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www.ildialogo.org Fra nazionalismo e islamismo<br>Ritorno al futuro nel mondo arabo,di Hicham Ben Abdallah El Alaoui

Le Monde Diplomatique, agosto 2009
Fra nazionalismo e islamismo
Ritorno al futuro nel mondo arabo

di Hicham Ben Abdallah El Alaoui

(traduzione dal francese di José F. Padova)


L'articolo qui tradotto è apparso su Le Monde Diplomatique nell'agosto del 2009; Chi avrà avuto la pazienza di leggerlo potrà valutare la lungimiranza dell'Autore, che scrive un anno e mezzo prima che inizino sulla sponda meridionale del Mediterraneo gli eventi cui ora assistiamo, e la nostra colpevole e profonda ignoranza sulla storia, il pensiero, i costumi, le aspirazioni di popoli che vivono a qualche centinaio di chilometri da noi (si pensi soltanto all'influenza del dominio ottomano, esercitato per secoli nel mondo arabo, dalla Siria all'Algeria, sul quale esistono opere fondamentali, mai tradotte in italiano - quella del Mantran è in libreria da poco più di un anno, quanti nostri "politici" l'avranno letta?). Vivere di pregiudizi fa male alla salute, eppure miopi e astuti personaggi stendono da anni cortine fumogene su questi mondi, diffondendo con i loro media una sorta di rifiuto di sapere. Che cosa significa per noi il termine "arabo"? Chi sono gli arabi? Che altro c'è fra noi e loro, oltre al petrolio? Spero di poter far seguire a questo altri testi stranieri, come piccolo contributo per riempire il vuoto culturale sul quale galleggiamo. (J.F.Padova)

Hicham Ben Abdallah El Alaoui è ricercatore associato presso il Freeman Spogli Institute for International Studies, Università di Stanford (California). Fondatore dell’Institut d'études contemporaines sur l'Afrique du Nord, le Moyen-Orient et l'Asie centrale presso l’Università di Princeton (Stati Uniti).


Dalla fine della Seconda guerra mondiale, due ondate successive hanno sommerso il mondo arabo, quella del nazionalismo e quella dell’islamismo. Al di là delle loro divergenze, queste due correnti si abbeverano alle medesime fonti: il desiderio d’indipendenza, il rifiuto delle ingerenze straniere, l’aspirazione a uno sviluppo più giusto ed equo. Questi obiettivi non sono stati raggiunti. L’emergenza di una terza forza permetterà di uscire dal vicolo cieco?

 

Nel mondo arabo, lo shock economico globale si coniuga con una crisi di legittimità, latente da decenni. Analizzata attraverso la lente del colonialismo, questa crisi ha resistito a ogni tentativo di soluzione, messa in atto sia da protagonisti ben intenzionati, sia da dirigenti brutali. L’assenza di legittimità si è tradotta in un insieme di disparità, si potrebbe dire di vere e proprie voragini, fra governanti e governati, fra laici e fondamentalisti religiosi, fra popolazioni povere ed elite. In un’atmosfera di marasma economico questa crisi potrebbe facilmente sboccare in una serie di esplosioni imprevedibili e pericolose.

 

Per tentare di evitarle è necessario riapprendere qualcuna delle lezioni della nostra storia. Abbiamo conosciuto numerosi episodi di eroismo, di unione e di buona riuscita sotto la bandiera del «nazionalismo arabo», un termine che ha definito – e anche stimolato – numerosi movimenti e protagonisti che hanno trasformato la regione. Mettere fine al colonialismo non era impegno da poco ed è proprio il nazionalismo arabo che ha vinto questa battaglia e contribuito a tessere i legami fra gli Stati che nascevano, in quello che sarebbe stato chiamato il «terzo mondo».

 

Questo movimento non aveva nulla di perfetto: come altre correnti riformatrici, esso è deviato dalla sua traiettoria e ha subito una quantità di alterazioni. Ma ha ugualmente procurato una prospettiva unitaria a popoli in lotta per l’autodeterminazione, un avvenire promettente al di là degli interessi individuali, confessionali e nazionali, un progetto che li ha mobilitati in un’azione collettiva. Questa visione unitaria, perfino universalista, questo progetto portatore di speranza manca, in modo crudele, proprio quando le sue componenti impregnano ancora il nostro immaginario, come testimonia la permanenza delle manifestazioni a sostegno della causa palestinese – lo si è potuto constatare durante il conflitto del dicembre ’08- gennaio ’09 nella striscia di Gaza. Malgrado gli sforzi sostenuti dei governi occidentali – e le loro pressioni sui Paesi «amici» nella regione – per aggravare le spaccature fra le popolazioni, le diverse comunità – religiosi e laici, sunniti e sciiti, arabi e «persiani», dal Maghreb al Golfo – ricostituiscono costantemente la loro unità, manifestando un indefettibile sostegno ai palestinesi.

 

Questa aspirazione unitaria si traduce anche, paradossalmente, nel sostegno a diverse forme di fondamentalismi, di correnti quietistiche e pietiste, dall’Islam al salafismo [ndt.: vedi http://cronologia.leonardo.it/salaf.htm] radicale. Simili correnti spaventano tanto l’Occidente quanto gli arabi di orientamento laico, ma interpretano la ricerca di significato e il desiderio di vedere rinascere una comunità unificata. Se la pia umma (comunità dei credenti) nell’immaginario politico ha sostituito la grande nazione araba, se non si può più ignorare che l’islamismo ha ripreso dalle mani del nazionalismo arabo il vessillo della resistenza, non ci si deve sorprendere: non soltanto perché quest’ultimo ha subito seri rovesci, ma anche perché nel corso della storia la fede musulmana è sempre stata pregnante nelle nostre società. E le due tendenze restano inestricabilmente legate, in modo complementare o, al contrario, conflittuale.

 

Una profezia del fondatore del Baath 
[ndt.: Baas (o Baath) Partito politico di origine siriana da cui sono derivate due differenti formazioni salite al potere in Siria e in Iraq. La rivalità fra il Baas siriano e quello iracheno è un motivo ricorrente nel panorama politico mediorientale e ha avuto il suo culmine nella Guerra del Golfo, quando i due partiti ex fratelli si sono trovati schierati sui fronti opposti. Fondato a Damasco negli anni ‘40, il Baas assume il suo completo profilo nel 1953, dopo la fusione con il Partito Socialista Arabo. Il suo nome completo è: Partito Socialista della Resurrezione Araba.] 

Al suo apogeo, il nazionalismo arabo aspirava a essere un supernazionalismo. La lotta per liberarsi dal colonialismo (wataniya) doveva maturare e sfociare in una solidarietà sovranazionale fra popoli arabi(qawmiya), che permetterebbe di affrontare problemi come quelli della Palestina o della subordinazione economica nei confronti dell’Occidente. Il nazionalismo arabo ha seguito una traiettoria erratica. Il culmine fu raggiunto nel 1956, quando l’Egitto, con il sostegno degli Stati Uniti e dell’URSS, respinge il tentativo anglo-franco-israeliano di riconquista del Canale di Suez, conosce un netto ripiegamento dopo la Guerra dei Sei giorni del giugno 1967 e si risolleva nel 1973, con la guerra arabo-israeliana dell’ottobre e l’embargo sul petrolio.

 

In definitiva, i diversi movimenti di liberazione ripiegarono su un progetto puramente nazionale, in un solo Paese. Si fossilizzarono in Stati diretti da un partito unico o da un «leader a vita». Tuttavia, malgrado le lotte feroci fra governi arabi per assicurarsi un’egemonia regionale, a livello popolare persisteva l’aspirazione a una comunità araba transnazionale, marcata da un patrimonio islamico comune.

 

L’islamismo politico in espansione ha dovuto accettare e assimilare le posizioni e le lezioni del suo cugino germano, nazionalista e laico. Se lo Hezbollah sciita ottiene successi in Libano, è fra l’altro perché esso trascende le appartenenze confessionali e appare come il fervente difensore dell’indipendenza nazionale. Storicamente, il nazionalismo arabo e i movimenti islamici condividono un certo numero di principi: la ricerca di una coscienza collettiva unificata, il desiderio di rinascita della lingua e della cultura arabe e, dopo la Seconda guerra mondiale, l’antimperialismo.

 

Negli anni ’20 in Marocco gli insorti del Rif, diretti dall’emiro Abdelkrim Al-Khattabi, condussero una campagna islamico-nazionalista, utilizzando la sharia come un’arma ideologica contro il colonialismo. Nel 1952, in Egitto, gli «ufficiali liberi» diretti da Gamal Abdel Nasser presero il potere con l’appoggio dei Fratelli musulmani. In Algeria il Fronte di liberazione nazionale (FNL) non esitò a ricorrere a termini come jihad e mujaid quando si rivolgeva alle popolazioni rurali. Si potrebbe anche dire che, in occasione della guerra del 1973, si forgiò un’alleanza fra il nazionalismo arabo rappresentato dall’Egitto e le monarchie islamiche conservatrici, dirette dall’Arabia saudita, per imporre un embargo petrolifero.

 

Da parte sua, il partito Baath fece frequente uso del concetto di umma per evocare la nazione araba. Il suo fondatore, Michel Aflak, un militante nazionalista laico, aveva compreso che «il legame fra l’Islam e l’arabismo non è simile a quello di un’altra religione con un altro nazionalismo». Questa predizione continuava: «Verrà un giorno in cui i nazionalisti si troveranno a essere i soli difensori dell’Islam. Occorrerà loro liberarne il suo significato particolare, se vorranno che la nazione araba abbia ancora buone ragioni per sopravvivere (1)».

 

La profezia di Aflak si è avverata, ma in senso inverso: sono gli islamici che sono diventati gli unici difensori del nazionalismo. Ormai è banale notare come l’islamismo ne ha integrato i temi, per presentarsi come la corrente di opposizione al dominio occidentale e di affermazione dell’indipendenza culturale e nazionale.

 

Ironia vuole che, per decenni, l’Occidente e i governi arabi reazionari abbiano amplificato e sfruttato le divergenze fra nazionalismo e islamismo, lusingando e promuovendo le correnti islamiche conservatrici. La storia dei rapporti fra l’islamismo e il «dominio occidentale» è quindi ben lungi dall’essere «pura» e lineare. Che si tratti dei Fratelli musulmani in Egitto, utilizzati dai servizi segreti inglesi contro Nasser, dei loro successori in Palestina, Hamas, sostenuto in passato da Israele come contrappeso all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), o degli «arabi afgani» che combatterono per gli Stati Uniti contro il «comunismo ateo», gli islamici hanno ripetutamente accettato di essere sovvenzionati da, e di allearsi con, poteri stranieri che cercavano d’imporre la loro egemonia nella regione.

 

La vittoria in Afghanistan e la ritirata delle truppe sovietiche da quel Paese costituiscono l’apogeo di un Ersatz [ndt.: ted. rimpiazzo, surrogato] del nazionalismo panarabo diventato panislamico. Gli islamici possono invocare la forza dell’ispirazione religiosa di fronte alla debolezza del nazionalismo tradizionale, ma è loro difficile presentare questo successo come un modello. Non hanno forse tratto ugualmente profitto da un’alleanza con l’Occidente? Come prova, ecco la testimonianza di un ex agente della CIA durante la Guerra fredda sul «piccolo sporco segreto» di Washington: «…All’epoca i “Fratelli [musulmani]” erano un alleato silenzioso, un’arma segreta contro – chi altro? – il comunismo». Pensavamo: «Se Allah accetta di battersi dalla nostra parte è un bene (2)». Il contrario era vero per gli islamici: «Se l’America accetta di battersi dalla nostra parte è un bene». In realtà, lo «sporco piccolo segreto» tanto degli islamici quanto dei nazionalisti laici è che, in politica, nessuno è «puro» e nemmeno al riparo dall’inganno opportunista della complicità con le potenze straniere.

 

Dobbiamo dimenticare questa danza macabra delle reciproche accuse, perché essa finisce sempre per ritorcersi contro di noi e contro l’Occidente. Essa ha corrotto ed eroso la legittimità dei grandi movimenti nazionalisti in Algeria ed Egitto, trasformato l’Islam in dottrina della divisione, scavando il fossato fra laici e islamici e fra la nostra regione e il resto del mondo. Ha anche alimentato un discorso e una pratica del fanatismo armato che si sono rivolte, come una creatura di Frankenstein, contro l’Occidente.

 

L’ultima metamorfosi di questa strategia consiste nel trasformare le vecchie dispute teologiche e sociali fra sunniti e sciiti in una frattura geopolitica fra il mondo arabo e l’Iran. Questa manovra, sostenuta da Israele e dall’America dei neoconservatori per servire ai loro interessi a breve termine, non manca di cinismo, quando si sa che questi due Paesi hanno talvolta sostenuto Teheran contro il nazionalismo arabo. Negli anni ’60 e ’70 l’Iran era la sola potenza regionale che aveva il loro appoggio. La rivoluzione islamica del 1979 ne ha fatto una «bestia nera». Eppure, è proprio l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 che ha distrutto il bastione più potente del nazionalismo arabo e rafforzato nello stesso tempo la posizione dell’Iran nella regione.

 

La tensione fra sunniti e sciiti e fra arabi e «persiani» - esacerbata da queste manovre – non è un’invenzione occidentale. Essa affonda le sue radici in una storia antica che risale alle prime conquiste dell’Islam. In una parte dell’immaginario arabo si nasconde una voglia di ricreare un nazionalismo sunnita – un salafismo dottrinario arabo che unisce la purezza islamica e il nazionalismo arabo contro uno sciismo eretico e una Persia espansionista. Questa pericolosa inclinazione trova la sua espressione peggiore nelle violenze confessionali perpetrate in Iraq e in Asia centrale da diverse organizzazioni che si richiamano ad Al Quaeda.

 

Questa strategia dell’Occidente e dei governi arabi reazionari è incoerente. Essa si oppone all’Iran, uno dei rari Stati che hanno approfittato dell’intervento americano in Iraq nel 2003, che ha contribuito a stabilizzare quel paese e che potrebbe contribuire a riportare la pace in Afghanistan. Essa cerca di fare passare Hamas – emanazione della confraternita sunnita dei Fratelli musulmani – per una creazione cripto-sciita di Teheran! Una volta di più essa spinge certe forze a Washington e i loro alleati israeliani e arabi a giocare col fuoco e a utilizzare gruppi armati sunniti jihadisti in Libano e in Iraq.

 

Il conflitto fra sunniti e sciiti distruggerà il panislamismo altrettanto sicuramente come la focalizzazione su interessi strettamente nazionali ha distrutto il panarabismo. Sembrerebbe che questa strategia sia stata contrastata da numerosi regimi e altrettanto dalle popolazioni. Quali che siano le loro inquietudini, gli Stati arabi hanno insistito perché il problema nucleare iraniano sia regolato nel suo contesto regionale e perché le armi atomiche israeliane siano esse pure poste sul tavolo dei negoziati. Da molti anni, dall’Atlantico al Golfo Persico e attraverso tutto lo spettro confessionale, le popolazioni arabe hanno manifestato il loro sostegno a Hezbollah e ad Hamas – non perché sono sciite o sunnite, ma perché resistono alle aggressioni israeliane: sciiti appoggiano Ismail Haniyeh, il dirigente di Hamas, e sunniti sventolano fotografie di Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah.

 

In simili momenti noi misuriamo la potenza dell’aspirazione a un’unità panaraba e panislamica, capace di garantire dignità, giustizia e indipendenza autentiche. Se respingiamo l’idea che i movimenti islamici porterebbero al compimento di questa promessa nazionalista – sovente essi l’hanno alterata e orientata su una direzione pericolosa – dobbiamo accettare il fatto che l’abbiano impregnata di un forte spirito di resistenza e di energia collettiva e che facendosi intermediari di questo sentimento popolare siano stati posti fuori gioco. Le nuove correnti di resistenza, tanto spesso dirette da islamici, contribuiscono, forse loro malgrado, a risuscitare il nazionalismo arabo.

 

Oltre il nazionalismo postcoloniale tradizionale, fossilizzato nei vecchi regimi autoritari, e le forme di resistenza quasi nazionalista che si esprimono nei movimenti islamici; vi è un altro tipo di nazionalismo arabo transnazionale – laico, ma che si richiama all’identità araba e islamica ed è fiero della mescolanza con le culture e le lingue del mondo. Questa forma di consapevolezza, che segna l’immaginario di una parte importante della nostra gioventù, si riflette nei nuovi mezzi di comunicazione internazionali (Al Jazeera, Internet, Facebook, ecc.), nei circuiti che legano le diaspore ai loro Paesi d’origine e nelle forme profane della cultura e della lingua che mettono a disposizione. Perfino il tipo di discorso è cambiato: non ci si riferisce più semplicemente ai diritti dei palestinesi o degli arabi, ma ai principi del diritto internazionale e quindi di un certo universalismo, come si è potuto constatare in occasione delle manifestazioni di solidarietà per Gaza.

 

Questo «terzo nazionalismo» nascente non mantiene alcun legame con governi e regimi. Non possiede alcun programma politico, benché si riferisca a una coscienza panaraba e panislamica: condanna l’autoritarismo locale e la corruzione e aspira all’instaurazione della democrazia e di uno Stato di diritto, rifiutando fermamente qualsiasi intervento militare straniero. Difende fieramente l’identità araba e islamica ed esalta un modernismo intellettuale e la diversità culturale. Solidale con la lotta per l’indipendenza e la giustizia nel mondo arabo-musulmano, in particolare con la resistenza palestinese, è consapevole dei successi e dei fallimenti dei movimenti politici arabi e occidentali. Quindi fine del nazionalismo di papà e di quello degli imam?

 

È troppo presto per dirlo, perché questo «terzo nazionalismo» manca ancora d’efficacia. È alla ricerca di una coerenza politica e di forme d’organizzazione e la sua voce fatica a farsi sentire nel frastuono fra il politichese dello Stato e le preci islamiche. Tanto più che i popoli della regione hanno subìto talmente tanti rovesci – dalla disfatta del 1967 all’occupazione dell’Iraq nel 2003 e al recente tentativo di esacerbare l’opposizione fra sunniti e sciiti – da aver interiorizzato un sentimento d’impotenza.

 

Questo vicolo cieco, nelle nostre società [arabe], porta a un divorzio «all’italiana» fra tre formazioni: lo Sato e i suoi clientes, le forze laiche e progressiste e le correnti islamiche; non ci si parla, ma si coabita. L’attuale crisi economica tuttavia introduce un nuovo elemento – più destabilizzante ma portatore d’inediti sviluppi. Di fronte a un grave deterioramento delle realtà sociali, gli islamici non hanno alcun programma economico efficiente da proporre, fatta eccezione per la sharia, programma che può rivelarsi attraente se contribuisce a ridurre la criminalità e la corruzione e a imporre l’ordine e la sicurezza in un contesto difficile. Nondimeno, il concetto islamico di giustizia sociale ha origine nelle opere caritative e non nella politica – si tratta di alleggerire il fardello dei poveri mediante l’elemosina piuttosto che ridurre la povertà imponendo cambiamenti strutturali. I movimenti islamici sono  essi stessi una causa di esercizio della carità per i ricchi conservatori, che preferiscono denunciare l’empietà dei Paesi arabi laici piuttosto che raccogliere la sfida delle ingiustizie inerenti alle strutture stesse della proprietà privata. Essi tendono a percepire le opposizioni sociali come una fitna (3), [ndt: vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Fitna ], causa di discordia e di caos presso i musulmani.

 

I Fratelli musulmani di fronte al movimento sociale

Così, quando decine di migliaia di contadini egiziani si sono mobilitati contro lo smantellamento della riforma agraria cui Nasser aveva dato impulso e contro il ritorno delle loro terre ai grandi proprietari, i Fratelli musulmani si schierarono per la politica statale delle privatizzazioni (4). Allo stesso modo sono militanti progressisti indipendenti che nella primavera del 2008 scatenano gli scioperi e le manifestazioni operaie nel delta del Nilo (5).

 

Le lotte per gli aumenti dei salari e il rispetto delle disposizioni internazionali relative ai diritti della persona hanno raccolto una innegabile approvazione popolare, obbligando i Fratelli musulmani ad accordare loro un ambivalente sostegno: non soltanto essi non erano all’origine di questi movimenti, ma le rivendicazioni erano molto distanti dal loro programma. Azioni identiche – rivolte della fame, manifestazioni per i salari a Gafsa (Tunisia) e a Sidi Ifni (Marocco) – furono condotte da forze di sinistra, con gli islamisti fuori gioco.

 

Questi ultimi sembrano tanto meno inclini a lanciarsi in questo tipo di movimenti quanto meno sanno come dirigerli e sfugge loro il discorso e i temi di queste mobilitazioni. Eppure esse sono sempre più necessarie e aprono alle forze progressiste inedite possibilità di fare avanzare le loro idee sulla giustizia e i diritti sociali (6). Occorre tuttavia diffidare di un ottimismo ingannevole, perché queste mobilitazioni sono rare, localizzate e isolate. Perfino quando i problemi sollevati esigono soluzioni a livello nazionale o regionale, i manifestanti spesso ignorano ciò che accade a qualche centinaio di chilometri da casa loro.

 

I regimi usano tutti i mezzi per impedire a questi movimenti di unirsi fra loro e di allearsi agli islamici. Oltre a una severa repressione, riprendono certi temi dei religiosi, come l’apologia dell’identità culturale e nazionale, e pretendono di difendere valori specificatamente arabi o musulmani condannando i discorsi sui diritti umani e sociali, presentati come intrusioni dell’Occidente. Questo atteggiamento contribuisce a perpetuare la divisione fra islamici e progressisti e a precipitare questi ultimi in una «trappola identitaria».

 

L’esempio della condizione delle donne è il più rivelatore. Se il principio del lavoro femminile è largamente acquisito, restano non minori resistenze su tutto ciò che può derivare dal corpo della donna e dal suo ruolo nella famiglia. Difendendo i diritti della donna i progressisti sono stretti in una morsa fra un discorso islamico moralista e un discorso nazionalista sull’onore. Essi devono sempre difendersi dalle accuse di capitolazione culturale, mentre il mantenimento delle strutture autoritarie – siano esse statali o religiose – è presentato come una resistenza culturale all’occidentalizzazione. Questa politica identitaria essenzialista costituisce un tema ricorrente nella nostra regione, e nello stesso tempo è una vera e propria tragedia.

 

In Pakistan i talebani hanno adottato con entusiasmo la nozione di conflitto di classe – con fitna o senza. Nella valle dello Swat hanno sostenuto la riforma agraria: alcuni ricchi proprietari dell’elite semifeudale pakistana, utilizzati all’inizio come contribuenti conservatori, sono stati sommariamente spossessati delle loro terre e costretti a lasciare il Paese. Questa strategia ha permesso ai talebani, come spiega un rappresentante ufficiale pakistano, di «promettere più che di proibire la musica o la scolarizzazione… essi promettono anche la giustizia islamica, un governo efficiente e una redistribuzione economica (7)». Il messaggio indirizzato ai progressisti laici e ai regimi «moderati» è chiaro: se voi non vi occupate seriamente e immediatamente dei ricorrenti problemi della corruzione, della povertà e della disuguaglianza, vi troverete di gran lunga dietro gli islamici, i quali, da parte loro, lo fanno.

 

Nessuno può quindi ignorare le divergenze fra progressisti e islamici. Entrambi possono desiderare sinceramente l’instaurazione della «democrazia», ma oltre un certo punto avranno probabilmente visioni radicalmente differenti circa il modo in cui occorre creare e conservare uno Stato democratico di diritto. I progressisti vogliono instaurare la sovranità della volontà popolare – delimitata dal diritto e basata su criteri giuridici e politici riconosciuti dalla comunità delle nazioni. Gli islamici, da parte loro, vogliono instaurare la sovranità assoluta di una particolare ideologia religiosa, che si appoggia su una specifica interpretazione dei testi sacri – anche se al loro interno si può percepire un dibattito interno e se i Fratelli musulmani giordani o il Partito della giustizia e dello sviluppo in Marocco aderiscono progressivamente all’idea di sovranità popolare.

 

Tuttavia esistono, in particolare nel contesto della crisi economica globale, possibilità di reali alleanze, allo stesso tempo vantaggiose per le due correnti e positive per i popoli della regione. Sul piano locale, saranno organizzati scioperi e manifestazioni per contestare la disoccupazione, la penuria di alimenti e di risorse e l’aumento dei prezzi. La popolazione avrà esigenze di trasparenza, chiederà conto ai suoi dirigenti e pretenderà una lotta determinata contro la corruzione. Sul piano regionale e internazionale continueranno a svilupparsi movimenti a sostegno della Palestina, contro l’intervento di forze straniere, per un ordine economico equo, per l’applicazione del diritto internazionale.

 

Suffragio universale e diritti della persona

I principi che permetteranno un’azione unita ed efficace si avvicineranno a quelli che hanno animato i nostri movimenti nazionalisti storici: la passione per l’indipendenza nazionale e regionale, un impegno nella cooperazione regionale, una piena partecipazione agli affari internazionali, la visione di un governo che difenda la libertà politica e uno Stato di diritto per tutti, una piattaforma mirante a migliorare la vita economica e sociale delle nostre popolazioni – e uno sforzo per rispondere alle aspirazioni di tutti i gruppi etnici e confessionali. A questo fine i progressisti devono vincere la battaglia per la leadership e l’autorevolezza e dimostrare che la costruzione della democrazia e il rispetto dei diritti umani sono strumenti necessari ed efficaci per mettere in pratica tutti questi principi.

 

Abbiamo potuto valutare, durante l’invasione israeliana di Gaza, come questi strumenti abbiano contribuito a rafforzare la causa palestinese. Hamas è credibile perché combatte la corruzione e resiste con costanza all’aggressione israeliana, ma anche perché è stato legittimato dal suffragio universale. Per contro, Israele è sulla difensiva nel campo dei diritti della persona, delle norme giuridiche, politiche ed etiche riconosciute su piano internazionale. Le sue azioni illegali minacciano di rimettere in discussione l’impunità che da decenni la «comunità internazionale» gli concede. Con le informazioni, le analisi e le conoscenze storiche disponibili nell’era di Al-Jazeera, di Internet e del militantismo globale – senza parlare degli storici d’Israele, i quali lavorano con una libertà alla quale noi dovremmo ispirarci – sono sempre più numerose le persone che comprendono come ciò che hanno visto a Gaza nel 2008-2009 era una piccola parte di quello che non avevano potuto vedere in Palestina nel 1947-1948.

 

Paradossalmente le sfide più grandi poste ai nazionalisti – come gli interventi stranieri in Iraq o Libano – hanno creato spazi di mobilitazione, unione, pluralismo e democrazia che noi dobbiamo mettere a frutto. Una simile utopia ha i suoi precedenti: vi è stata una successione apparentemente interminabile di conflitti sanguinosi, di carattere sia religioso che nazionale, perché l’Europa avviasse un processo di unificazione, senza peraltro rinunciare all’indipendenza nazionale e alle diversità culturali dei suoi popoli.

 

(1)  « A la mémoire du Prophète arabe », conferenza tenuta a Damasco il 1. aprile 1943, Albaath.online.fr.

 

(2)  Brendan O'Neill, « Today's “islamic fascists” were yesterday's friends », par Brendan O'Neill, Globalresearch.ca, 31 août 2006.

 

(3)  In arabo questo termine significa « divisione », « sedizione ».

 

(4)  Leggere Beshir Sakr et Phanjof Tarcir, « La lutte toujours recommencée des paysans égyptiens », Le Monde diplomatique, octobre 2007.

 

(5)  Leggere Joel Beinin, « L'Egypte des ventres vides », Le Monde diplomatique, mai 2008.

 

(6)  Cf. The Arabic Network for Human Rights Information, « Egypt : Woman detained for promoting general strike on Facebook », Le Caire, 24 avril 2008 ; et Laura Kasinof, « Egyptians use Facebook to deter censorship », Middle East Times, 29 avril 2008.

 

(7)  Jane Perlez et Pir Zubair Shah, « Taliban exploit class rifts in Pakistan », The New York Times, 17 avril 2009.

 

 

 



Venerdì 13 Maggio,2011 Ore: 13:00
 
 
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