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www.ildialogo.org Donne nell’Islam – Il hijab non è una moda,Di Iris Radisch

Donne nell’Islam – Il hijab non è una moda

Di Iris Radisch

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)


In Germania e' vivo il dibattito sull'Islam, o meglio sull'integrazione nella nazione tedesca degli immigrati islamici e in genere di coloro che professano quella fede. Nel bene, e talvolta anche nel male, i tedeschi sono forti organizzatori e quindi tengono l'occhio puntato avanti nel tempo: l'orientamento che hanno preso sull'atomo ne e' una prova. Il libro di Alice Schwarzer, recentemente pubblicato, la cui recensione su Die Zeit e' qui allegata, amplia quanto gia' conteneva un articolo, tradotto, del 25 maggio, di autrice iraniana-tedesca. Anni luce separano il modo di ragionare di queste scrittrici dal rozzo berciare dei "padani", cui finalmente un popolo italiano miracolosamente (ri?)svegliatosi ha mandato un chiaro messaggio. Un altro messaggio lo manderemo tutti noi che voteremo al prossimo referendum: spero potremo essere tutti "quorum".(J.F.Padova)

 Die Zeit, Hamburg – 16 settembre 2010

Donne nell’Islam – Il hijab [ndt.: foulard copricapo] non è una moda
Alice Schwarzer nel suo nuovo libro si oppone all’idillio multiculturale e alla tolleranza da sprovveduti. Chiede un divieto del foulard islamico per le studentesse.
Di Iris Radisch [redattrice di Die Zeit per le recensioni di libri]
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
http://www.zeit.de/2010/38/L-Schwarzer/seite-1

Sarebbe un bel mondo quello nel quale le giovani donne musulmane portassero il foulard sugli hot pants e i tacchi a spillo e potessero andare a zonzo con noncuranza nella colorata confusione da grande capitale di Berlino Neukölln [ndt.: vedi anche http://archiviostorico.corriere.it/]. Noi le conosciamo attraverso la popolare serie TV berlinese Il turco per principianti. Ci si lascia vivere anche così: oggi un poco di Neukölln, domani un tantino di SoHo, lunedì un foulard sciccoso, mercoledì occhiali da sole di Gucci. Tutti insieme pacificamente uniti sotto il grande tetto di vetro dell’iconografia pop globale e dei suoi addobbi e offerte, liberamente fluttuanti, di merci. Un idillio pop, nel quale, rilassati, tutti insieme mangiano il medesimo gelato o bevono la stessa aranciata e ai quali ogni tanto solo lo scemo populista di destra dà fastidio.

Ma chi dovrebbe essere questo «si», che tanto noncurante, si presume, se ne va a spasso nella bella confusione di Neukölln? E che cosa indossa questo «si»? In ogni caso non gli hot pants né i tacchi a spillo. Naturalmente neppure il foulard. Perché per questo «si» si tratterebbe sicuramente di un «maschio» [ndt.: gioco di parole fra man=”si” impersonale e Mann=”uomo”]. E costui ha certo previsto qualcosa: l’allegro accostamento non è messo in discussione solamente da testardi populisti di destra, ma anche dalle femministe.

Se per Neukölln «si»va a spasso e lo fa un «si» al femminile, il mondo ha un aspetto un po’ differente. Ammesso che le cose non stiano più come e quanto nella Berlino della mia giovinezza, quando da padri di famiglia turchi, le cui figlie erano chiuse a chiave in casa, spesso durante i miei spensierati tentativi di passeggiare per la mia città natale mi veniva offerto denaro contro sesso, una giovane donna che se ne vada in giro da sola sarebbe naturalmente una puttana, nel suo sistema di segni che non fluttuano tanto liberamente e non sono di umore culturale tanto buono. Un equivoco., come poteva facilmente accadere nella confusione di una grande capitale. Ma anche oggi il sindaco di Neukölln Heinz Bushkowsky (SPD=socialisti) dice di non volere che nella sua città «continui oltre la marcia di ritorno al Medioevo, come accade ora». Perfino se il sindaco esagera, proprio come i propagandisti dell’essenza da “flaneur” di Neukölln: dove una giovane donna potrebbe passeggiare da sola tanto poco quanto a Orano, Tangeri o Kabul. In ogni caso non in pantaloni inguinali. E men che meno senza il foulard.

E con questo eccoci all’importante libro di Alice Schwarzer, che esce il 23 settembre [2010] giusto in tempo per l’attuale dibattito sull’integrazione e sulle società parallele e che ha il grande vantaggio di fare della sciagurata disputa sull’ereditarietà e sui genî una discussione sui diritti degli uomini e soprattutto delle donne. (La grande dissimulazione. Per l’integrazione, contro l’islamismo, Editore Kiepenheurer & Witsch). Alice Schwarzer può averci fatto spesso arrabbiare, quando (sì, lo si deve pur sempre dire) per il Bild, il settimanale delle tette, ha fatto pubblicità e anche finta di non sentire, quando si trattava della scoperta di un femminismo più orientato alla famiglia. Invece la sua lotta per l’equiparazione dei diritti delle donne musulmane, iniziata già nel 1979 quando fra i primi andò a Teheran e subito mise in guardia contro la radicalizzazione del regime di Komeini, è ammirevole e non deve essere sbattuta come un uovo strapazzato insieme al populismo di destra. Così il suo nuovo libro è in realtà vecchio, perché riproduce le tappe di questa controversia – Iran, Afghanistan, Francia, divieto di minareti, burka e jihab – oltre trent’anni dopo gli articoli scritti a suo tempo, oltre che dalla Schwarzer, da Elisabeth Badinter, Djemila Benhabib, Gabriele Vensky e Necla Kelek. Eppure proprio questo intervallo di tempo e di argomenti rende il libro di effetto particolarmente grande, in quanto indica le linee tradizionali e i rapporti politici dell’islamizzazione, per esempio in Iran, Iraq, Afghanistan, Pakistan e Algeria, alla luce dei quali dovrebbe essere messa in discussione la percentuale, crescente, dei jihab nelle scuole tedesche.

Alice Schwarzer e le sue compagne di lotta ragionano politicamente e non in chiave di letteratura pop. Per loro il velo non è una decisione individuale dettata dalla moda, né una ragazza porta per divertimento un hijab né per il medesimo svago un’altra preferisce un’acconciatura rasta. Il hijab, come anche il burka, è un simbolo politico e religioso. Entrambi i capi d’abbigliamento seguono un’immagine delle persone, secondo la quale le donne sono impure e sottoposte all’uomo. Il velo ha il senso del ricupero della dignità perduta a causa del semplice essere donna. Una donna sprovvista di velo perciò è sempre priva di dignità. La crescente diffusione del velo per le donne nei Paesi islamici, ma anche fra le immigrate in Europa, è un processo inquietante anche per noi. Quindi, scrive Rita Breuer, come potrebbe un uomo prestare attenzione a una donna senza velo, se «il velo è descritto come segnale irrinunciabile della dignità femminile e unica difesa dalle sbandate morali?».

Il libro contiene alcuni sconvolgenti racconti anonimi di giovani donne, che sono state gradualmente costrette sotto lo hijab da patrigni o da compagne di scuola velate. Insegnanti riferiscono come sempre più dopo le ferie estive trascorse nei loro Paesi d’origine giovani, moderne ragazze facciano sorprendentemente ritorno nelle loro scuole tedesche con il velo e il lungo manto. Da molti questa evoluzione è difesa in nome della libertà religiosa. Il libro ricorda il dibattito sul divieto del foulard per le insegnanti nelle scuole statali, quando Marieluise Beck, Renate Künast, Rita Süssmuth, Barbara John e Sabine Leutheusser-Schnarrenberger si espressero per «molteplicità religiosa in luogo di emancipazione forzata» e conseguentemente anche per il foulard nelle scuole statali.

Alla domanda determinante, se la tolleranza non deve essere intollerante, quando è in discussione il diritto a vivere la propria vita, Alice Schwarzer e le sue coautrici rispondono invece in modo chiaro: le donne non possono tollerare che siano ridotti i diritti delle donne. Un diritto elementare è da parte dello Stato la parità di trattamento dei sessi, che per noi sarebbe impossibile poter rendere oggetto di scambi interculturali. Chi crede alla naturale subordinazione e impurità della femmina potrebbe continuare a crederlo, ma a casa sua. Alice Schwarzer ritiene a ragione non ancora sufficiente il divieto del foulard per le insegnanti: anche le allieve non dovrebbero portarlo durante le lezioni. Infatti esso non soltanto contraddice il principio di uguaglianza, ma apre un dibattito sulla relativizzazione, nel quale immediatamente vengono posti in discussione anche le lezioni di educazione fisica, di nuoto collettivo, le gite scolastiche, le lezioni di biologia e di storia, nella prospettiva della «molteplicità culturale». E perché mai, se il hijab e il manto lungo fino ai piedi già arricchiscono culturalmente il quotidiano scolastico tedesco, lo stesso non vale per il burka? E se per il burka, perché non anche per le manette, il guinzaglio per cani o la cintura di castità?

Nella questione del burka Alice Schwarzer sta totalmente al fianco del presidente francese: nei Paesi che si fanno garanti dei diritti delle donne il burka non ha posto da trovare, è un capo di vestiario barbaro e sprezzante del genere umano. È impressionante quante voci ella cita da Paesi musulmani nei quali donne e ragazze rifiutano il burka con pericolo per la propria vita e sono frustate, torturate e colpite a morte per aver rifiutato la velatura. Innanzitutto si comprende che è falso disgiungere la questione del burka e del hijab dal contesto culturale dei loro Stati di origine, nei quali per un foulard scivolato via o avvolto negligentemente si getta acido cloridrico sul viso e dove ragazze che si azzardano ad andare a scuola rischiano di essere vittime di attacchi con gas tossici (proprio quest’anno è avvenuto l’undicesimo attacco col gas contro una scuola femminile in Afghanistan). Il velo non è un segno della moda, ma un avamposto della violenza planetaria contro le donne. La coppia di coniugi scrittori Nicholas D. Kristof e Sheryl WuDunn riferisce, nel suo libro appena pubblicato Die Hälfte des Himmels.
Wie Frauen weltweit für eine bessere Zukunft kämpfen [La metà del cielo. Come le donne in tutto il mondo lottano per un futuro migliore] (Beck Verlag), della sua sconvolgente dimensione: soltanto negli ultimi 50 anni sono state uccise nel mondo più ragazze, solo perché erano ragazze, del numero totale di tutti gli uomini che sono morti negli scontri bellici del 20° secolo. E nel Terzo mondo per le donne fra i 15 e i 45 anni la probabilità di essere colpite fino a diventare storpie o bastonate a morte è più elevata del rischio di morire per una malattia, per la guerra o un incidente. Tanto per dire  la molteplicità culturale.

La filosofa francese Elisabeth Badinter definisce il conflitto fra i difensori e gli oppositori del foulard  come un dissidio fra sostenitori di un diritto alla differenziazione e quelli di un diritto alla parità. Su questo tema non si possono difendere le due posizioni contemporaneamente. Se difendo la libertà di portare il hijab a scuola, ledo il diritto all’uguaglianza. Nella terra della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità [ndt.: si intende la Francia] ci si è decisi a favore della parità e contro foulard e burka. L’argomento contrario – non potrebbe esserci alcuna esenzione sostitutiva – dimentica noi stessi. Anche a prezzo d’intolleranza l’idea dell’impurità e della mancanza di dignità delle donne prive di velo non sarebbe un argomento in base al quale nelle scuole tedesche le nostre figlie dovrebbero porsi le une contro le altre.

Nel libro di Alice Schwarzer sono sollevate molte importanti richieste: notai tedeschi non si piegherebbero più a lungo al diritto islamico e per esempio non accetterebbero testamenti con svantaggi per le donne, casse di assicurazione per malattie non riconoscerebbero matrimoni poligamici, giudici tedeschi avrebbero minore comprensione per le violenze commesse da mariti musulmani e via dicendo. In questo contesto la richiesta di un divieto di indossare il hijab per le allieve di scuole tedesche è la più significativa.

Alice Schwarzer: Die große Verschleierung - Für Integration, gegen Islamismus; Kiepenheuer & Witsch, Köln 2010; 272 S., 9,95 € 



Mercoledì 08 Giugno,2011 Ore: 12:33
 
 
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