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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Rifare dell’economia una questione politica,di Yvon Quiniou

Le Monde Diplomatique, luglio 2010, pag. 3
Rifare dell’economia una questione politica

di Yvon Quiniou

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Scrive il filosofo Y. Quiniou su "Le Monde Diplomatique" di luglio 2010: Effettivamente, moralizzare il capitalismo risulta, col massimo rigore, impossibile, poiché questo è in sé stesso immorale, perché si mette al servizio di una minoranza fortunata, strumentalizzando la grande massa dei lavoratori e negando la loro autonomia. Esigere la sua moralizzazione dovrebbe in realtà condurre a esigere la sua eliminazione, quale che sia la difficoltà del compito. Forse troppo drastico... Eppure, se si considera la politica economica della destra italiana negli ultimi vent'anni, è forte la tentazione di dargli ragione: tolleranza dell'evasione, fisco ultrabenevolo con i ricchi e ricchissimi, il precariato per rendere felice Confindustria, e via dicendo. L'articolo allegato è uno studio filosofico del problema economico-sociale e come tale è spunto di riflessione. Nell'economia tuttavia, e forse, qualcosa si muove: Yunus e il suo microcredito e le altre iniziative simili. Chissà se il futuro vedrà nuove forme di redistribuzione della ricchezza.
JFPadova
Impostura del capitalismo morale
Di Yvon Quiniou;  filosofo; ha appena pubblicato L’ambition morale de la politique. Changer l’homme? L'Harmattan, coll. « Raison mondialisée », Paris, 2010.
In piena crisi finanziaria, di fronte alla disinvoltura delle grandi banche, i dirigenti dei Paesi capitalisti picchiavano il pugno sul tavolo. I più audaci si appellavano a una moralizzazione del capitalismo, per timore di una messa in discussione più profonda del sistema. Dopodiché le promesse sono svanite. Resta solamente la mistificazione.
Non sarebbe ormai arrivato il momento di moralizzare il capitalismo? Nel più profondo della crisi la domanda è stata formulata dai nostri dirigenti, Sarkozy in testa, vale a dire da parte degli stessi che prima si abbandonavano a una sconsiderata apologia del liberalismo, che si presumeva rappresentasse la «fine (felice) della storia». Così formulata la domanda è ambigua: se è necessario moralizzarlo, il capitalismo è immorale: se si può farlo, esso non è intrinsecamente immorale nelle sue strutture. Verrebbero messi in discussione soltanto i suoi eccessi. Ora, l’immoralità è costitutiva del capitalismo, contrariamente alla teoria che pretende di fare dell’economia una realtà che sfugge alla morale.
L’economista ultraliberale Friedrich Hayek aveva già enunciato questa obiezione nel XX secolo (1): solamente un comportamento individuale intenzionale potrebbe esse giudicato come giusto o ingiusto – ciò che non può essere il caso di un sistema sociale che, in quanto tale, non è stato voluto da alcuno. Questo spinge Hayek a ricusare il concetto stesso di «giustizia sociale», decretato come assurdo perché giudica ciò che non è da giudicare: «Non vi è un criterio in base al quale noi potremmo scoprire ciò che è “socialmente ingiusto”, perché non vi è soggetto da parte del quale potrebbe essere commessa questa ingiustizia (2)», egli scrive, per esempio.
Egli vi vede perfino vestigia di antropomorfismo, che proietta intenzioni umane su una realtà inumana (nel senso d’impersonale); questo antropomorfismo animerebbe la corrente socialista e la sua pretesa di ridistribuire in maniera giusta la ricchezza e i mezzi per produrla. La concezione di Hayek sbocca quindi su un completo amoralismo nel campo dell’organizzazione economica della società, e perfino su una forma di cinismo che si dà in anticipo i mezzi per mascherare il male che alimenta, poiché lo nega teoricamente togliendogli ogni fondamento intellettuale (3).
Questa tesi ha trovato una nuova giovinezza grazie ad André Comte-Sponville nel suo libro Le Capitalisme est-il moral? [Il capitalismo è morale?](4), il cui successo mediatico, anche se il suo contenuto è stato rovesciato dalla crisi, traduce bene la pregnanza dell’ideologia liberale. Distinguendo, nell’ambito della vita sociale, l’ordine scientifico-tecnico, l’ordine giuridico-politico, l’ordine morale e l’ordine etico (che definisce con amore), egli pone l’economia nel primo: «La morale non ha alcuna pertinenza per descrivere o spiegare qualsiasi processo che si svolga in questo primo ordine. Ciò vale in particolare per l’economia, che ne fa parte», afferma (5).
Cinismo nei confronti della politica
La morale allora appare in una posizione di esteriorità, poiché il capitalismo si pone fuori campo: né morale né immorale, bensì amorale. Non è che la morale non possa del tutto intrervenirvi – non si trova più alcuno che sostenga una posizione tanto radicale. Ma essa non lo può fare se non ai margini, attraverso la politica e il diritto, per attenuarne le malefatte, senza potere né, soprattutto, dovere sopprimere le sue cause. In più, poiché nessun soggetto è all’opera nei processi economici, non si deve giudicarli nel nome di norme che non possono applicarsi se non ad atti obiettivi: esce nuovamente l’idea che ci sarebbe un significato morale della giustizia o dell’ingiustizia sociali e un dovere di modificare l’economia se essa non risponde ai criteri della giustizia. Il capitalismo può essere ingiusto, egli riconosce tuttavia, come lo è la natura nella distribuzione dei talenti fra le persone, ma certamente non è immorale e quindi non deve fondamentalmente essere cambiato (6).
Questo tipo di discorso non soltanto contribuisce a scagionare il capitalismo dai danni considerevoli che abbiamo sotto gli occhi – e quindi a giustificarlo ideologicamente –, ma alimenta un cinismo generalizzato riguardo alla politica, perfettamente visibile in Comte-Sponville e presente in tutti i sostenitori del capitalismo: l’integrazione dell’economia nell’ordine della scienza e della tecnica, effettivamente neutro sotto l’aspetto morale. Significa dimenticare ciò che fondamentalmente li separa.
La scienza e la tecnica (con le quali l’economia evidentemente si articola) non sono altro che mezzi e soltanto il loro uso sociale può essere giudicato. Così una nuova tecnica di produzione che aumenta la produttività del lavoro non è in essa stessa portatrice di disoccupazione e quindi cattiva; al contrario essa permette di diminuire il tempo di lavoro e quindi la fatica delle persone: si può produrre altrettanto in meno ore, con i medesimi lavoratori; o ancora, essa dà la possibilità di rimunerare meglio i salariati grazie ai guadagni in produttività. Il suo valore risiede dunque nell’uso che ne si fa.
All’opposto – ed è il grande insegnamento di Karl Marx, questo obliato dalle teorie economiche ufficiali fino alla recente crisi – l’economia è costituita da pratiche mediante le quali certi umani (i capitalisti) si comportano in un certo modo nei confronti di altri umani (gli operai e i salariati in generale) – sfruttandoli, sottoponendoli a ritmi infernali, licenziandoli col pretesto della competitività, oppure opponendoli gli uni agli altri mediante una cultura del risultato o di nuove regole di management, delle quali si sa fino a che punto generino ormai una sofferenza sul lavoro veramente insopportabile (7).
Tutto ciò non dipende dalla scienza o dalla tecnica, ma da una pratica sociale che organizza il lavoro e che è voluta come tale sulla base di obiettivi mercantili (il profitto) e che quindi si offre per definizione al giudizio morale: pratica umana o inumana, pratica morale o pratica immorale. Marx l’aveva chiaramente compreso quando affermava che «l’economia politica non è la tecnologia (8)».
Più ampiamente – poiché qui è in gioco la potenza della politica – è il tipo di realtà generalmente prestata all’economia che è necessario rifiutare: una realtà obiettiva e assoluta, decretata come indipendente dalle persone (mentre sono esse che la fanno) e sottoposta a leggi implacabili, analoghe a quelle della natura, che non si saprebbe beninteso giudicare. Non si giudica la legge di gravità… perfino se in qualche occasione può fare male! Questa deriva intellettuale porta un nome: economismo. Quest’ultimo consiste non soltanto nell’erigere l’attività economica a valore primordiale, subordinandole tutte le altre, ma nel considerare che essa è fatta di processi per la maggior parte sottratti alla responsabilità della politica.
Tuttavia è necessario capire bene che, se vi sono leggi dell’economia capitalista, esse sono strettamente interne a un sistema di produzione retto dalla proprietà privata, possono essere modificate e perfino, in linea di principio, abolite, se si cambia il sistema. Occorre quindi vedervi regole di funzionamento di un certo tipo d’economia (che non è la fine della Storia), che organizzano una forma particolare di rapporti pratici fra le persone e che hanno esse stesse uno status pratico. Queste regole sono state impiantate (ormai fino al livello mondiale) e possono quindi essere modificate. Ciò significa che le suddette «leggi economiche» cadono direttamente sotto la legislazione della morale, come tutto ciò che interessa la pratica.
Per questo motivo la stessa «scienza economica» non potrebbe essere una scienza pura, esente da giudizi sul valore: come le scienze sociali in generale e per la natura stessa del suo oggetto – vi sono coinvolte persone – impegna valori, almeno implicitamente; comprende l’attività umana e orienta l’analisi del reale in questo o in quel senso, che lo si possa approvare o no.
L’economista americano Albert Otto Hirschman lo ha bene indicato sottolineando l’intrico, sovente inconsapevole, della scienza economica con la morale. Egli ha osservato che la «moralità (…) ha il suo posto al centro del nostro lavoro, a condizione che i ricercatori in scienze sociali siano moralmente vivi (9)»; quindi formula l’augurio che le preoccupazioni morali siano esplicitamente e coscientemente assunte dalla scienza sociale – unendosi a Marx quando afferma nei Manoscritti del 1844 che l’economia è «una scienza morale reale, la più morale delle scienze (10)».
Rimane da sapere quale è questa morale che ci chiede di preoccuparci dell’economia e di non considerarla come una realtà di fronte alla quale la politica dovrebbe freddamente inchinarsi. Anzitutto conviene rompere con un approccio morale dell’umano ripiegato sulla sfera delle relazioni interpersonali e interessato soltanto alle virtù e ai vizi individuali. Al contrario, bisogna ammettere che, distinta dall’etica e di conseguenza riguardando i rapporti con gli altri (11), la morale deve applicarsi all’insieme di questi ultimi e quindi ai rapporti sociali nella loro globalità, vale a dire alla vita politica (in senso stretto, alle istituzioni), sociale (sempre in senso stretto, ai diritti sociali) ed economica.
Ciononostante, pur avendo essa cominciato a invadere i due primi campi a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 fino a quella del 1948, si vorrebbe che si fermasse alla porta dell’economia. Questa è l’interdizione che occorre togliere di mezzo, progettando una politica morale che sia anche un’economia morale, vale a dire una politica che realizza i valori della morale fino dentro al campo economico.
Ma quali valori e quindi quale politica? La risposta può essere tratta dalla formulazione che ne ha dato Immanuel Kant, che concorda col comune senso morale: è il criterio dell’universale che comanda di rispettare l’altro, di non strumentalizzarlo, e che esige di promuovere la sua autonomia. Sbarazzato da ogni sfondo metafisico o religioso, esso esige che noi sopprimiamo il dominio politico (ciò che in parte è realizzato attraverso le istituzioni democratiche), l’oppressione sociale (in parte è ottenuto attraverso i diritti che il movimento operaio ha conquistato dopo il XIX secolo), ma altrettanto lo sfruttamento economico: questa meta resta ancora largamente da raggiungere. Soltanto così si proteggeranno e approfondiranno, attraverso la politica, le conquiste morali ottenute negli altri campi.
Effettivamente, moralizzare il capitalismo risulta, col massimo rigore, impossibile, poiché questo è in sé stesso immorale, perché si mette al servizio di una minoranza fortunata, strumentalizzando la grande massa dei lavoratori e negando la loro autonomia. Esigere la sua moralizzazione dovrebbe in realtà condurre a esigere la sua eliminazione, quale che sia la difficoltà del compito.
(1) Vedi in particolare Friedrich Hayek, Droit, législation et liberté, Presses universitaires de France (PUF), trois tomes, Paris, 1980-1983.
(2) Op. cit., t. 2, P. 94.
(3) Interrogato circa le conseguenze umane del liberalismo, Hayek si è spinto a dire, a proposito delle eventuali vittime: «Ebbene, tanto peggio per loro!»
(4) Albin Michel, Paris, 2004, ripubblicato nel 2009.
(5) Op. cit., 2' edizione, p. 78.
(6) Op. cit., p. 238-239.
(7) Vedi in particolare gli articoli di Christophe Dejours e di Jean-Pierre Durand in Actuel Marx, n° 39, «Nouvelles aliénations», Paris, mai 2006.
(8) Karl Marx, Contribution diacritique  de l'économie politique, Editions sociales, Paris, 1966, p. 151.
(9) Albert. O. Hirschman, L'Economie comme science morale et politique, Gallimard-Seuil, Paris, 1984, p. 109.
(10) In Marx, dopo il periodo giovanile, questo intrico non è stato teorizzato: si tratta di una lacuna della sua opera.
(11) Nel mio vocabolario l’etica concerne soltanto la vita individuale e può presentarsi sotto forma di saggezza, consigliata ma facoltativa.


Lunedì 26 Luglio,2010 Ore: 11:56
 
 
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