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www.ildialogo.org Il Brasile, potenza agricola o ambientale?,Di Federico Labanti (etnologo) e Nieves López Izquierdo (architetto e geografa)

Le Monde Diplomatique, 4 novembre 2010 (blog)
Il Brasile, potenza agricola o ambientale?

Di Federico Labanti (etnologo) e Nieves López Izquierdo (architetto e geografa)

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Il Brasile, uno dei Bric (mania di creare sigle!), è un Paese la cui immensità, potenzialità economica, ma anche fragilità ambientale il resto del Pianeta non potrà ignorare o sottovalutare. L'articolo di Monde Diplomatique ne illustra la problematica ecologico-sociale. (JFPadova)

http://blog.mondediplo.net/ 

Il Paese della «megadiversità»

Il Brasile, potenza economica emergente, è diventato uno dei maggiori esportatori  mondiali di materie prime agricole e di prodotti derivanti dall’allevamento di bestiame. Da una ventina d’anni i livelli di produzione sono estremamente elevati. Allo stesso tempo si è anche imposta la consapevolezza del valore – economico, fra l’altro – del patrimonio naturale di questo Paese dalle dimensioni continentali, soprattutto per quanto riguarda i beni comuni «strategici», come l’acqua dolce, la foresta e la biodiversità.

L’importanza della ricchezza socio-ambientale del Brasile è nota: è il primo dei Paesi «megadiversi» del pianeta e contiene dal 10% al 20% circa del biotopo (1) mondiale.  I suoi ecosistemi sono unici: il Brasile raccoglie il 28% delle foreste primarie del globo, un terzo delle foreste tropicali e più del 20% del flusso superficiale di acqua dolce. L’Amazzonia riveste quindi un ruolo

Le interazioni fra l’uomo e il territorio tuttavia hanno dato luogo a dei record molto meno lusinghieri: tassi molto elevati di disuguaglianza sociale, di povertà rurale e urbana, innumerevoli crimini legati alla proprietà della terra, migliaia di lavoratori ridotti in schiavitù e devastazioni ambientali connesse alla deforestazione.  Lo sviluppo economico caotico e la fragilità strutturale concretizzata fino alla fine degli anni ’90 da un debito estero abissale e da tassi d’inflazione astronomici hanno handicappato questo gigante sudamericano dal potenziale poderoso.

Le misure adottate dai due governi Lula (2002-2010) hanno portato a notevoli risultati economici nazionali e internazionali: annullamento del debito estero, inflazione finalmente sotto controllo, forti tassi di crescita e accesso allargato ai mercati mondiali. Le ragioni di questo «miracolo economico» si spiegano con l’esplosione a livello mondiale dei prezzi dei prodotti d’esportazione (soia e carne bovina), la comparsa di nuovi mercati, in particolare quello della Cina (che ha superato gli Stati Uniti per le importazioni dal Brasile nel 2009), ma anche quello degli agro-carburanti e dei servizi ambientali. Grazie a queste condizioni particolari e a un ridotto indebitamento pubblico e privato il Brasile ha resistito piuttosto bene alla crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2008.

Assassinare per appropriarsi della terra

Assassinare per appropriarsi della terra

Cartographie : Ph. Re.

La storia del Brasile è stata sempre segnata da cicli economici strettamente legati allo sfruttamento del suolo e delle risorse naturali.  L’agricoltura e l’allevamento sono il cuore dell’economia brasiliana fin dall’epoca coloniale. Oggi più che mai il Paese si presenta sui mercati internazionali innanzitutto come una superpotenza del settore agroindustriale (un terzo del suo PIL, 40% delle esportazioni e il 30% dei posti di lavoro) (3). Zucchero, etanolo, tabacco, soia, miglio, manioca, agrumi, caffè, cacao, fagioli e carne bovina sono alcuni dei prodotti per i quali il Brasile si pone fra i primi esportatori mondiali.

Durante gli anni ’70 la Rivoluzione verde segna un’accelerazione nel degrado degli spazi naturali, fino ad allora poco antropizzati (4). L’assegnazione di aiuti di Stato e la speculazione fondiaria sono le principali dinamiche che hanno permesso l’avanzata della frontiera agricola a spese della foresta. L’occupazione di nuove terre è il risultato di una politica di colonizzazione specifica, che privilegia un modello di sviluppo e d’integrazione della regione amazzonica, fondato su importanti investimenti nelle infrastrutture e su incentivi fiscali per la conversione di grandi zone di cerrado (5) e di foresta in pascoli e colture. La penetrazione verso l’interno del Paese di tecniche agricole «industriali», inadatte a questa fragile regione tropicale, è uno dei fattori più importanti della distruzione dell’ambiente naturale.

Lo sviluppo delle esportazioni di prodotti agricoli

Lo sviluppo delle esportazioni di prodotti agricoli

Cartographie : Nieves López Izquierdo

Negli anni di recessione, 1980 e 1990, la riduzione degli investimenti pubblici è stata largamente compensata dalla forte crescita del business agricolo, dell’allevamento, dell’industria del legno e dalla speculazione sui terreni pubblici. Le nuove tecniche hanno permesso di aumentare i rendimenti di certi prodotti, come le oleifere, e poiché il Paese diventava molto competitivo anche a livello internazionale, ciò ha incoraggiato il dissodamento e l’occupazione di nuovi spazi.

Gli investimenti nella regione amazzonica riprendono verso la fine degli anni ’90 con programmi come Brasil em Acção (1996-2002) e, qualche anno più tardi, con il grande piano governativo di sviluppo delle infrastrutture Avança Brasil (2000-2003). Queste gigantesche campagne d’investimenti sono state molto criticate, per le loro conseguenze potenzialmente devastanti sull’ambiente, specialmente sugli gli spazi che si trovano nelle vicinanze di nuove strade. Queste rendono possibile lo sfruttamento del legno in nuove zone di foresta, e accelerano il processo di conversione delle terre in pascoli e campi coltivati (6).

Amazzonia divorata dal Sud

L’Amazzonia divorata dal Sud

Cartographie : Ph. Re.

Oggi le forze che in Amazzonia influenzano il processo di deforestazione sono complesse e più o meno legate fra loro: meccanismi di corruzione, investimenti pubblici nelle infrastrutture, espansione delle piccole aziende agricole in seguito all’applicazione della riforma agraria (7), spostamento di capitali

Immense superfici deforestate

Immense superfici deforestate

Cartographie : Ph. Re. 
Sources : IPGA, IBGE.

Fronti pionieri

La svolta economica operata sotto i governi Lula è stata accompagnata da altri programmi vigorosi, come il Plano Brasil para Todos (Piano pluriennale 2004-2007) e il recente PAC (Programma per l’accelerazione della crescita 2007-2010), che hanno sostenuto il rilancio dell’economia attraverso una serie d’investimenti, fra l’altro nel campo delle infrastrutture, allo scopo d’integrare settori della popolazione e zone marginali del Paese nell’economia nazionale e internazionale. Gli effetti sono stati certamente positivi, ma queste iniziative hanno anche riprodotto un modello d’ «integrazione» (come si diceva già negli anni ’60) fondato sulla logica quantitativa «più infrastrutture = più sviluppo = più ambiente»; alla fine dei conti queste hanno avuto poca ricaduta sulle popolazioni locali e purtroppo impatti ambientali negativi.

L’Amazzonia, regione storicamente marginale per l’economia brasiliana, da una quindicina d’anni è la frontiera economica «dove bisogna investire», in gran parte grazie all’esplosione delle esportazioni e al rinnovo degli accordi politico-economici

Secondo l’ONG Conservation International, in uno studio pubblicato nel 2007 (9), questo visionario programma, che ha per obiettivo di creare la base logistica che permetta di fare dell’America meridionale una comunità di nazioni, è stato pensato senza tenere conto delle inevitabili conseguenze ambientali e sociali che avrà nelle zone ecologicamente sensibili del continente (foresta amazzonica, cerrado, ecosistemi andini, ecc.). Le sole misure ambientali considerate concernono ogni progetto in modo individuale, senza che si tenga presente l’impatto generale di tutti gli investimenti, e neppure i loro effetti a lungo termine.

La colonizzazione della foresta troverebbe nuovi assi d’espansione intorno alle grandi vie di comunicazione previste, che renderebbero le zone arretrate dell’interno attrattive per il crescente mercato delle esportazioni. Si tratta di un meccanismo che ha sempre prodotto il medesimo risultato: l’intensificazione della deforestazione. Dal punto di vista sociale, la volontà di ridurre la marginalità delle comunità rurali più isolate e di creare nuove opportunità economiche è del tutto lodevole. Un obiettivo che, sulla carta, è difficilmente contestabile, viste le condizioni per l’accesso ai servizi in certe zone del Paese.

La storia ci insegna tuttavia che i grandi cantieri e l’ingresso precipitoso nella macchina tritatutto dei mercati mondiali, in assenza di solidi sistemi di controllo, ledono sempre le popolazioni autoctone e le comunità locali (10). «Inoltre, fa notare Magnolia Said, presidente dell’ONG Esplar, al di là di ciò che è stato detto, questo programma non è stato fatto per ravvicinare i Paesi e i loro popoli, ma per convertire e integrare territori scelti per la massiccia presenza di risorse strategiche».

Si tratta dello stesso genere di logica che nel passato ha portato all’iniqua concentrazione di enormi masse di capitali e all’impoverimento della popolazione rurale. La progressione della frontiera agricola in Amazzonia è un processo dinamico, vorace ed eterogeneo. Essa si manifesta attraverso azioni che molto spesso rimangono nell’ombra dell’immensità territoriale e delle difficoltà operative che incontrano i diversi organismi di controllo, coperta com’è da ampie filiere di corruzione e dalla violenza più sbrigativa. È poco probabile che le difficoltà logistiche incontrate nella gestione di un fenomeno tanto complesso si risolvano con la liberalizzazione selvaggia del mercato e la realizzazione di grandi cantieri senza le necessarie precauzioni.

Le pratiche messe in opera per l’occupazione della regione amazzonica tendono ad alimentare una economia locale sul modello del «boom – crollo» (11): un boom economico seguito a breve termine da una rapida produzione di capitale e indicatori economici in forte crescita (PIL e occupazione) finché le risorse economiche lo permettono, poi la situazione si degrada… In assenza di azioni correttive si può arrivare al crollo quando il degrado e lo sfruttamento inadeguato portano all’impoverimento di una zona. Che si tratti di cambiamento del regime climatico regionale, di desertificazione,di precarizzazione e di polluzione delle risorse idriche, di perdita della biodiversità o d’impoverimento dei terreni, il degrado ambientale ha conseguenze gravi innanzitutto per ciò che dipende direttamente dalle risorse naturali, in primo luogo le popolazioni tradizionali e i piccoli agricoltori.

Al contrario, esse sono molto meno gravi per i grandi protagonisti economici e per coloro che operano ai margini della legalità, con una disponibilità di capitali e di possibilità di movimento ampiamente preponderanti. La massimizzazione dei rendimenti, che il settore dell’agro-business ricerca, passa paradossalmente attraverso la minimizzazione delle ricchezze disponibili in natura.

Ecosistemi formatisi in milioni di anni sono così trasformati in pascoli male sfruttati o in monocolture inadatte a terreni che esse impoveriscono troppo rapidamente e che per questo richiedono un utilizzo crescente di input, aggravando ancor più il degrado ambientale.

L’emergere del «valore» ambientale

Ormai molti sostengono che la soluzione più ragionevole alla lotta che oppone sviluppo cieco e limitazione dei suoi disastrosi effetti si trova nel paradigma dello sviluppo durevole (o sostenibile). Nel dibattito politico di questi ultimi anni la figura di Marina Silva, ministro dell’Ambiente nei due governi Lula e candidata alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2010, si è inserita fortemente, evocando la necessità che tutte le politiche statali – e non solamente quelle che riguardano l’ambiente – siano integrate sotto il segno di una «durevolezza trasversale». Il problema che si pone, insomma, non è quello di scegliere fra costruire o non costruire, occupare o non occupare, coltivare o fare dell’Amazzonia una grande riserva, ma piuttosto come farlo: minimizzando gli impatti ambientali (specificamente nelle zone più sensibili), correggendo gli errori del passato ed eliminando i modelli produttivi inefficienti (come l’abbandono delle zone degradate o l’allevamento estensivo), integrando le popolazioni locali nella riabilitazione ambientale e nella distribuzione delle ricchezze, adottando sistemi di controllo trasparenti e validi sul lungo periodo, ecc. Tutto ciò che l’Istituto Socio-ambientale riassumeva in questo slogan: «Lo sviluppo, si: non importa come, no!».

Fatta astrazione dalle situazioni limite, dove criminalità e corruzione controllano il territorio, è chiaro che non si è ancora trovata una sintesi operativa che coniughi sviluppo e salvaguardia e che sia positiva in entrambi i casi. Persiste l’idea secondo la quale la protezione dell’ambiente rappresenti per forza un freno allo sviluppo e che sia necessario stabilire priorità: per i “ruralisti” soltanto dopo lo sviluppo (agricolo tradizionale) si può prendere in considerazione la preservazione (di ciò che resta).

Per gli ambientalisti al contrario non può esservi sviluppo (durevole) senza preservazione (produttiva). Questo può sembrare una semplificazione esagerata, e in realtà il dibattito è più complesso, ma molto sovente è proprio in questi termini che sono prese le decisioni politiche e commerciali e che sono organizzate le campagne elettorali o di protesta. I settori che in questo senso presentano maggiori problematiche sono, come si è visto, i progetti legati all’energia e alle infrastrutture, e più in particolare la costruzione di centrali idroelettriche e di reti per la comunicazione, uno degli obiettivi principali del PAC. Il complesso idroelettrico del Rio Madeira, le PCI (piccole centrali idroelettriche) previste sui principali affluenti dell’Alto Rio Xingu, il canale Araguaia-Tocantins e l’enorme bacino della diga di Belo Monte sul Rio Xingu, il terzo al mondo in termini di capacità, sono qualche esempio dei progetti più controversi.

Oltre all’impatto di ogni cantiere, che resta gestibile in fase di pianificazione e di realizzazione, sono gli effetti accumulati di tutti questi progetti sui territori circostanti che causano i principali problemi di controllo. Qui vi è la contraddizione peculiare all’avanzata del «fronte agricolo», sempre combattuto fra le pressioni dell’industria agro-estrattiva, i limiti della legge in materia socio-ambientale, la necessità di fornire a tutti i brasiliani i servizi di base e le forme d’illegalità diffusa, che si concentrano precisamente là dove si sviluppa l’occupazione «cieca» di nuove terre. A questo si aggiungono le enormi difficoltà logistiche cui si urtano quotidianamente gli organismi destinati al controllo delle terre o all’attribuzione di licenze ambientali, come l’Ibama (12), resi inefficaci dalla cronica mancanza di risorse.

L’albero che nasconde la foresta

In questo contesto la situazione dell’Amazzonia, benché sia cruciale e occupi una superficie gigantesca, non basta per rendere conto del deficit ambientale del quinto Paese del mondo per superficie. In termini di preservazione gli altri biomi si trovano effettivamente tutti in situazioni ben peggiori di quelle dell’Amazzonia, specialmente a causa dell’espansione delle zone urbane, del’allevamento bovino e delle grandi monocolture come la soia e la canna da zucchero. Se la foresta amazzonica è ancora in piedi per circa l’80% della sua superficie, il cerrado, bioma molto meno conosciuto, mentre si tratta sotto l’aspetto biologico del tipo di savana più ricco in tutto il pianeta e del luogo d’origine di tre dei più grandi bacini idrografici del Paese, ha già perduto una parte della sua vegetazione originaria. Per una sorta di pregiudizio ecologico, finora la sorveglianza satellitare sistematica della copertura forestale è stata limitata alla sola regione amazzonica. Nell’aprile 2009 il ministro dell’Ambiente, Carlos Minc, lanciava il Progetto di sorveglianza sulla deforestazione dei biomi brasiliani, per compensare finalmente questo strano disinteresse verso ecosistemi che, d’altra parte, sono estremamente importanti per l’Amazzonia stessa.

I cerrado devastati

I «cerrado» devastati

Cartographie : Ni. Ló. Iz.

Le stima circa la conversione del cerrado in terreni agricoli (Ferreira e altri, 2007) variano, a causa delle difficoltà tecniche incontrate nella sorveglianza (presenza prolungata di nubi, difficoltà nel distinguere i differenti ecosistemi del bioma e altri problemi metodologici) e per il momento ci si accorda sulla perdita dal 40% al 55% della coltre vegetale originaria. Questa regione, grande come il Venezuela, è stata colonizzata a partire dagli anni ’70, quando la frontiera agricola cominciava a espandersi, ed è stata occupata dall’allevamento, dalla coltura della soia, del cotone, della canna da zucchero e del carbone vegetale. La saturazione di questi spazi ha portato alla ricerca di nuove terre verso ovest, nel Maranhão, il Tocantins, il Mato Grosso, il Parà, al di là dei limiti della foresta. La zona di transizione fra cerrado e foresta, che si estende dal Maranhão al Rondônia, divenne in seguito tristemente celebre sotto il nome di «arco di deforestazione»; un far-west popolato da grileiros (ndt.: occupatore abusivo, falsificatore di documenti ufficiali), da affaristi, ladri di legname, multinazionali, fazendeiros e piccoli agricoltori, che un anno dopo l’altro alimentano il processo di deforestazione.

Ancor oggi il cerrado è nel cuore della colonizzazione agraria, iniziata quaranta anni fa, e vi sono prodotti circa il 50% della soia del Paese (ovvero il 13% della soia a libello mondiale) e un terzo del bestiame, per non citare che i due valori più importanti. Se il ritmo attuale della deforestazione rimane costante, si prevede la sparizione totale del cerrado nel 2030, ciò che avrebbe conseguenze estremamente gravi per la stessa Amazzonia. Gli altri biomi, caatinga [ndt.: con il sertão è il biotipo savana-steppa diffuso nel Nordest del Brasile], mata atlantica, pampa, pantanal, sono anch’essi minacciati. Tutti – eccetto il pantanal – sono addossati alla costa atlantica, dove è concentrata la quasi totalità della popolazione e dove la colonizzazione agricola, industriale e urbana, lascia la sua impronta sul territorio da molto più tempo ancora.

Lo squilibrio fra la visibilità mondiale della foresta amazzonica e la situazione degli altri ecosistemi molto meno conosciuti si ritrova nella legislazione, negli investimenti per la ricerca e nei programmi di sorveglianza e di difesa del territorio. A partire dagli anni ’80 l’immagine della più grande foresta equatoriale al mondo è stata strettamente associata al problema della sua distruzione (numero dei «campi di calcio» che incendi e bulldozer fanno sparire ogni minuto), lasciando un deserto arido al posto di un paradiso tropicale. Beninteso, questa insistenza, sproporzionata in rapporto allo stato di degrado degli altri biomi, deve molto alla coincidenza fra l’accelerazione della penetrazione agricola verso l’interno del Paese e l’emergenza della deforestazione come cuore del problematico rapporto fra l’uomo e l’ambiente.

Per André Alves, segretario esecutivo del Formad (13), si tratta ugualmente di un problema di percezione: la foresta compatta è semplicemente più facile da «vendere». La sua biodiversità, la sua ricchezza d’acqua dolce e le popolazioni autoctone che vi vivono sono più visibili, più facilmente «utilizzabili» nelle battaglie per l’ambiente, nelle operazioni di «greenwashing» [ndt.: operazione di mascheramento] delle grandi imprese che vogliono finanziare progetti di ricerca di quanto lo siano le medesime ricchezze del cerrado, inteso da molti come una boscaglia inutile fatta di alberi ritorti, o i pochi pezzi rimasti di mata atlantica. Senza nulla togliere alla gravità dei crimini ambientali perpetrati sul suolo amazzonico, vi è qui una grande ingiustizia.

Le contraddizione emergono quando si attraversa il fronte agricolo, perfetta metafora geografica del difficile equilibrio fra sviluppo e preservazione. Da un lato, lo scandalo dei delitti socio-ambientali legati alla distruzione della foresta, dall’altro, il diritto di un Paese a utilizzare le proprie risorse e a gestire autonomamente il proprio territorio per svilupparsi, come è stato fatto in tutti i Paesi del «Primo mondo» durante secoli. Se la rapidità con la quale regioni vergini grandi come Stati europei sono state saccheggiate in meno di vent’anni è effettivamente impressionante, resta ugualmente vero che il solo Brasile contiene quasi un terzo delle foreste primarie mondiali, la cui superficie crescerà nei prossimi decenni. La foresta amazzonica assorbe circa 300 milioni di tonnellate di carbonio ogni anno…

Ciò malgrado, il Brasile occupa un assai poco lusinghiero quarto posto nella classifica mondiale dei Paesi che emettono gas serra (dati del 2005 (14)., benché non si trovi fra i responsabili storici dell’effetto serra e abbia una delle matrici energetiche più pulite al mondo. La causa di questo apparente paradosso si trova nell’Amazzonia stessa, poiché la deforestazione è responsabile del 70% del totale di emissioni del Paese. Per quanto riguarda l’acqua, sia atmosferica che di superficie, si potrebbe richiamare un analogo circolo vizioso: abbondante in tutta l’Amazzonia, base dello sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento in questa regione, la sua disponibilità è tuttavia messa seriamente in pericolo dall’espansione di quelle stesse attività, perché la deforestazione sconvolge il ciclo idrologico.

Altra contraddizione: il Brasile è stato a lungo considerato come un Paese che non esita a sacrificare il suo ambiente sull’altare dello sviluppo economico, quando è stato anche uno degli interlocutori internazionali di primo piano per la discussione sullo stato del pianeta, indispensabile quando si parla della foresta mondiale. Questo Paese ha le risorse che gli permettono di presentarsi come un laboratorio avanzato di ricerca scientifica e di sperimentazione politico-economica per le questioni ambientali (15).

Oggi lo sviluppo dell’agricoltura domina largamente sulla protezione ambientale. La possibilità d’includere in modo strutturale i servizi ambientali (fra i più citati odiernamente si trova la capacità di assorbire il CO2, ma ve ne sono ancor più) nei negoziati commerciali e gli accordi internazionali sarà forse la tappa decisiva perché foreste, savane e zone acquitrinose non siano più considerati come spazi improduttivi da colonizzare senza limiti, ma luoghi unici di produzione dell’insostituibile ricchezza del Paese. Segnali sempre più numerosi mostrano – sia nella società civile che nella politica – che il Brasile oggi è capace di mettere in opera politiche di contenimento della natura predatrice degli speculatori di ogni genere. Ma quando sarà la svolta decisiva?

Rafforzamento dei legami commerciali con l'Asia

Rafforzamento dei legami commerciali con l'Asia

Il netto rafforzamento dei legami con l’Asia

Cartographie : Ni. Ló. Iz.

Esportazioni dal Brasile

Soja, canna da zucchero, carne bovina e… arance !

Cartographie : Ni. Ló. Iz.


Alcuni link su Brasile ed ecologia:

  • Quando il Brasile mette in gioco il «petrolio verde» contro la riforma agraria
  • Nella pampa l'invasione degli eucalipti

    Note

    [1] Il biotopo è l’insieme delle specie vegetali e animali che esistono in una determinata zona.

    [2] Per «società tradizionali» si intendono gruppi di piccoli produttori famigliari, che coltivano la terra e/o praticano attività estrattive come la pesca, la caccia e la raccolta. La loro produzione è destinata alla sussistenza e in generale non comporta particolari danni per l’ambiente. Le popolazioni tradizionali brasiliane sono identificate con nomi che si riferiscono alla loro attività economica principale, alla loro origine etnica o ai luoghi dove vivono: si chiamano seringueiros [estraggono caucciù], ribeirinhos [gente di fiume], babaçueiros [sfruttano la palma babaça], quilombolas [schiavi fuggiti nei villaggi quilombo], caboclos [meticci di infinite sfumature e origini], caiçaras [abitanti del litorale], quebradeiras de coco [lavorano il frutto della palma], ecc.

    [3] AAVV, 2007

    [4] Trasformati dall’uomo.

    [5] Savana tropicale, secondo bioma brasiliano per la sua estensione.

    [6] Nepstad et al., 2000.

    [7] La riforma agraria brasiliana prevede l’intervento dello Stato per l’esproprio di grandi proprietà improduttive e per la ripartizione delle terre che ne consegue, allo scopo di farvi stabilire i piccoli agricoltori.

    [8] Celentano et al., 2007.

    [9] Killen, 2007.

    [10] Killen, 2007.

    [11] Celentano et al., 2007.

    [12] Istituto brasiliano dell'ambiente e delle risorse naturali rinnovabili.

    [13] Forum del Mato Grosso per l'ambiente e lo sviluppo, attivo dal 1992 come principale interlocutore fra i movimenti socio-ambientalisti e il governo dello Stato.

    [14] Dopo la Cina, gli Stati Uniti e l'Unione Europea, nella classifica che include le emissioni causate dal cambiamento d'uso del suolo.

    [15] Duarte, 2003.

     

Lo sviluppo delle infrastrutture

Lo sviluppo delle infrastrutture

Cartographie : Nieves López Izquierdo

conclusi con gli altri Paesi dell’America meridionale. In questo senso numerose critiche sono state formulate contro il vasto programma denominato IIRSA, Iniziativa d’Integrazione dell’infrastruttura Regionale dell’America del sud 2000-2020, ratificato da dodici presidenti americani per migliorare l’articolazione fra le diverse economie, con la realizzazione di progetti nei settori energetici, dei trasporti e delle telecomunicazioni.

privati di grandi imprese nazionali e straniere verso il mercato d’esportazione, «criminalità ambientale» legata al commercio del legno e alla speculazione fondiaria, diffusa impunità dovuta alla lentezza dei procedimenti amministrativi, delle indagini e della macchina giudiziaria (8).

Produzione mondiale di soia e canna sa zucchero

Produzione mondiale di soia e di canna da zucchero

Cartographie : Philippe Rekacewicz

fondamentale per la stabilità ambientale e climatica del pianeta, poiché emette nell’atmosfera 7.000 miliardi di tonnellate d’acqua all’anno e capta quantità enormi di CO2 (circa il 10% del totale assorbito dagli ecosistemi terrestri). A immagine della natura, la società brasiliana è anch’essa «megadiversità», per le sue origini molteplici, la sua cultura e il suo modo di mettersi in rapporto con il territorio e con le sue società tradizionali (2). I popoli autoctoni hanno vissuto per secoli sfruttando le risorse disponibili e utilizzando l’ambiente senza alterarne gli equilibri ecologici fondamentali, tramandandosi le conoscenze e le pratiche che rappresentano ancora oggi uno dei patrimoni più preziosi del Paese.



Lunedě 06 Dicembre,2010 Ore: 15:11
 
 
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