- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (267) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Rifiuto ostinato di un ordine insostenibile,

Le Monde Diplomatique, novembre 2010, pag. 18
Rifiuto ostinato di un ordine insostenibile

"Il lavoro rimane la chiave di volta della società". Riporto questa frase da Le Monde Diplomatique, che con l'articolo "Rifiuto ostinato di un ordine insostenibile" interpreta e spiega l'ondata di ripulsa dei francesi non soltanto per l'aumento dell'età pensionabile (la scintilla incendiaria), ma per il sistema, che una volta di più, dopo la Rivoluzione del 1789, cerca di schiavizzarli legandoli non più alla gleba, al latifondo, ma al boulot, al lavoro. L'idea di classe sembra ormai obsoleta, di fronte alla polverizzazione sociale, appunto della classe, scientemente applicata in ogni dove. Eppure, in Francia, secondo lo studio che riporto, potrebbero aprirsi orizzonti diversi. E forse anche in Italia? (J.F.Padova)

Dipinta dalla classe dirigente come uno sciame di bambini capricciosi, l’ondata contestataria esprime il rifiuto ragionato di un sistema. In Francia dopo il 1995 si manifesta a intervalli regolari. Due anni dopo l’inizio della grande crisi appaiono nella loro nudità gli ingranaggi del regime economico il quale, «riforma» dopo «riforma», distrugge le istituzioni fondate per rendere vivibili le società europee. Affrontando insieme questa regressione, i manifestanti – studenti, salariati e pensionati – hanno conquistato un distacco siderale.
«Metro(politana), lavoro, tomba» [Métro, boulot, tombeau]
Di Danièle Linhart, direttrice di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (CNRS), Cresppa-GTM- université Paris-Ouest-Nanterre-La Défense, autrice in particolare di Travailler sans les autres? [Lavorare senza gli altri ?], Seuil, Paris, 2009.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Le significative mobilitazioni in tutto il Paese, come anche il sostegno del quale beneficiano nell’opinione pubblica, indicano evidentemente una forte opposizione allo spostamento dell’età minima per la pensione da 60 a 62 anni, percepito come illegittimo. Ma la dicono ugualmente lunga sul mondo del lavoro, così com’è vissuto, in massa, dopo la sua «modernizzazione».
Vi traspare la faticosità crescente del lavoro e il sentimento di un degrado ineluttabile. Una gran parte dei salariati dubitano d’avere la forza di sopportare a lungo le sue esigenze. Hanno paura di non reggere sul lungo periodo. Gli slogan che si possono ascoltare nei cortei lo dicono a loro modo: «Morire sul lavoro? Piuttosto crepare [di fame]!», o ancora «Una vita dopo il lavoro!». Inaspettatamente essi rivelano ciò che la fatica quotidiana è diventata per un numero rilevante di francesi. Quando le nuove tecnologie informatiche sono ritenute capaci di alleggerire le fatiche fisiche, quando più dei due terzi dei salariati appartengono al settore terziario e la durata legale del lavoro è di sole trentacinque ore [settimanali], ecco che appare una lugubre immagine dell’attività professionale, associata alla morte o alla privazione della vita.
Non sono solamente i due anni supplementari che alimentano rappresentazioni tanto tragiche. Gli attuali slogan ne ricordano altre, urlate in altri tempi: «Non vogliamo perdere la nostra vita guadagnandocela!». Si era nel maggio 1968 e, durante tre settimane di sciopero generale, gli operai, maggioranza nei cortei, esprimevano le loro aspirazioni a un’altra esistenza. Essi apparivano ancora più disperati, come lo dimostra l’esplicita ripresa e la variazione, in questo autunno 2010, di un’altra famosa formula del 1968: «Metropolitana, lavoro, sonno» è diventata «Metropolitana, lavoro, tomba». Come si spiega un simile degrado?
I francesi temono di non poter reggere a causa degli orari esigenti che turbano il riposo, dei compiti ripetitivi che scatenano disturbi scheletrico-muscolari, dell’esposizione alle intemperie, della pressione dei clienti, dell’intensificazione del lavoro e di tutto ciò che può essere qualificato come «gravosità» - tema questo sul quale si vede (finalmente) avviarsi un dibattito pubblico, ma in una prospettiva ancora troppo individualista.
Essi temono di non reggere anche per altri motivi, i quali, peraltro, non vengono per nulla sentiti: paura di non essere armati per un lavoro che impone una costante pressione e s’iscrive nella logica del «sempre più»; paura di non poter più raggiungere obiettivi imposti in modo irrealistico da una dirigenza tanto mobile da ignorare sovente la concreta attività dei suoi subordinati; paura della valutazione che, per le stesse ragioni, non tiene conto né degli ostacoli incontrati, né degli sforzi forniti. Essi temono di essere costretti a fare male il loro lavoro; di essere forzati a commettere un errore professionale; di arrivare a un livello d’incompetenza che li renderebbe vulnerabili, li esporrebbe alla perdita dell’impiego e rimanderebbe loro un’immagine svilita di loro stessi.
Effettivamente, per consolidare la sua autorità e tentare di mettere i salariati in una situazione di auto-sfruttamento, il management moderno pratica la destabilizzazione sistematica. A questo fine si applica a creare un clima ostile: nell’azienda i lavoratori non devono sentirsi a casa loro; non devono trovarsi nella condizione di tenere sotto controllo il loro lavoro e neppure di sviluppare, con i loro colleghi, con la loro gerarchia o perfino con i loro clienti relazioni di complicità che permetterebbero loro di “economizzarsi” [ndt.: nel senso di diventare protagonisti dell’economia]. Riorganizzazioni permanenti, una mobilità imposta, ricorrenti spostamenti portano a una perdita dei punti di riferimento professionali, ad apprendistati sempre nuovi. France Telecom ne è l’esempio maggiormente mediatizzato.
Quando il lavoro è diventato più complicato e l’ambiente più incerto, l’esperienza accumulata non è più di alcun aiuto. Non è più sufficiente raggiungere gli obiettivi, è necessario superarli per godere della fiducia del superiore gerarchico. Da qui deriva il carattere arbitrario delle valutazioni, quasi obbligatorie nella maggior parte delle grandi imprese: se occorre superare gli obiettivi, di quanto è necessario superarli, e con che strumenti? Nel corso dei sondaggi un gran numero di salariati rivelano il loro senso di trovarsi in permanenza sul filo del rasoio, di non resistere se non a prezzo di un coinvolgimento senza tregua di tutta la loro energia e, soprattutto, di farlo in solitudine estrema, senza poter contare su nessun altro che su loro stessi. La gerarchia non aiuta per nulla: il suo ruolo consiste piuttosto nell’accrescere la costrizione. I colleghi, secondo la logica elementare dell’individualismo dominante, sono diventati concorrenti. Così i salariati si sentono senza risorse di fronte alle loro difficoltà.
Una delle caratteristiche del lavoro moderno consiste in organizzazioni ibride, nelle quali logiche tayloriane si sviluppano accanto a richiami all’impegno collettivo dei salariati. Basti pensare ai call center, nei quali l’aberrante costrizione degli schemi predeterminati e delle durate delle comunicazioni, predeterminate, impongono ai teleoperatori, se vogliono ottenere un compenso, di personalizzare a ogni costo il colloquio con qualche osservazione o commento giudizioso e simpatico, di modulare l’intonazione della voce, di fare appello al loro senso della battuta pronta.
I colleghi diventano concorrenti
Il management, come continua a imporre obiettivi quantitativi a termine molto breve, esige anche dai salariati che risolvano le tensioni fra la qualità e la quantità del lavoro fornito (numero delle chiamate ricevute, delle pratiche smaltite, delle consegne effettuate…), in un contesto sempre più fluttuante.  Una buona parte dell’organizzazione è così subappaltata agli impiegati più subalterni, definiti responsabili della qualità del loro lavoro. «Autonomi» in un universo retto da esigenze di elevata produttività, senza possibilità di negoziare né i mezzi né i tempi necessari per raggiungere gli obiettivi, essi si sentono in pericolo, in situazione precaria, anche quando beneficiano di una posizione lavorativa stabile [=a tempo indeterminato]. I quadri sono precipitati nelle medesime tensioni e contraddizioni: vedono i loro obiettivi posti su un orizzonte sempre più ravvicinato e anch’essi subiscono un controllo istantaneo, grazie alla pratica del reporting, che li obbliga a giustificare l’impiego del loro tempo – per alcuni di loro, anche a mezza giornata alla volta.
Nel settore pubblico l’entrata in vigore di questi criteri di gestione, derivati dal settore privato, destabilizza altrettanto, se non di più, i mestieri, le identità professionali, i modi di agire (1). Per il personale coinvolto i cambiamenti non si fondano sulle esperienze professionali di ognuno, ma sono imposte con brutalità, disorientando gli uni e gli altri nelle loro ricerche per adattarsi alle evoluzioni dell’ambiente e dei destinatari pubblici dei servizi. Nel momento in cui il mondo cambia intorno a essi, i dipendenti del servizio pubblico di Stato, delle collettività territoriali e della funzione ospedaliera hanno la sensazione di essere costretti, messi alla briglia, ostacolati nel compiere correttamente la loro missione.
Occorre avere i nervi saldi per mantenere il proprio posto in questo universo. Per non vivere nell’angoscia permanente di evoluzioni suscettibili di esigere concessioni contrarie al senso del lavoro ben fatto o all’etica. In questo senso il management moderno ha qualcosa del predatore. Reclamando l’eccellenza, l’impegno totale e soprattutto incondizionato, si rivolge ai più resistenti, ai più forti. Esige flessibilità e disponibilità, a detrimento della vita personale e famigliare. Si comprende meglio perché le grandi aziende hanno una piramide delle età nella quale la base e il vertice sono ridotti: il management moderno consuma e getta rapidamente. Difficile resistere, superata una certa età – quella definita di «senior», che arriva prima dei 50 anni -; difficile inserirsi quando non si hanno ancora i galloni.
La presenza dei giovani nei cortei, al fianco dei più anziani, ci informa sulla loro lucidità: la loro disoccupazione è una delle più grandi d’Europa. Essi sanno che la loro difficoltà nell’entrare nell’azienda moderna ha a che vedere con quella degli «anziani» nel conservare il loro posto di lavoro. Gli uni e gli altri pagano le medesime, smisurate esigenze del management. E la situazione è ancor più grave per coloro che hanno un impiego precario.
I lavori comparativi di Lucie Davoine e Dominique Méda (2), datati 2008 e svolti su ventisette Paesi europei, rilevano che i francesi sono quelli che si aspettano di più dal lavoro, coloro per i quali esso riveste la maggiore importanza, ma anche quelli che ne traggono più delusione e frustrazione.
Questa constatazione si spiega con la storia: il luogo di fondazione della Rivoluzione francese che, liberando gli individui dal servaggio e rendendoli liberi di vendere la loro forza di lavoro, ha fatto di quest’ultimo una questione di emancipazione; ciò che ancor oggi si traduce in lotte sociali particolarmente acute. Il lavoro rimane la chiave di volta della società.
La dismisura delle esigenze fabbrica cittadini inquieti, in preda a un senso d’impotenza, chiusi nella loro diffidenza verso gli altri e verso le regole del gioco che essi ritengono di non comprendere. La questione dei loro mezzi di sopravvivenza li ossessiona: più della metà dei francesi interrogati rispondono ai sondaggisti di temere di trovarsi un giorno senza fissa dimora.
In occasione della battaglia contro la riforma delle pensioni salariati isolati, che di solito respingono le difficoltà percepite come debolezze o come prova d’inadeguatezza,sembra riallaccino con la consapevolezza di un destino condiviso. Inalberato da un gran numero di manifestanti, il cartello «Je lutte des classes» [ndt.: lo slogan Lutte (sostantivo) des classes = Lotta di classe, diventa qui verbo] «Io lotto di classe», ideato dall’associazione Non piegarsi, simbolizza una possibile alleanza fra l’individualismo imposto dal mondo del lavoro moderno e una tradizione collettiva che sonnecchia.
(1) Leggere « Comment l'entreprise usurpe les valeurs du service public », Le Monde diplomatique, settembre 2009.
(2) Cf. «Place et sens du travail en Europe : une singularité française ». Centre d'études de l'emploi, document de travail, n° 96-1, février 2008.
 


Marted́ 09 Novembre,2010 Ore: 12:38
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Stampa estera

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info