- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (237) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Speranze e insidie delle rivolte arabe,di Salam Kawakibi Et Bassma Kodmani

Le Monde Diplomatique, marzo 2011, pag. 11
Speranze e insidie delle rivolte arabe

di Salam Kawakibi Et Bassma Kodmani

(traduzione dal francese di José F. Padova)


L'articolo de Le Monde Diplomatique allegato si occupa del ruolo che hanno le forze armate nei Paesi arabi attualmente scossi dai movimenti di rivolta. La situazione si evolve ogni giorno, specialmente in Libia, dove l'esercito si è addirittura scisso fra le due fazioni in guerra. (J.F.Padova)

Nel Curdistan iracheno, come nel resto del Paese, sono stati duramente repressi manifestanti che esigevano più democrazia. Nel Bahrein un teso faccia a faccia oppone la popolazione al re. Dallo Yemen all’Algeria, dal Marocco alla Giordania, si reclamano più diritti democratici, più giustizia sociale.

La fuga del presidente Ben Ali, le dimissioni di Mubarak hanno accelerato le mobilitazioni nella regione, senza mettere fine ai movimenti in corso nei due Paesi. In Tunisia coabitano la paura del caos e le attese sociali. In Egitto gli operai cercano d’imporre le loro rivendicazioni e il loro diritto di organizzarsi, mentre i Fratelli musulmani si pronunciano per transizione nell’ordine.

In Libia le tribù continuano a svolgere un ruolo cruciale. Altrove gli eserciti, pilastri essenziali degli Stati da molti decenni, prendono il sopravvento sugli apparati della sicurezza ed esitano fra il popolo e gli autocrati.

Gli eserciti, il popolo e gli autocrati

Di Salam Kawakibi Et Bassma Kodmani, rispettivamente Direttore della ricerca e Direttrice esecutiva presso l’Arab Reform Initiative (traduzione dal francese di José F. Padova)

Nel mondo arabo per più di quarant’anni il termine “esercito” ha fatto rima con “colpo di Stato”, situazione d’emergenza, segreto e sorveglianza. L’esercito era all’origine dei sistemi politici o loro garante di ultima istanza, ma era anche diventato discreto. Adesso ha assunto a più riprese il ruolo di protettore della popolazione e salvatore dello Stato. In Tunisia e in Egitto pur rappresentando una componente dell’apparato della sicurezza, l’ultima risorsa del potere, lo si è visto dissociarsi dalle forze di polizia, riconoscere come legittime le rivendicazioni dei manifestanti e, alla fine, abbandonare il capo che aveva portato al potere e sotto il comando del quale si riteneva operasse. Che cosa è accaduto, nel corso di questi decenni, perché le società arrivassero a compiacersi per l’intervento dei militari e perfino a reclamarlo, come si è potuto osservare in Tunisia e poi nel corso della rivoluzione egiziana che ha spazzato via il regime di Mubarak?

Conoscendo il peso storico dell’esercito nella costruzione dello Stato-nazione dall’indipendenza in poi, la maggior parte dei dirigenti arabi, che ne provenissero o no, hanno rapidamente compreso il pericolo che esso poteva rappresentare e tutti hanno cominciato a emarginarlo e a neutralizzarlo, in particolare accordandogli considerevoli privilegi economici. In Egitto gli Stati Uniti hanno finanziato in gran parte questa politica, attribuendo sussidi considerevoli ai generali. Questi hanno beneficiato di autorizzazioni ad aprire centri commerciali, città nel deserto, centri balneari, e sono stati ammessi in seno ai club di elite riservati all’aristocrazia cairota. Essi occupano tutti i posti di governatore in tutto il Paese, dirigono le grandi imprese pubbliche e i gabinetti di molti ministeri.

In parallelo, i capi di Stato hanno sviluppato un complesso sistema di apparati di sicurezza, diretti da ufficiali di alto rango, che si sono trovati coinvolti in una logica nuova: la loro missione di protettori dello Stato si trasformava in quella di protettori del regime. Questo slittamento si osserva dappertutto, ma ha avuto impulso soprattutto da parte di dirigenti essi stessi usciti dai ranghi delle forze armate.

I servizi di sicurezza assicurano le funzioni di informazione e di mantenimento dell’ordine e controllano nel quotidiano le attività dei cittadini. La loro moltiplicazione è la regola; secondo la stringente logica dell’affidabilità si sorvegliano l’un l’altro. In Egitto i loro effettivi si sono gonfiati fino a raggiungere quasi il triplo di quelli delle forze armate (1.400.000, contro cinquecentomila militari).  Sono rari gli esempi in cui i due corpi si fondono in un unico organismo solidale, come in Algeria.

Concepite come il braccio coercitivo di un regime, queste agenzie della sicurezza diventano i gestori diretti dell’organismo politico. Pongono loro stesse come interlocutori imprescindibili della popolazione – operai in sciopero, disoccupati o manifestanti che rivendicano alloggi o il diritto alla terra che essi coltivano. Gestiscono anche i rapporti fra le comunità di credenti e fissano i limiti alla libertà d’espressione.

La loro penetrazione in tutte le istituzioni è antica, ma la gestione diretta della vita pubblica da parte dei servizi segreti (mukhabarat) ha avuto un incremento senza precedenti nel corso dell’ultimo decennio. Le agenzie operano ormai alla luce del sole e i discorsi dei loro capi manifestano un raggelante senso di onnipotenza. «Qui tutto è sicurezza», ci dichiarava (1) un alto funzionario del ministero dell’Interno egiziano, «tutto dipende dalla nostra responsabilità, dagli uccelli nel deserto del Sinai agli elementi di Al-Quaeda che vi scorrazzano, passando per le moschee del Cairo e di Alessandria». Fino al controllo dei cervelli: in Arabia Saudita, nel contesto della lotta contro il jihiadismo, il ministero dell’Interno ha sviluppato il concetto di “sicurezza intellettuale”.

I dirigenti politici possono quindi dormire tranquilli: gli uomini della sicurezza si occupano di tutto – sempre più sicurezza che porta con sé sempre meno politica. Il termine di “sicurocrazia”, mutuato dal politologo sudanese Haydar Ibrahim, caratterizza bene questi regimi (2). Le insurrezioni nella regione rivelano, un Paese dopo l’altro, lo stato di decadenza delle istituzioni politiche. Sono in gran parte Stati obiettivamente in fallimento quelli che le forze armate sono portate a salvare.

Le caratteristiche dei sistemi di sicurezza del mondo arabo non differiscono da ciò che l’America latina, l’Europa dell’est o del sud hanno conosciuto prima della loro transizione democratica: ruolo di scudo fra lo Stato e la società, funzionamento a circuito chiuso di apparati che variano per dimensione e complessità, ma la cui cultura dell’impunità e il modo di funzionamento rimangono i medesimi e incoraggiano una logica inesorabile di terrore. Se queste formidabili macchine di sorveglianza hanno come compito primario quello di alimentare la paura e d’impedire lo sviluppo di rapporti fra cittadini, la paura vi domina a tutti i livelli, tanto più forte quanto più la gerarchia è mutevole, in funzione della rivalità fra clan.

Le estese insurrezioni che sono scoppiate all’inizio dell’anno dal Maghreb al Machrek [ndt.: in arabo, ponente e levante] hanno avuto l’effetto di rompere il circuito chiuso entro il quale operano gli apparati del potere. La popolazione, fattore a sorpresa, agisce come rivelatore delle divergenze e come catalizzatore delle rivalità e mette le strutture del potere di fronte a un dilemma: sparare o no sui manifestanti.

Quando la macchina della sicurezza si sregola, il malfunzionamento si estende agli altri pilastri del potere: il partito dirigente, l’oligarchia degli affari e, certamente, le forze armate. L’irruzione del popolo ha come effetto quello di separare le istituzioni che servono il regime da quelle che si pongono come servitori dello Stato, al primo posto l’esercito. Tenuto lontano dal compito del mantenimento dell’ordine, può svolgere il ruolo di garante della transizione. Numerosi ponti esistono fra esso e l’apparato di sicurezza. Il legame è più spesso assicurato dai capi dei servizi d’informazione militari, il generale Omar Souleiman in Egitto o il generale Mohamed Medien in Algeria, che per questo occupano la funzione più importante del sistema politico.

Conviene distinguere fra gli effettivi contributi prestati dagli eserciti tunisino ed egiziano alla realizzazione delle rivolte. Come la maggior parte dei dirigenti arabi passati dalla caserma al palazzo presidenziale, Zine El-Abidine Ben Ali temeva le ambizioni degli uomini in cachi. Dal suo avvento al potere nel 1987 l’esercito aveva subiti una riduzione degli effettivi e dei mezzi, e anche il siluramento di molti suoi capi. L’ affaire, non chiarito, dell’incidente di elicottero che nel 2002 causò la morte del generale Abdelaziz Skik e di molti alti ufficiali ha accentuato i sospetti che dominano i rapporti fra il Palazzo di Cartagine e l’esercito (3). Per lungo tempo ai margini delle decisioni politiche, perfino durante gli anni di Burghiba (1957-1987), l’esercito non è stato coinvolto nella vita economica del Paese e quindi non partecipava alla corruzione diffusa nel regime.

I militari egiziani, al contrario, sono al potere dalla Rivoluzione degli Ufficiali liberi in poi, avvenuta nel 1952. Il colonnello Gamal Abdel Nasser, morto con 85 lire egiziane come patrimonio, era il sostenitore di un ambizioso progetto di sviluppo sociale ed economico per il suo Paese e per tutto il mondo arabo. La sua ideologia nazionalista aveva sedotto il popolo, che gli ha perdonato i suoi fallimenti in materia di gestione politica e i suoi attacchi sistematici alla libertà d’espressione. Il suo successore, Anwar El Sadat, uscito anch’egli dall’esercito e cantore del liberalismo economico a beneficio di una nuova borghesia parassitaria, avevaper contro introdotto la cultura della corruzione, assicurandosi la lealtà dell’esercito, cui aveva concesso privilegi economici al fine di emarginarlo, dopo avergli rubato la sua vittoria nella guerra d’ottobre 1973 contro Israele firmando gli accordi di Camp David.

Nel corso degli ultimi dieci anni, il risentimento dei militari contro Mubarak si è accresciuto. L’esercito gli rimproverava il suo rifiuto di nominare un vice-presidente, cosa che creava una pericolosa incertezza per l’avvenire del Paese, e la sua ostinazione nel promuovere come suo successore il figlio Gamal (4) – un personaggio al quale l’esercito non riconosceva alcuna legittimità e la cui ascesa l’avrebbe privato del ruolo di «creatore dei re». Infine, il presidente suscitava malcontento per aver permesso a una piccola cerchia di uomini d’affari gravitanti intorno al suo delfino di accaparrarsi ricchezze sempre più ingenti.

Nei giorni che precedettero la caduta del regime sono venute in superficie molte divergenze: occorre sostenere Mubarak o forzarlo alle dimissioni? Il consenso per la seconda opzione si rafforza, ma l’esercito sembra esitare ad assumere direttamente la responsabilità delle dimissioni presidenziali. Le dichiarazioni americane, prudenti e talvolta contraddittorie, cercavano di preservare fino alla fine la stabilità del sistema, anche se si fosse dovuto passare attraverso l’uscita di scena di Mubarak. Le ultime 24 ore, fra il 10 e l’11 febbraio, hanno permesso all’esercito di lasciare alle manifestazioni di ampliarsi interamente, facilitando l’accesso ai diversi edifici simboli del potere (Parlamento e Palazzo presidenziale), in modo da farle apparire come la causa principale della caduta del regime. Da allora in poi, le forze armate si sono riappropriate del loro ruolo di «creatrici dei re», questa volta però come rifondatrici dell’ordine politico, impegnandosi alla costruzione di un sistema democratico. Il loro intervento era invocato, perché giudicato necessario per proteggere il processo di trasformazione interna delle interferenze regionali e straniere (Israele, Stati Uniti, Paesi arabi e poi anche l’Iran).

La grande diversità sta nella natura dell’intervento militare: in Tunisia l’esercito ha agito per proteggere il popolo, ha costretto Ben Ali alla partenza, con l’approvazione dell’«amico» americano. L’esercito egiziano, da parte sua, si è imposto fin dall’inizio degli avvenimenti per riempire il vuoto di sicurezza per le strade. In seguito è rimasto neutrale quando le milizie di Mubarak hanno aggredito i manifestanti sulla piazza Tahrir. È vero che non ha sparato sulla folla, ma non ha neppure impedito agli altri di farlo. In definitiva, ha preso la decisione di rompere con un regime agonizzante e preservare il sistema.

In Algeria il ruolo politico dello Stato maggiore si definisce sotto la presidenza di Huari Bumedien (1965-1978), con la comparsa della Sicurezza militare. È quest’ultima la «creatrice del re». A ogni scadenza politica essa interviene per rendere perenne un ordine che si è rivelato considerevolmente stabile, se si esclude il fallimento del 1991, dalle catastrofiche conseguenze. È proprio l’esercito che ha fatto eleggere Abdelaziz Buteflika nel 1999. i primi segni di divergenze fra l’esercito e i servizi segreti compaiono nel 2004, quando questi ultimi organizzano, contro il parere del capo di Stato maggiore Mohamed Laman, la rielezione di Buteflika. «Il 2004 consacra la definitiva autonomia dei servizi e la loro supremazia sull’esercito (5)», scrive Mustafà Mohamed.

(1) A l'occasion d'une rencontre politique organisée en mars 2008 par l'Arab Reform Initiative (ARI), avec la participation des membres de la sécurité et de la société civile.

(2) Haydar Ibrahim, «Al amnocratiya fil Sudan», dans un ouvrage collectif sur les «sécuritocraties» en arabe et en anglais, ARI, Amman, à paraître en novembre 2011.

(3) Une nouvelle enquête sera ouverte, d'après Al-Sabah, Tunis, 22 janvier 2011.

(4) Cf. Virginie Collombier, «Egypt : before and after>, Arab Reform Brief n° 44, février 2011, www.arab-reform.net

(5) Mustapha Mohamed, «Etat, sécurité et réforme en Algérie », dans l'ouvrage collectif sur les «sécuritocraties», op.cit.

(6) Stéphane Boisai-d, Annelle Anders et Geneviève Verdo, «L'Amérique latine des régimes militaires», Vingtième Siècle, n° 105, Paris, janvier-mars 2010.



Mercoledì 09 Marzo,2011 Ore: 14:14
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Stampa estera

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info