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www.ildialogo.org Conferenza ONU 2010 sul clima a Cancún,Da Cancún riferisce Christoph Seidler

Der Spiegel, 6 dicembre 2010
Conferenza ONU 2010 sul clima a Cancún

I politici si scontrano sul blocco del disboscamento della foresta vergine


Da Cancún riferisce Christoph Seidler

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)


Quando sarà terminato l'attuale, immondo, mercimonio parlamentare (vi comprendo il ritardo di un mese della sentenza sul legittimo impedimento, opera del nuovo presidente della Corte Costituzionale - un mese in più d'impunità per B.? ma ce n'era bisogno?), ci si occuperà infine dei problemi del popolo vero, quello che soffre, per ora, in silenzio? E magari anche di quelli dell'ambiente, uno dei quali, vitale, è la conservazione delle foreste. Come riferisce Der Spiegel da Cancùn, Messico. J.F.Padova


http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,733008,00.html06.12.2010

La scomparsa delle foreste è la causa, seconda per importanza, della produzione di CO2 – come si inducono i Pesi più poveri a preservare le loro foreste vergini? A Cancún  i politici cercano febbrilmente incentivi finanziari. Sembra possibile un accordo sulla tutela. Tuttavia molte questioni essenziali sono ancora controverse.

Chi si avvicina al luogo del convegno del vertice ONU sul clima globale, a Cancún  (Messico meridionale), lo vede prima che l’aereo atterri: il verde splende fino all’orizzonte sulla penisola messicana dello Yucatan. Un’escursione rivela in seguito la varietà della vita che lo abita: pipistrelli cacciano sotto le chiome degli alberi, uccelli cinguettano fra i rami, gli insetti ronzano e stridono. Foreste cresciute naturalmente come questa sono, in particolare, anche importanti immagazzinamenti  di carbonio, che è legato alle biomasse e quindi non si diffonde nell’atmosfera sotto forma di biossido di carbonio.

Anche se in generale le aspettative da questo vertice climatico sono piuttosto basse, il convegno potrebbe portare a importanti decisioni per la protezione di questi territori di grande valore. I diplomatici “climatici”, nel loro linguaggio impregnato di abbreviazioni, chiamano REDD ("Reducing Emissions from Deforestation and Degradation") la strategia mirata alla conservazione delle foreste. In linea di principio si tratta di pagare i Paesi più poveri perché lascino intatti i loro territori boschivi, almeno quelli ancora esistenti. Tuttavia essi devono anche poterlo dimostrare senza possibilità di dubbio, per esempio con fotografie satellitari.

Già da anni si discute di un simile new deal delle foreste, che abbraccia anche misure di conservazione della natura. Potrebbero approfittarne molti Stati, per esempio il Brasile, l’Indonesia o la Repubblica Democratica del Congo. Prima del vertice di Copenhagen un accordo pareva già pronto per la firma, ma nella capitale danese il caos nelle sale dove si conducevano i negoziati impedì una conclusione. Per lo meno nel documento finale del vertice, non vincolante, l’ “Accordo di Copenhagen”, si fece menzione del REDD. Adesso i colloqui a Cancún  dovrebbero portare avanti fino al passo decisivo.

Questo è senz’altro fortemente necessario: la deforestazione, secondo le stime ONU, è responsabile di circa il 18% della produzione mondiale di gas serra. In Paesi come il Brasile il disboscamento procura ancor sempre la stragrande quantità di emissioni – anche se negli ultimi tempi vi è stato in Amazzonia un trend positivo. A livello mondiale il calo delle foreste a vantaggio del settore energetico è la causa seconda per importanza di emissioni di CO2.

Parte di un programma di protezione climatica a lungo termine
“Ci prenderemo cura delle nostre foreste”, ha promesso domenica scorsa il presidente del Messico Felipe Calderón al “Forest Day” svoltosi a
Cancún, una manifestazione parallela al vertice sul clima. Il REDD dovrebbe diventare parte di un programma internazionale a lungo termine per la protezione del clima. Le chance a questo riguardo non sono in ogni caso cattive – anche se nella bozza, discussa in queste ore, per il documento finale del vertice solamente 170 delle 1.300 parole complessive non sono controverse.

Per quanto riguarda le foreste vi sono tre elementi di testo utilizzabili per i negoziati ulteriori. “Vi sono stati buoni passi avanti. Ci si trova chiaramente molto meglio che a Copenhagen”, così descrive Louis Verschot del Center for International Forestry Research (CIFOR) la situazione dei colloqui all’inviato di Spiegel Online. “Forse è disponibile un testo sul quale si può trovare l’accordo”.

Christiana Figueres, direttrice del Segretariato ONU per il clima, già venerdì si era espressa in termini di ottimismo. Il lavoro sul REDD sarebbe “molto progredito”. Si sarebbe “raggiunto un compromesso” e ora si attenderebbe che anche negli altri settori delle trattative sul clima qualcosa si muova. L’obiettivo sarebbe quindi un “pacchetto bilanciato”. Figueres, non lo si deve dimenticare, è pagata anche per diffondere un certo ottimismo.

Infatti, come sempre, nei negoziati si trovano punti controversi. Così per esempio non è chiaro se vi sono pagamenti compensativi soltanto per la tutela delle foreste originarie, ciò che molti difensori dell’ambiente pretendono. Altrimenti, nei peggiori dei casi, potrebbero ricevere danaro Stati che abbattono foreste pluviali e le sostituiscono con piantagioni di palme per la produzione di olio. Il problema: i boschi “ripiantati” hanno una capacità di accumulazione del carbonio molto peggiore – per non parlare delle emissioni che si liberano quando si distruggono le foreste pluviali.

E poi arriva la questione di come sono tutelati i diritti degli abitanti tradizionali dei territori forestali. In futuro si dovrà sempre chiedere agli interessati il permesso quando occorre modificare la gestione della foresta? O sarà sufficiente – per dirla in parole semplici – informarli brevemente? “Una consultazione non basta”, richiede Pablo Favias, vicepresidente della Ford Foundation, parlando con Der Spiegel. “Abbiamo bisogno di un modello per il consenso”. Il modo di vivere delle popolazioni indigene è tanto strettamente intrecciato con la foresta che in nessuna circostanza si dovrebbero prendere decisioni passando sulla loro testa:

Finanziamenti non ancora chiariti
Paesi come la Bolivia si impegnano perché il consenso dei gruppi di popolazioni indigene diventi vincolante. L’Arabia Saudita si oppone a questo con veemenza. Gli osservatori presumono che in questo modo i sauditi vogliano strappare concessioni in altri settori dei negoziati sul clima. Per esempio, il Paese del petrolio preme perché lo stoccaggio sotterraneo del CO2, la cosiddetta tecnologia CCS [ndt.: Carbon capture and storage” cattura e stoccaggio della Co2, in grado di produrre energia e immagazzinare le proprie emissioni dopo averle compresse rispetto al volume originario, in appositi cilindri da stoccare sotto la superficie terrestre all’interno di rocce porose.], sia inclusa nel sistema internazionale del trattamento delle emissioni.

Se in questo sistema vengono integrate anche le foreste vergini, ciò potrebbe portare denaro per la preservazione del patrimonio boschivo. Tuttavia è controverso come questo dovrebbe essere finanziato. Occorrono molti miliardi e per periodi molto lunghi. A breve termine sono disponibili sufficienti risorse finanziarie. Il merito va a un gruppo di Stati che a Copenhagen si sono dichiarati disposti al pagamento di 4,5 miliardi di dollari in totale, per esempio Norvegia, Giappone, Francia e Stati Uniti.

Ma come dovrebbe essere procurato il denaro necessario a lungo termine? L’inclusione delle foreste nei sistemi di gestione delle emissioni già esistenti, basati sul Protocollo di Kyoto in vigore fino al 2012, sarebbe una variante relativamente semplice. Questo significherebbe che le aziende potrebbero ottenere il diritto all’inquinamento dell’atmosfera con gas serra pagando, per esempio, per la conservazione di un territorio coperto dalla foresta pluviale in Amazzonia.

Paesi come gli Stati Uniti e l’Australia vedrebbero ciò con favore, ma i difensori dell’ambiente mettono in guardia contro un modello di questo genere: “Alcuni Paesi vogliono introdurre sul mercato del carbonio progetti a favore delle foreste, non già per proteggere i boschi, ma perché questi garantiscono certificati sull’emissione di CO2 a prezzo più basso”, dice il direttore della Politica climatica di Greenpeace, Martin Kaiser. Semplicemente, lasciare in piedi una foresta è di gran lunga più economico che convertire un impianto industriale che lavora inquinando. Necessarie invece sono entrambe le cose.

La Bolivia nelle trattative ha fatto forti pressioni perché la conservazione delle foreste non venga decisamente inserita nei sistemi di gestione delle emissioni. Una delle tre bozze di testo attuali contiene perciò un chiaro rifiuto di questo principio. In molti casi i pagamenti di sostegno dovrebbero pervenire direttamente dagli Stati più ricchi - per gli Stati beneficiari questo sarebbe anche pratico, poiché il denaro arriverebbe anche se non ci fosse alcuna proroga al Protocollo di Kyoto.

Le prossime giornate indicheranno se i delegati sono in grado di trovare un accordo su questi punti. Si nutrono speranze che si giunga a un’intesa sulla preservazione delle foreste, dice Frances Seymour, direttrice del Center for International Forestry Research. Nel peggiore dei casi si dovrebbe andare avanti anche senza questo: “Da tempo impegni e iniziative volontari hanno sviluppato una loro propria dinamica”. Un “risultato imperfetto” sarebbe sempre meglio dell’inerzia.



1 - Produzione di carbone di legna da alberi caduti (nello Stato brasiliano
del Parà, 2008): in questo Stato sudamericano il disboscamento è responsabile
per la stragrande quantità di emissioni di gas serra.



2 – Rischio a causa dei campi di soia (nello Stato brasiliano del
Mato Grosso, 2008): anche se negli anni passati vi fu un trend positivo,
la deforestazione è come sempre un problema imponente.



3 – Legname confiscato (nello Stato brasiliano del Parà, 2008):
le foreste pluviali dell’Amazzonia costituiscono sulla Terra il più
grande territorio coperto da foreste senza soluzioni di continuità.



4 – Minaccia di incendi (nello Stato brasiliano del Parà, 2008):
prima del vertice sul clima a Copenhagen un accordo su un nuovo regime
per le foreste passava come già quasi firmato. Eppure non vi fu la stipulazione.



5 – Esemplare: questa zona forestale nel nordovest dello Stato brasiliano
di Rondonia fa presagire il destino della foresta pluviale. Il territorio
(qui nell’anno 2000) è sorvegliato dall’alto, in modo
mirato, come l’intero bacino amazzonico, fra l’altro dal satellite “Terra”
della NASA. Con il tempo …



6 - … la superficie verde della foresta sulle fotografie satellitari (qui
nell’anno 2002) diminuisce sempre più. Al suo posto
vi sono chiazze chiare, sempre più vistose, senza alberi. Anche le …



7 - … zone color verde chiaro annunciano la morte della foresta pluviale.
In suo luogo vi sono ora spesso campi coltivati e pascoli (qui nel 2004),
soltanto sporadicamente …



8 - se ne è fatto il rimboschimento. Colpisce vistosamente come
la deforestazione sia più veloce soprattutto delle strade, che
comparativamente sono realizzate bene (qui nel 2006).



9 – Il governo brasiliano è orgoglioso del proprio sistema satellitare
di sorveglianza per la difesa degli alberi. Si chiama “Deter” (da:DETERrente)
e dovrebbe far sì che la foresta pluviale non venga meno (qui siamo nel 2008).



10 – E proprio questo fa il sistema di osservazione, con successo, secondo
il parere delle autorità. Eppure la deforestazione non è stata per
nulla fermata (qui nel 2010).

 



Domenica 12 Dicembre,2010 Ore: 07:27
 
 
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