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www.ildialogo.org Il potere contro l’interesse generale,

Le Monde, Paris – 22 settembre 2010
Dibattito

Il potere contro l’interesse generale

"Il potere contro l'interesse generale": il titolo dell'articolo apparso su Le Monde il 22 settembre scorso già dice tutto. Quanti tipi di legittimità ci sono? Qual'è il posto del popolo? Perché i governanti non negoziano ma comandano? E a pro di chi? Quanto sono "disinibiti" i rapporti fra il potere e il denaro?
Stiamo parlando della Francia attuale e del signor Sarkozy, il quale è in evidenti difficoltà. Pare non sia il solo.(J.F.Padova)

Confusione delle legittimazioni, disprezzo della democrazia sociale, oblio della morale pubblica alimentano la diffidenza dei cittadini nei confronti del Capo dello Stato [Nicolas Sarkozy].
Gérard Courtois intervista Pierre Rosanvallon, storico, direttore della Scuola di alti studi in scienze sociali, professore di Storia moderna e contemporanea al Collège de France. Creatore della Fondazione Saint Simon (1982-1999), nel 2002 ha fondato un nuovo laboratorio intellettuale, La République des idées [La Repubblica delle idee]. È autore di numerose opere, fra le quali [traduco] “La Conbtro-Democrazia. La politica al tempo della diffidenza” (Seuil, 2006) e “La legittimità democratica” (Seuil, 2008).
(traduzione dal francese di José F. Padova)

 http://www.lemonde.fr/

In “La Controdemocrazia” Lei analizzava la dissociazione fra legittimità dei governanti e la fiducia dei governati. Ciò che è accaduto in Francia da qualche anno conferma questo grande scarto?
Sì, la diffidenza si è rafforzata. Innanzitutto per ragioni strutturali. In primo luogo, la fiducia può essere definita come il fatto di essere capaci di fare un’ipotesi sui comportamenti futuri. Quando ci si trovava in un mondo politico organizzato attorno a grandi partiti, a programmi ben definiti e a dibattiti di idee chiare, l’avvenire politico era relativamente prevedibile. Ora noi siamo ormai in un mondo retto soprattutto dal gioco di personalità. Questo cambia da cima a fondo l’esercizio della fiducia, vale a dire della prevedibilità.
 
Il secondo elemento è che il mondo della nuova rivoluzione industriale e della globalizzazione nel quale siamo entrati è un mondo molto più incerto, più mobile, più diffuso, e quindi più inquietante. La crisi finanziaria ed economica ha accentuato questa pericolosità da due anni a questa parte. Questo pesa in tutti i campi della decisione, che essa sia economica o politica, e giù fino alle decisioni individuali e le scelte personali. Noi viviamo dunque in un mondo più minaccioso e con meno regole.
 
Si tratta qui del quadro comune a tutti i Paesi democratici. Che ne è della situazione francese?
Una seconda causa di diffidenza è più specifica all’universo politico: è la dissociazione fra una democrazia di azione e una democrazia di elezione. Lo scopo della democrazia di elezione è quello di scegliere una persona o di mandare via un’altra, poiché le elezioni sono tanto “deselezioni” quanto scelte positive. Ma ciò funziona più o meno bene in Paesi diversi. A questo proposito, l’elezione presidenziale del 2007 è stata, in Francia, un momento riuscito di democrazia d’elezione: il contrasto fra le personalità dei candidati, le immagini e i programmi era sufficientemente spiccata perché gli elettori avessero la sensazione di effettuare una scelta che avesse senso; i linguaggi e i progetti erano anch’essi fortemente personalizzati.
 
Ma la democrazia d’azione appartiene a un altro ordine. Essa deve usare un linguaggio del tutto diverso. Mentre la democrazia d’elezione si esprime sul registro della volontà e della prossimità, la democrazia d’azione al contrario si confronta con la complessità e la costrizione. La precipuità di una retorica elettorale è quella di dire ”Yes, we can” e di convincere che la politica può molto, mentre nell’azione si deve al contrario essere più realisti e ammettere che la politica può molto meno. Questa democrazia d’azione fa immediatamente senso, se non si tratta d’altro che di nominare persone a posti determinanti dell’apparato di Stato, e si sa che si tratta di un potere essenziale del presidente della Repubblica. Ma, al di là, le cose sono meno evidenti.
 
Al di là della retorica, tutto questo pesa sul modo di governare?
La democrazia elettorale mette l’accento sulla personalizzazione, la personificazione e la semplificazione: è una democrazia polarizzata. Al contrario, nel quadro della democrazia di decisione o di regolazione le cose vanno in tutt’altro modo. Per funzionare bene deve accettare la demoltiplicazione degli organismi di dibattito e controllo, farsi carico della complessità dei problemi e delle interazioni. Ora, le istituzioni francesi a questo proposito ci pongono in una situazione singolare: la crescente presidenzializzazione rafforza senza sosta la pretesa alla personificazione e alla polarizzazione. Di conseguenza essa genera quasi automaticamente la diffidenza e la diserzione civica.
 
Se ne vede la manifestazione nell’ordine costituzionale: l’allargamento del potere del parlamento e dei diritti dei cittadini, attraverso la questione prioritaria della costituzionalità, hanno potuto dare la sensazione che si dava più spazio all’intervento del diritto. Ma non si tratta d’altro che di concessioni alla democrazia liberale. Poiché contemporaneamente il potere non ha smesso di sacralizzare il principio maggioritario: per esempio, nominando direttamente i presidenti della televisione pubblica o imponendo una certa visione del ruolo dei pubblici ministeri [ndt.: in Francia ancora sottoposti all’Esecutivo, come qui da noi vorrebbe la Destra].
 
La molla della visione sarkoziana è che la democrazia significa: ”Poiché sono eletto, io sono la volontà generale” [ndt: concetto applicato alla nausea da altri ben noti], ciò che mi sembra essere difficilmente accettabile. Uno dei principali problemi dell’esercizio attuale del potere è quello di proiettare una pericolosa definizione della democrazia, che mi sembra si avvicini in certi punti alle teorie della “democrazia sovrana” di Putin o rimandi alla filosofia politica del Secondo impero, invocando l’appoggio delle masse al plebiscito per pretendersi solo proprietario dell’interesse pubblico, impersonando la volontà generale.
 
Occorre quindi distinguere due tipi di legittimità?
Assolutamente sì. Questa filosofia della “democrazia” non fa la distinzione, essenziale, fra la legittimazione delle eprsone mediante l’elezione, d’ordine procedurale, e la legittimazione della loro azione, d’ordine sostanziale. L’elezione attribuisce una legittimità a governare per la durata del mandato – e questo è un bene per non diventare ostaggi della democrazia d’opinione. Ma la legittimità si mette in gioco sul terreno del contenuto delle decisioni. È proprio questo che l’attuale potere presidenziale non accetta, perché confonde in permanenza legittimità di nomina e legittimità di decisione. È un grande errore: la legittimità non è semplicemente dell’ordine di uno status acquisito una volta per tutte, è una qualità che deve mettersi alla prova, costruirsi in permanenza.
 
Questo errore influisce sull’insieme del funzionamento democratico della Francia odierna. Al di fuori dello stesso potere presidenziale si vede bene, per esempio, che sono istituite autorità di regolazione per rispondere a una forma di domanda sociale, ma che ci si rifiuta di trarne le conseguenze nell’azione [di governo].
 
Per esempio?
L’idea che non vi sia bisogno di autorità indipendenti per nominare i presidenti delle reti televisive è una terribile regressione. Ahimè, sono anche costretto a constatare che, in questo affaire, la sinistra era indignata, ma non aveva la teoria della sua indignazione.
 
Qual è il posto del popolo?
Nelle democrazie il popolo è introvabile, per definizione. È multiforme, in permanente ricomposizione. Quindi è necessario coglierlo in modo plutimo: attraverso principi che lo riunisce, attraverso la sua manifestazione elettorale numerica, o ancora attraverso le forze sociali vive che in certi momenti gli danno un volto. Si tratta di altrettante espressioni del popolo che devono trovare la loro specifica rappresentazione.
 
In Francia queste forze sociali non sono pericolosamente indebolite?
Ciò che mi colpisce enormemente è che oggi si considera come non vi sia più legittimazione della democrazia sociale. Il fatto che una riforma come quella delle pensioni sia stata pilotata dall’Eliseo con il solo sigillo della maggioranza parlamentare è un modo di procedere che, su un soggetto tanto importante, segna una rottura storica con le pratiche della democrazia sociale in Francia. Ivi compresa tale quale quella che era stata messa in opera dalla destra nel 2003.
 
Come spiega Lei questa assenza di negoziazione?
Nella visione sarkoziana i sindacati sono istituzioni particolari della società civile, mentre il potere dello Stato pretende di essere il solo rappresentante della generalità sociale. Ebbene, non è vero. Democrazia sociale vuole dire che, per ragioni di contiguità e di storia, vi è una forma di rappresentanza del mondo sociale organizzato (i sindacati), ma anche del mondo sociale diffuso (le manifestazioni), che vale come legittima rappresentanza democratica. Ora si fa come se la legittimità elettorale assorbisse tutte le altre forme di legittimità e di rappresentanza. Vi è dunque una pretesa che occorre combattere, non soltanto semplicemente riguardo a decisioni che si sono prese, ma rispetto dello stesso metodo di messa in opera e delle pretese che esso trasmette. È questo che mi sembra estremamente grave. Perfino pericoloso, perché rafforza questa specie di incavatura della vita sociale fra il superpotere del vertice e una società atomizzata, che non si vuole vedere esistere attraverso quelle organizzazioni intermedie che sono i sindacati o le associazioni. Alla fine dei conti, vi è una sorta di sovrapposizione d’impotenza e di onnipotenza al vertice del potere.
 
Tuttavia i leader sindacali riconoscono che la porta del presidente della Repubblica raramente è stata altrettanto aperta…
Ma si tratta di comunicazione. La porta è aperta, ma non c’è considerazione istituzionale. I sindacato non sono considerati come attori importanti della democrazia francese. Non è per niente una strategia dell’ empowerment, secondo la quale occorrerebbe che i sindacati svolgessero meglio il loro ruolo. È una strategia di aggiramento e neutralizzazione. La democrazia non è semplicemente aspirare il potere verso il vertice, sperando sia quello di un “giacobino benevolo”. Ciò consiste al contrario nel dare potere alla gente, a fare scendere il potere, a farlo circolare nella società.
 
D’altra parte il mondo moderno si trova in una contraddizione: ci si aspetta sempre più dagli individui che si facciano carico di sé stessi e che siano responsabili in tutti i campi, mentre in politica si assiste a una specie di captazione del potere e a una deresponsabilizzazione degli individui (“Abbiate fiducia in me, io mi occupo di tutto”) [ndt.: facile il riferimento al ghe pensi mì].
 
Manchiamo di contropoteri?
A ogni elezione i cittadini fanno provvista di speranze, ma nello stesso tempo la democrazia funziona sempre più in chiave di diffidenza. Il cittadino cerca di recuperare con queste forme di contro-democrazia ciò che non può portare a termine nell’ordine politico. Si trata di un riflesso perfettamente sano; sarebbe in certo qual modo necessario istituzionalizzare la diffidenza, se questa diffidenza significa che il cittadino non vuole firmare assegni in bianco. La democrazia non è la legittimazione dell’assegno in bianco.
 
La Francia sembra essere incapace di avviare riforme col minimo di deliberazione collettiva. Perché?
Quando si parla di riforme si mescolano tre processi assai differenti. Innanzitutto, ciò che si potrebbe chiamare un riformismo della spesa, appoggiato ad azioni di categoria, come la riduzione dell’IVA sui restauri immobiliari, e che trovi come solo limite le restrizioni delle finanze pubbliche. In seguito, un riformismo della ripartizione, nel quale la distinzione fra la destra e la sinistra è evidente, perché non hanno il medesimo progetto di ripartizione; l’esempio della riforma fiscale illustra così perfettamente, da tre anni a oggi, un tipo di scelta politica in favore di gruppi sociali ben precisi. Questo riformismo della ripartizione esprime molto semplicemente il legame fra politica e conflitto di classe.
 
Infine, vi è un terzo tipo di riformismo, quello della ricomposizione, che consiste nel rimodellare istituzioni pubbliche d’interesse generale, che sono beni comuni, come l’università o la giustizia. Questo tipo di riforma non è possibile senza una discussione, prima di tutto, sulla filosofia e il ruolo sociale di tali istituzioni. È necessario organizzare questa discussione ed è ciò che oggi manca molto.
 
In quale categoria si situa la riforma delle pensioni?
Essa è tanto più complessa in quanto è contemporaneamente di ripartizione (con la centrale questione della giustizia) e di ricomposizione (con i problemi di civiltà come il posto di lavoro nella società, dei rapporti fra le generazioni, ecc.). essa va al cuore di un progetto di società e avrebbe meritato una deliberazione collettiva altrettanto più approfondita. Tutto questo è stato spazzato via in maniera fortemente assolutistica [ndt.: in fr. caporaliste, modi da caporale], a favore della sacralizzazione del solo aspetto dell’età di inizio del pensionamento.
 
I rapporti “disinibiti” fra il potere e il denaro non scavano ancor più il fossato della diffidenza verso i governanti?
Vi sono tre Paesi in Europa nei quali i rapporti fra il potere e il denaro presentano caratteri inquietanti: la Francia, l’Italia e la Russia. In questi tre casi viè una specie di legame accettato fra la testa dell’esecutivo e i grandi interessi economici. Com’è possibile? Molto semplicemente perché non vi è più il senso di supremazia del servizio pubblico.
 
Che intende dire?
La Repubblica non era evidentemente al riparo dalle connivenze con i grandi interessi economici, ma predominava il convincimento che essa era al di sopra di questo e che gli affari politico-finanziari costituivano seri danni. Oggi vi è una perdita quasi ingenua del senso di ciò che significa il bene comune, lo Stato, l’amministrazione dell’interesse generale. E nei tre Paesi che ho citato tutto questo risulta da una medesima causa: da una auto soddisfazione, da una pretesa del potere di rappresentare adeguatamente la società e di comportarsi senza complessi.
 
A tale proposito l’ ”affaire Woerth”
 
È necessario che il comportamento delle personalità politiche sia socialmente accettabile come una qualità sentita. La filosofia repubblicana dell’interesse generale implica una certa esemplarità del comportamento. Non si può pretendere di impersonare l’interesse generale se non ci si distacca dagli interessi particolari in modo nettamente comprensibile da parte di tutti i cittadini. La tranquilla indifferenza rispetto a questa filosofia morale è grave. Essa mina ogni senso di stima nei riguardi dell’autorità.
[ndt.: ministro coinvolto nello scandalo di favori alla miliardaria proprietaria di L’Oréal] è molto significativo di una concezione molto restrittiva di ciò che è un conflitto d’interessi. La difesa di Woerth si pone su un terreno giuridico: ”Non ho fatto nulla che non fosse legale”, non smette di ripetere. Ma se non si comprende che la morale pubblica non è semplicemente rispettare la legalità, non si comprende l’essenziale. Questa morale implica l’essere “al disopra di ogni sospetto”. La qualità richiesta a una personalità politica non è di non essere penalmente colpevole di una malversazione, è di essere al disopra di ogni sospetto.


Sabato 16 Ottobre,2010 Ore: 18:07
 
 
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