccati capitali, dei quali si sarebbe potuto purificarsi con atti di penitenza. Le passioni trovavano posto in un concetto morale dell’individuo e l’apprendimento del controllo delle emozioni dipendeva dalla formazione generale dei membri della comunità degli umani, che decretava o combatteva una visione del bene e del male, della salvezza e della dannazione.

Questo scivolamento delle passioni dell’anima verso emozioni definite come una serie di elementi manipolabili fa parte di ciò che il sociologo Max Weber  chiama il «disincanto del mondo», la perdita della fede, il vuoto del senso, che potrebbero ben essere una delle caratteristiche del nostro tempo: la razionalizzazione della vita da parte delle istituzioni della scienza e della tecnologia, che abrogano il «mistero» riducendo il mondo a una serie di oggetti di conoscenza, e da parte della logica propria dell’economia di mercato, che richiede di mettere la propria vita interiore d’accordo con gli interessi personali. Tutto ciò che non si presume concorra al profitto immediato è allora screditato e giudicato inutile. Ma la ricchezza delle emozioni potrebbe fare da contrappeso a questo discredito, offrendo la possibilità di dare un senso al vissuto nella sua totalità e di impegnarvisi con passione. È ciò che pensava Weber. Egli non aveva previsto la potenza dei movimenti che, dopo la prima guerra mondiale e più decisamente ancora dopo la seconda, esigerebbero di razionalizzare perfino le emozioni (2),

Vendere il proprio «sé», positivo ed efficiente

Difficili da controllare, le emozioni sfuggono sovente alla consapevolezza. Come lo constata il narratore del romanzo di Philip Roth Indignation: «Ho accettato con gioia di lavorare per mio padre quando mi è stato necessario farlo e ho imparato docilmente tutto quello che lui poteva insegnarmi sulla macelleria. Ma non ha mai potuto insegnarmi ad amare il sangue o anche ad essergli indifferente (3)». In genere è ammesso che noi possiamo imparare a nascondere i nostri sentimenti, ma che i sentimenti non educano affatto loro stessi. Il collegamento fra scienza e mercato avrebbe aperto nuovi orizzonti in questo campo?

È Wilhelm Wundt, il cui lavoro fu decisivo per il riconoscimento della psicologia sperimentale come scienza, che ha introdotto la riqualificazione dell’anima in «personalità» o in «psichismo», ormai modulabile, quando afferma che la nozione di anima non era pertinente per il ricercatore e che soltanto l’osservazione di fenomeni psichici permetteva di comprendere le persone. La psicologia trasformerà radicalmente l’immagine del «me», grazie a un ideale di salute mentale e di benessere che conquisterà tutti i campi della società: l’economia (con le teorie del management), l’educazione (i modelli pedagogici), la vita privata (i consulenti coniugali), la prigione (i programmi di riabilitazione), la pubblicità, il marketing e i media (i programmi-dibattito) e perfino i conflitti internazionali, per i traumi legati alle guerre e ai genocidi. La psicologia integrata al mercato propone terapie al mondo intero, facendo dell’individuo autonomo, della salute mentale e dello sviluppo obiettivi da raggiungere e oggetti di consumo. Per vendere questo nuovo prodotto – il «me» positivo ed efficiente – la psicologia utilizza standard di valutazione e di misura dell’individuo e delle sue emozioni.

All’inizio degli anni 1920, negli Stati Uniti, gli psicologi, spesso influenzati da un’interpretazione semplificata del pensiero freudiano, avevano contribuito in modo efficace al reclutamento nell’esercito o alla guarigione dei traumi bellici. Il mondo dell’impresa decise allora di ricorrere alle loro competenze per attribuire valore ai lavoratori e migliorare le relazioni professionali e la produttività.

Con l’ausilio di test sulla personalità introdotti nel primo decennio del XX secolo e promossi a svolgere un ruolo determinante (4), essi si occuparono di reperire i candidati che meglio corrispondessero al profilo del posto di lavoro. Dopo gli anni 1930 e gli studi di Elton Mayo, il fondatore della Scuola di relazioni umane, i sentimenti dei lavoratori erano diventati l’oggetto principale delle tecniche di un management ormai divenuto scientifico. Si enumerano venticinque specie di test della personalità, che rappresentano un mercato da 400 milioni di dollari; ottantanove delle cento maggiori imprese utilizzano questo tipo di esame per assumere e formare i loro impiegati (5).

Ormai, per portare le persone a dare il meglio di sé nell’azienda, il responsabile non deve più esercitare pressioni su altri, come il caporeparto di un tempo; gli è necessario al contrario esercitare un controllo su sé stesso, allo scopo d’incarnare l’efficienza e la razionalità: in breve, di pilotare il versante umano della redditività. Diviene allora indispensabile padroneggiare le proprie emozioni, soprattutto quelle negative. Gli psicologi raccomandano ugualmente di ostentare un umore cordiale, favorevole alla cooperazione. Spirito di squadra, senso del positivo, capacità di empatia: tali sono gli attributi del buon manager, il cui ruolo è quello di trasmutare i dati affettivi in strumenti di gestione. Tutte le teorie elaborate dai manuali di management degli anni dal 1930 al 1970 convergevano verso un modello culturale: la «comunicazione». Essere un buon comunicatore esige il saper valutarsi «obiettivamente», e quindi capire come si viene percepiti. Da qui la necessità di un lavoro d’introspezione per identificare le proprie emozioni, dare loro un nome, valutarle e confrontare l’immagine che si ha di sé con quella che ne hanno gli altri. Ma occorre ugualmente sapere interpretare il comportamento altrui e comprenderlo dall’interno: ne dipende l’attitudine a prevenire i conflitti e creare uno spirito di cooperazione. La comunicazione diffonde tecniche e meccanismi suscettibili di essere applicati dovunque, dalla sfera privata a quella politica, allo scopo di placare i rapporti e di aiutare nel difendere i propri interessi, permettendo di «rispettare» l’altro, figlio, moglie, collega.

Per raggiungere questo ideale è necessario intellettualizzare le emozioni; superare i sentimenti negativi per aprirsi a esperienze positive; impedirsi di essere passionale, preferire il giusto mezzo, nel quale si equilibrano la cura di sé e quella per l’altro e sapere che la flessibilità del carattere è favorevole alla cooperazione. Essere in grado di controllare le proprie emozioni testimonia una capacità di riconoscere e difendere i propri interessi – ciò che adesso è assimilato a un segno di maturità. Questo postulato di un nesso fra i tipi di carattere e la performance professionale e sociale è al centro della nozione di «intelligenza emozionale».

Apparsa durante gli anni ’90, questa teoria ha rapidamente conquistato lo status di nuovo strumento per la valutazione delle competenze. Grazie a essa, gli psicologi potevano «scoprire» obiettivamente ciò che essi stessi avevano forgiato: il ruolo delle emozioni nella valutazione. Si confermava così che la maniera con la quale ognuno governa le sue rivela caratteristiche essenziali che potrebbero avere sufficiente valore per portare a una funzione direzionale.

Bambini adatt(at)i allo spirito d’impresa

Questo fu la fine del lungo processo che sottoponeva le emozioni a un intento economico. L’intelligenza emotiva – la capacità di controllarsi – serve da strumento di classificazione nel mondo del lavoro e agisce come fattore di omogeneizzazione. I corsi che propongono l’apprendimento di come modificare il proprio comportamento sono molto frequentati e le pratiche pedagogiche cercano di fornire ai bambini strumenti che li renderanno idonei allo spirito d’impresa: padronanza di sé, empatia, flessibilità e buon umore. Entrambe lavorano il campo emozionale come uno strumento di performance economica. Negli impieghi di media complessità (venditore, meccanico), il più efficiente ha una produttività dodici volte superiore a quella dei meno capaci; negli impieghi più complessi (assicuratore, gestore di portafogli) il più competitivo è almeno due volte più produttivo della media. Una ricerca condotta in più di duecento gruppi suggerisce che un terzo circa di questa differenza è dovuta all’abilità tecnica e alle capacità cognitive, e gli altri due terzi alla competenza emotiva – per i posti direzionali questi valori salirebbero a più di quattro quinti.

Si tratta di uno degli aspetti più originali dell’economia del XX secolo: la persona nella sua interiorità è diventata il bersaglio di un’industria che ha l’individuo come sua merce principale. Perché l’umano sia sempre più redditizio se ne è standardizzata l’anima.

(1) April Dembosky, «Invasion of the body hackers », Financial Times, Londres, 10 juin 2011.

(2) Vedi Manière de voir, n° 96, «La fabrique du conformisme», décembre 2007-janvier 2008.

(3) Philip Roth, Indignation, Gallimard, Paris, 2010.

(4) Andrew Abbott, The System of Professions : An Essays on the Division of Expert Labor, University of Chicago Press, 1988.

(5) Annie Murphy Paul, The Cult of Personality, Free Press, New York, 2004.



Sabato 03 Dicembre,2011 Ore: 16:08
 
 
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