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www.ildialogo.org Vento di fronda in Europa,di Damien Millet e Eric Toussaint

Le Monde Diplomatique, luglio 2011 n. 688, pag. 7
Vento di fronda in Europa

di Damien Millet e Eric Toussaint

(traduzione dal francese di José F. Padova)


 E’ necessario pagare il debito? Si chiede Le Monde Diplomatique, un po’ provocatoriamente. Eppure per secoli gli Stati (monarchie, dittature, repubbliche…) hanno restituito i loro debiti soltanto in parte o quasi niente del tutto: stampando carta moneta e creando inflazione, con esempio massimo gli Stati Uniti, il cui dollaro, moneta internazionale, è manovrato dalla FED non certo nell’interesse pieno di chi detiene il biglietto verde. Talvolta il debito è stato tanto gonfiato da causare una guerra: Trattato di Versailles, Repubblica di Weimar, Hitler. Ma non sempre la mancata restituzione del denaro preso in prestito è catastrofica: vedi attualmente Argentina ed Ecuador. Ci siamo mai chiesti perché oggi “dobbiamo” restituire il debito pubblico? Si giunge qui a un paradosso: se i detentori dei titoli del debito sono i cittadini, direttamente o per tramite degli Stati, poiché il debito è servito per vivere al disopra delle proprie possibilità, il “default” è il brusco richiamo alla realtà e a una vita più parsimoniosa e anche un monito a non prestare più in futuro a chi (lo Stato e coloro che dello Stato sono i parassiti) sai già immeritevole del tuo credito. Ma oggi gli Stati e i governi sembrano impotenti di fronte al Moloch, la Finanza Internazionale, le Banche: ne sono succubi? I loro comportamenti dicono che sì, che ormai il Denaro regna sovrano nelle tasche e nelle anime, con il valido aiuto dei famosi Mezzi di distrazione delle masse. Ma questa, gente, non è una Nemesi! Non sarebbe tempo di pensare a ribellarsi, proprio perché da cittadini siamo stati traviati a massa? Ci ricordiamo come si fa?
J.F.Padova 
[Già nel 1930 Ortega y Gasset pubblicava “La rebelión de las masas”…, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1962 ]

Per designare il minuto decisivo, l’istante nel quale convergono le contraddizioni e si apre la possibilità del «dopo», gli antichi Greci avevano un concetto: il καιρός (kairós). Da quando ha fatto la sua comparsa il turbine monetario e finanziario che, l’uno dopo l’altro, sconvolge i Paesi europei, sembra avvicinarsi il momento del ribaltamento. Da Atene a Madrid la collera sociale aumenta: i manifestanti che occupano le piazze pubbliche denunciano il regno dei banchieri e un debito illegittimo. Di fronte a essi, i liberisti impongono, servendosi di Autorità [ndt.: allude alla BCE e alla Commissione Europea?] con legittimità contestata, l’impegno ad avanzare sulla via dell’austerità, ovvero il cammino più breve verso la società che essi sognano.

È necessario pagare il debito?

Una volta c’era il primo mondo, il «Nord», che si riteneva costituisse un blocco di prosperità; il secondo mondo, quello dei Paesi sovietici; e infine il terzo mondo, che raggruppava i Paesi poveri del «Sud», dagli anni ’80 sottoposto ai diktàt del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il secondo è andato in pezzi all’inizio degli anni ’90 con la dissoluzione dell’URSS. Con la crisi finanziaria del 2008 il primo mondo si è ribaltato; a tal punto che ormai nessuna divisione geografica sembra più essere pertinente. Non si distinguono più che due categorie di popolazione: la manciata di coloro che profittano del capitalismo contemporaneo e la grande maggioranza, che lo subisce. In particolar modo attraverso il meccanismo del debito.

Nel corso degli ultimi trent’anni gli anelli deboli dell’economia mondiale si situavano in America Latina, in Asia o nei Paesi detti «di transizione» dell’ex blocco sovietico. Dal 2008, a sua volta, l’Unione Europea suscita dubbi. Mentre il debito esterno totale dei Paesi dell’America Latina alla fine del 2009 raggiungeva in media il 23% del PIL, in Germania si attestava al 155%, al 187% in Spagna, al 191% in Grecia, al 205% in Francia, al 245% in Portogallo e al 1137% in Irlanda. Una cosa mai vista.

Contrariamente agli Stati Uniti, che possono rifornirsi di liquidità presso la Federal Reserve, in particolare mediante la creazione monetaria, i Paesi membri della zona euro si sono privati di uno strumento simile: gli statuti della Banca Europea (BCE) vietano il finanziamento diretto agli Stati. Così, quando fra il 2007 e il 2009 essi si mobilitano per «salvare le banche» - per un importo totale di 1.200 miliardi di euro in impegni e garanzie diverse – il loro finanziamento dipende dagli investitori istituzionali: essenzialmente fondi pensioni, compagnie di assicurazioni e… banche private.

Una delle conseguenze inaspettate della crisi è stata quindi quella di permettere a banchieri dell’Europa occidentale, in particolare francesi e tedeschi, di utilizzare i fondi prestati dalla Federal Reserve e dalla BCE per aumentare, fra il 2007 e il 2009, la loro esposizione verso molti Paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna) e realizzarvi succosi profitti. Fra giugno 2007 (inizio della crisi dei subprime) e settembre 2008 (fallimento di Lehmann Brothers) i prestiti delle banche private occidentali alla Grecia sono aumentati del 33%, passando da 120 miliardi a 160 miliardi di euro.

Nella primavera del 2010, quando forti turbolenze scuotono la zona euro, la BCE presta col vantaggioso tasso d’interesse dell’1% alle banche private. Queste, per contro, esigono da Paesi come la Grecia una remunerazione ben superiore: fra il 4% e il 5% per prestiti di una durata di tre mesi, circa il 12% per titoli a dieci anni. La giustificazione di tali esigenze? Il «rischio di default» che pesa sui titoli di questo Paese. Una minaccia tanto pregnante che i tassi aumentano considerevolmente: in maggio 2011 i tassi a dieci anni superano il 16,5%. D’altra parte, per «fluidificare» il mercato del debito sovrano, la BCE garantisce ormai i crediti detenuti dalle banche private ricomprando da queste i titoli degli Stati… ai quali, in linea di principio, ad essa è vietato prestare direttamente.

Una simile impalcatura merita veramente che la si perpetui? Dopo tutto, se le banche esigono una remunerazione che tiene conto di un «rischio di default», non sarebbe coerente prendere in considerazione la sospensione dei pagamenti, addirittura la denuncia dei debiti giudicati illegittimi? In generale, all’evocazione di una simile opzione ci si vede opporre la descrizione del caos al quale essa necessariamente porterebbe: uno «scenario dell’orrore», ritiene Christian Noyer, governatore della Banca di Francia (1). Ma dal punto di vista delle popolazioni, «scenario dell’orrore» non sarebbe piuttosto quello della messa in atto dei programmi d’austerità annunciati?

Un analista poco sospetto di sentimentalismi terzomondisti qual’è Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, affermava nel 1989 a proposito dei piani di adeguamento imposti ai Paesi latino-americani: «Nessun governo democratico può sopportare la prolungata austerità e le riduzioni di bilancio dei servizi sociali pretesi dalle istituzioni internazionali (2)». E ciò tanto meno in quanto il debito non cessa di aumentare malgrado i rimborsi, poiché i vecchi prestiti sono coperti in parte da nuovi indebitamenti: nel 2009 i poteri pubblici dei Paesi in via di sviluppo avevano rimborsato l’equivalente di novantotto volte ciò che dovevano nel 1970. Nel frattempo, il loro debito era stato moltiplicato per trentadue.

Proprio in questa direzione i governi europei impegnano le loro popolazioni, rifiutando di attivare le leve politiche che permetterebbero di cambiare la traiettoria. Un’altra soluzione si offre tuttavia sia al Nord che al Sud. Nel corso degli ultimi dieci anni alcuni Paesi hanno così scelto di sospendere i pagamenti e di annullare una parte del loro debito: l’Argentina nel 2001 (grazie a una sospensione dei rimborsi durante tre anni ha imposto nel 2005 ai suoi creditori privati una riduzione di più della metà del suo debito) o, più recentemente, l’Ecuador. Senza che ne derivasse il caos: «Tanto la teoria che la pratica suggeriscono che la minaccia di chiusura del rubinetto del credito è stata probabilmente esagerata», conclude Joseph Stiglitz, capo economista della Banca Mondiale dal 1997 al 2000 (3). Dal 2003 al 2010 l’Argentina ha registrato un tasso di crescita annuale medio di più dell’8%. La sospensione dei pagamenti non comporterebbe quindi necessariamente il cataclisma fatto temere dalle Cassandre del debito. Per di più, può risultare legittima?

Per essere legato da un contratto di prestito, uno Stato deve aver dato il suo consenso liberamente. Da questo consenso nasce l’obbligo di rimborsare il debito. Nondimeno, questo principio non è assoluto: è sottoposto alla legalità della quale si è dotato il diritto internazionale. Così, l’art. 103 della Carta dell’ONU proclama: «In caso di conflitto fra gli obblighi dei membri delle Nazioni Unite in virtù della presente Carta e i loro obblighi in virtù di qualsivoglia altro accordo internazionale, i primi prevarranno». Fra questi, all’art. 55 della Carta, si trova: «L’innalzamento del livello di vita, il pieno impiego e condizioni di progresso e sviluppo nell’ordine economico e sociale».

I «piani d’aiuti» concessi da Commissione europea, BCE e FMI ai Paesi in difficoltà (miranti a permettere loro di rimborsare i loro creditori) rispondono a queste esigenze? Nel 2009 la Lettonia si è vista imporre una riduzione delle spese pubbliche equivalente al 15% del PIL, una diminuzione dei salari dei dipendenti statali pari al 20% e una riduzione dell’importo delle pensioni (d’altra parte giudicata anticostituzionale qualche mese dopo) del 10%, più la chiusura di scuole e ospedali. Tuttavia, fin dal 1980 la Commissione per il Diritto internazionale delle Nazioni Unite proclamava: «Uno Stato non potrebbe, per esempio, chiudere le sue scuole, le sue università e i suoi tribunali, sopprimere la sua polizia e negligere i suoi servizi pubblici al punto di esporre la sua popolazione al disordine e all’anarchia semplicemente allo scopo di disporre dei fondi necessari per fare fronte ai suoi obblighi verso i suoi creditori esteri (4)».

La Convenzione di Vienna del 1986, che completa quella del 1969 sul diritto dei trattati (5), identifica i diversi vizi del consenso che possono comportare la nullità di un contratto di prestito. Il suo articolo 49 tratta del «dolo»: «Uno Stato o un’organizzazione internazionale portata a concludere un trattato dalla condotta fraudolenta di uno Stato o di un’organizzazione che abbia partecipato ai negoziati può invocare il dolo come vizio del suo consenso a essere legato dal trattato». Non si potrebbe forse qualificare come doloso e fraudolento il comportamento del FMI, tanto il fossato fra il suo enunciato e la realtà è abissale? L’art. 1 dello Statuto del Fondo fissa come suo obiettivo quello di «facilitare l’espansione e la crescita armoniosa del commercio internazionale e di contribuire così all’instaurazione e al mantenimento di livelli elevati di impiego lavorativo e di reddito reale e allo sviluppo delle risorse produttive di tutti gli Stati membri, obiettivi primari della politica economica». Aumento della disoccupazione, caduta dei redditi, privatizzazioni: le misure che l’Istituto impone portano molto spesso a tutt’altra situazione. E si può parlare del libero consenso di uno Stato quando questo è preso sotto il fuoco incrociato degli speculatori dei mercati finanziari, della Commissione europea e del FMI?

Si rivela quindi lunga la lista degli argomenti suscettibili di giustificare una sospensione dei pagamenti e di legittimare la denuncia pura e semplice di debiti giudicati illegittimi (6). D’altra parte da qualche mese l’opzione s’impone come un’evidenza. Anche fra gli speculatori: a fine giugno, secondo le banche d’affari Morgan Stanley e JP Morgan, i mercati stimavano la probabilità che la Grecia facesse default sul suo debito all’86% (contro il 50% in aprile).

Il fenomeno non è sfuggito tesorieri. Inquieti all’idea di vedersi imporre un riscaglionamento dei pagamenti o una riduzione del valore dei loro crediti (nel quadro di una rinegoziazione oggi proibita da Berlino), le banche francesi nel 2010 hanno diminuito la loro esposizione sul debito sovrano greco, che è passata  da 19 a 10 miliardi di euro. Le banche tedesche hanno eseguito un’operazione analoga: i loro impegni fra maggio 2010 e febbraio 2011 sono scesi da 16 a 10 miliardi di euro. Surrettiziamente istituzioni pubbliche come il FMI, la BCE e i governi europei si sostituiscono ai banchieri e agli altri investitori privati. La BCE detiene 66 miliardi di euro in titoli sovrani greci (ovvero il 20% del debito pubblico di quel Paese); il FMI e i governi europei hanno prestato fino a oggi 33,3 miliardi di euro. Il medesimo procedimento è avviato con l’Irlanda e il Portogallo. «Ciò significa che in caso di ristrutturazione sono i contribuenti – piuttosto che gli investitori privati – che pagheranno il conto (7)», ha così riassunto il New York Times.

(1) Citato da Ingrid Melander e Paul Taylor, « Mises en garde sur un possible reprofilage de la dette grecque », Reuters, 24 mai 2011.

(2) Citato da Miguel Angel Espeche Gil, «La doctrina Espeche. Ilicitud del alza unilateral de los intereses de la deuda externa », Instituto hispano-luso-americano de derecho interna-cional, 15' congrès, 23 au 29 avril 1989, Saint-Domingue (République dominicaine).

(3) « Sovereign debt : Notes on theoretical frameworks and policy analyses », in Barry Herman, José Antonio Ocampo et Shari Spiegel (sotto la direzione di), Overcoming Developing Country Debt Crises, Oxford University Press, 2010.

(4) Annuaire de la Commission du droit international de l'ONU (ACDI), 1980, p. 148.

(5) La convenzione del 1969 è entrata in vigore nel 1980, quella del 1986 è in corso di ratifica.

(6) Per una lista completa leggere La Dette ou la Vie, chapitres XX et XXI, Aden-CADTM, Bruxelles, 2011.

(7) Landon Thomas Jr, «In Greece, some see a new Lehman », The New York Times, 12 juin 2011.



Lunedì 22 Agosto,2011 Ore: 15:58
 
 
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