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www.ildialogo.org GOVERNI SOTTO IL GIOGO DELLE BANCHE,di Frédéric Lordon

Le Monde Diplomatique, marzo 2010, pag. 9 segg.
GOVERNI SOTTO IL GIOGO DELLE BANCHE

di Frédéric Lordon

traduzione di José F. Padova


Ogni tanto è bene spingere lo sguardo più avanti, oltre la collina. Il problema contingente è un uomo totalmente asociale, eversore, suonatore del piffero televisivo, che, in questa Italia-Hamelin, trascina i topi (di fogna) e gli altri nel fiume vorticoso. L'unico spiraglio di speranza è che anche questa storia avrà fine. Allora anche i berluscones picchieranno i grugni sui problemi, quelli veri, quelli della vita non-tv. Forse il più grande problema, di oggi e domani, è l'ingiustizia sociale. Può essere rappresentata sotto molti aspetti. E' quello che fa Le Monde Diplomatique (leggendo il quale penso al Mondo di Pannunzio e ai sogni di me liceale) circa uno di essi, quello finanziario. (José F. Padova)

Le Monde Diplomatique, marzo 2010, pag. 9 segg.

GOVERNI SOTTO IL GIOGO DELLE BANCHE
Dalla crisi dei subprime alle manovre speculative in Europa, dal panico bancario alla depressione, da due anni i sussulti dell’economia mondiale scandiscono storie intricate. Quella di una famiglia americana impoverita dai bassi salari e del broker che le propone d’indebitarsi per acquistare una casa. Quella dell’istituto finanziario crollato sotto il peso dei suoi crediti vacillanti e dello Stato che lo rimette a galla a spese dei contribuenti. Quella, infine, dell’investitore imbaldanzito che scommette sul fallimento di un Paese e del potere pubblico spaventato che presenta il conto dei suoi piani di rigore finanziario alla sua popolazione. Tutte confluiscono nel medesimo epilogo. Da un lato, i desesperados della finanza trasferiscono il loro debito agli Stati e ritrovano la strada verso le casseforti. Dall’altro, Dubai manda via i suoi lavoratori immigrati, la Grecia mette a dieta i suoi funzionari, si rifilano con la taglierina i servizi pubblici. «Se i Paesi europei “periferici” scegliessero un approccio keynesiano, verrebbero massacrati dai mercati», ha spiegato un economista della Deutsche Bank sul Financial Times del 10 febbraio 2010. Raramente l’opposizione fra capitale e lavoro avrà preso una forma tanto ben definita.

L’urgenza del contraccolpo
Di Frédéric Lordon, economista, autore de La Crise de trop. Reconstruction d'un monde failli [La crisi di troppo. Ricostruzione di un mondo fallito], Fayard, Paris, 2009

Vi era qualche buon motivo per non essere interamente convinti dalla tesi di Naomi Klein sulla «strategia dello choc» (1), che senza dubbio è molto pertinente in un buon numero di casi, specialmente per i Paesi del sud o per le economie in fase di transizione. Ma che non ha nemmeno la valenza generale che essa implicitamente rivendica, mentre è abbastanza evidente che l’instaurazione del neoliberalismo nelle economia dette «sviluppate» non risponde al modello di «choc» - ma piuttosto all’attuazione progressiva e «fredda» di un programma che è diventato sistematico e si è approfondito a mano a mano che si sviluppava. Tuttavia occorre riconoscere che, per la prima volta, la sua analisi potrebbe essere verificata in modo spettacolare nel cuore stesso del «capitalismo progredito».

Con l’implacabile determinismo di un meccanismo a orologeria, la crisi della finanza privata è mutata in crisi delle finanze pubbliche. La cosa era fatale per almeno due ragioni. In primo luogo, era del tutto impossibile che i poteri pubblici si disinteressassero dell’imminente rischio del totale crollo nel settore bancario. La legittima esplosione di collera che suscita lo spettacolo della finanza, nuovamente risplendente a spese del contribuente, non toglie nulla a questo stato di fatto: il salvataggio non era un’opzione. Che il salvataggio delle banche abbia mescolato solidarietà di classe e comunelle varie (2) alle necessità dell’urgenza vitale è fuori di dubbio, ma non giustifica per nulla che si neghino gli ingredienti della miscela e soprattutto non l’ultimo.

Comunque non troppo fieri, d’altronde meno d’aver salvato la finanza che d’essere incapaci di imporle come contropartita alcunché di serio – questo la vera questione –, nondimeno i governi si danno delle arie davanti alle loro opinioni pubbliche, spiegando che, rimessa in piedi la finanza e coperti i suoi debiti, alla fine i piani di salvataggio non saranno costati nulla, perfino avranno «reso denaro al contribuente». Bisogna obiettivamente riconoscere che il commento non è altro che pura rodomontata e abituale falsificazione. I reali esborsi del governo francese saranno stati molto modesti, il ristabilimento generale della finanza ha fornito garanzie che si abbiano strumenti con che operare e i rifinanziamenti d’urgenza concessi alle banche sono stati debitamente rimborsati, con profitto per il bilancio dello Stato (3). La riduzione del costo del salvataggio della finanza, in apparenza, è ancor più spettacolare negli Stati Uniti. Partito su uno stanziamento di 700 miliardi di dollari, il
Trouble Asset Relief Program (TARP, ossia il «programma di assistenza agli attivi scompigliati», delizioso eufemismo…), per ragioni assai simili vede il suo conto finale ridotto a meno di 100 miliardi – che l’Amministrazione Obama intende d’altra parte cancellare completamente con l’aiuto di una tassa speciale imposta alle banche per un periodo di dieci anni.

La lusinghiera presentazione di questo felice epilogo trascura tuttavia qualche disgraziato dettaglio, in particolare il ruolo decisivo svolto da entità paragovernative quali Fannie Mae, Freddie Mac e la Federal Housing Finance Agency
(FHFA), intensamente sollecitate per evitare il crollo completo dell’immobiliare e della crescita, ma i cui costi specifici di salvataggio sono stati prudentemente tolti dal bilancio precedente, per la doppia ragione che quei costi – 400 miliardi di dollari, per lo meno… - sono molto meno sicuramente recuperabili. La finanza è salva e la recessione limitata, tuttavia mediante il trasferimento del grosso delle tensioni in un luogo confinato, dove nessuno può garantire che non vi si produca presto una bella esplosione (4).

Ma soprattutto accade che, circoscrivendo il costo dell’intervento pubblico nel salvataggio delle istituzioni finanziarie, i bilanci vantaggiosi dimenticano strada facendo l’essenziale, ovvero quanto costa ai budget fare fronte al brutale rallentamento dell’attività economica e alle abissali perdite di introiti fiscali che ne sono stata la conseguenza. L’esplosione dei debiti e dei deficit pubblici passa meno attraverso i «piani di salvataggio» che attraverso la mediazione elargita dalla macroeconomia – e qui non sono possibili scappatoie né miracolosi recuperi.

Poiché l’allungamento dei concatenamenti che portano dalle cause agli effetti è il mezzo più sicuro per far perdere di vista i rapporti d’insieme, adesso la finanza crede di poter agire come se avesse pagato lo scotto dei suoi “piccoli” eccessi e di rimandare tutto il resto (disoccupazione, recessione, deficit) alle lontane complessità della macroeconomia – tutte cose molto tristi, ma non affar suo. E dal momento che la vergogna è una parola che non entra nel suo vocabolario, eccola addirittura che, riprendendosi il pelo della bestia, non esita più come per il passato a fare lezione agli Stati, squattrinati e definitivamente irresponsabili. L’esplosione dei debiti pubblici è un problema, ripetono, con la fronte corrugata, i gestori dei settori fixed incombe (5)… salvati d’urgenza dal decesso con i soldi dei contribuenti.

Di nuovo fiorenti, in parte per il fatto che i sostegni pubblici massicci alla congiuntura d’insieme evita loro per una seconda volta di perire sotto il peso dei cattivi debiti che altrimenti le avrebbero spazzate via, le banche non hanno visibilmente alcun scrupolo, una volta rimesse in salute, a speculare contro gli Stati che le hanno tirate fuori dall’abisso, con questo facendo salire il costo dei prestiti pubblici, quindi aggravando il problema dei deficit… dei quali sono esse stesse l’origine.

Ed ecco dove lo «choc» comincia a prendere forma. I salariati soffrono per la recessione? Come contribuenti pagheranno per giunta l’adeguamento del bilancio! Sarà quindi doppia pena. Con un’abilità che non si può non trovare rimarchevole, l’ideologia neoliberale sta operando a suo favore il radicale capovolgimento di un avvenimento che avrebbe dovuto segnare  il suo atto di morte: lungi dall’accontentarsi di una di queste ricorrenti sequenze di «rigore», eccola che annuncia di fatto un programma di smantellamento dello Stato di ampiezza mai vista – proprio nelle stesse proporzioni dei debiti e deficit pubblici che le sue proprie effettuazioni hanno appena causato. Un judoka non avrebbe fatto di meglio.

Là dove gli choc «ordinari» considerati da Naomi Klein provenivano in generale dall’esterno – colpi di Stato, contro-rivoluzioni, catastrofi naturali – creando uno stato di disordine in seguito al quale soltanto l’agenda neoliberale attecchiva, lo choc attuale è stato interamente prodotto dall’interno e si trova sfruttato dalle forze che sarebbero dovute essere definitivamente squalificate… ma trovano ancora l’impudenza di cavarne l’occasione di una avanzata supplementare. Ecco quindi che l’ampiezza stessa del collasso del neoliberalismo crea, con le sue conseguenze, il motivo e il pretesto del suo riporto su una scala ancor più ampia! Perché va da sé che, per ritornare indietro dai deficit a due cifre o quasi (in termini di PIL) verso il 3% del patto di stabilità, occorrerà tagliare nel vivo con una brutalità senza precedenti. Si abbandona quindi il registro della «riforma» incrementale in vigore da due decenni per entrare in un regime inedito di capovolgimento accelerato, perché sono soglie d’«allineamento» in cui non si tratta più di un cambiamento di gradazione ma invece di un mutamento di natura.

E lì dove la finanza si accontenta di mantenere il discorso tecnico sui rischi di default sovrano e sulle tensioni dei tassi di lungo termine, l’apparato ideologico allargato – esperti rimessi in sella, mezzi di comunicazione di massa devoti da lunga data – ha già iniziato a offrire i suoi servigi. Impossibile passare una giornata senza che da qualche parte non si faccia sentire una voce profetica che avverte il disastro e chiama allo sforzo. Il martellamento «debito pubblico» è diventato un rumore di fondo permanente e difficilmente si troverebbe nel recente passato un caso di «lavorazione» dell’opinione pubblica più intenso e continuo – d’altra parte se ne potrà intravedere un segno dall’ampiezza delle trasformazioni che si preparano.

Sorprendentemente rinvigorito dopo un anno di depressione intellettuale, durante il quale anch’esso ha creduto il suo caro capitalismo sul bordo del baratro, The Economist non intende lasciare ad alcuno il magistero della reconquista. Eccolo dunque che, da un trimestre, moltiplica metodicamente ed esaurientemente i numeri speciali sulle «finanze pubbliche». Regno Unito, Stati Uniti e poi, certamente, i casi più piccanti, troppo belli per essere veri, Irlanda, Spagna, Grecia, occasioni d’oro per ripetere la medesima entusiasmante ingiunzione: «riduzione». A chi vorrebbe convincersi che i grandi liberali escono dal loro periodo di vergogna e sono nuovamente all’offensiva basterebbe constatare il tono con il quale il «settimanale di riferimento» impartisce i suoi imperiosi consigli: «Nel mondo dell’impresa ridurre il personale del 10% è moneta corrente. Non vi è motivo perché i governi non possano fare altrettanto. (…) I salari del settore pubblico possono essere abbassati, tenuto conto della sicurezza del posto di lavoro. (…) Le pensioni del settore pubblico sono troppo generose (…) (6)», il tutto in un editoriale intitolato con tocco leggero «Stop!» e concluso con un avvertimento senza ambiguità: «The Economist ritornerà su tutte queste questioni nei prossimi mesi» - si può credergli.

Si può anche non acconsentire interamente a questa fatalità annunciata né risolversi a uscire a pezzi dal tiro di sbarramento ideologico – per non parlare delle conseguenze materiali dello «choc» stesso. Per questo motivo è utile raccogliere in un quadro coerente l’insieme, ancora sparpagliato, dei segni precursori, allo scopo di dare un’idea più netta del programma in corso d’elaborazione. I salariati del settore pubblico irlandese, ai quali si sono proposte diminuzioni nominali del salario nell’ordine del 10%, sanno già che cosa attendersi; per lo steso motivo, i loro omologhi greci sono destinati alla medesima punizione (con il caloroso omaggio del sostegno della Commissione europea); quanto ai francesi, presto metteranno insieme la riforma delle pensioni, il progetto di licenziamento dei funzionari e l’idea (insensata) di una costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio ottenendo una visione più chiara della distruzione dello Stato sociale che li attende; con l’effetto, forse, che in tutti questi Paesi, rompendo con il prudente gradualismo dei decenni precedenti, la violenza concentrata inerente allo «choc» non lascerà stavolta il corpo sociale senza reazioni.

Anche perché, in questa eventualità, se pur è difficile cadere nel diniego del problema dei bilanci, non si poi tenuti a prospettare come unica soluzione la via d’uscita dei colpi brutali, proprio là dove meritano di essere ricordate alcune interessanti possibilità (però sistematicamente scartate).

A costo di considerarne soltanto una, certamente occorre pensare all’aumento del prelievo fiscale, purché sia ben diretto, per non uccidere la crescita né far pagare il costo della crisi a coloro che non hanno avuto parte alcuna nel suo scatenarsi. Si dirà che questa soluzione considera un contingente di soggetti tassabili solamente dei più ridotti. Ciò che non è errato nel numero ma è – per fortuna – molto inesatto nella sostanza. A dire il vero, i «soggetti» in questione entrano in categorie abbastanza svariate, che presentano altrettanto varie modalità fiscali con rendimenti molto promettenti. Transazioni finanziarie, istituzioni finanziarie e «persone finanziarie» sono i fortunati candidati a riparare alla loro propria nocività, perché, lo si è ben capito, la sola idea direttiva ammissibile nell’adeguamento fiscale è che solamente alla finanza spetta il pagamento totale del costo della sua crisi.

Se è permesso dubitare dei meriti della tassa Tobin come strumento di trasformazione radicale dei «risultati» della speculazione finanziaria internazionale, della quale non modifica le strutture fondamentali, è tuttavia utile ricordarsi che, precisamente in quanto tassa, essa non perde nulla delle sue robuste proprietà fiscali: essa incassa! (7). Incassa perfino molto poiché il volume astronomico delle transazioni, come si è notato in più occasioni, offre una leva esorbitante, tale da rendere straordinariamente lucroso il più modesto tasso nominale di prelievo.

Se pure una tassa sulle transazioni sarebbe in primo luogo pagata dalle istituzioni finanziarie, queste vengono subito in seconda posizione, e a titolo più diretto, in quanto preposte al passaggio finale. Sarà difficile considerare che una tassa sulle banche (e i fondi) cade nell’irragionevolezza economica riservata all’incoscienza rivoluzionaria, adesso che perfino l’amministrazione Obama si avvia su quella strada; e un vasto terreno di espletazione si offre all’immaginazione fiscale per determinare le precise modalità di questo prelievo: sui profitti, sull’attivo totale, sugli attivi più arrischiati (per scoraggiarne la crescita), sulla massa salariale dei meglio remunerati, semplicemente per riempire il buco attuale o meglio per costituire un fondo di garanzia futura, ecc.? E poiché non si vede perché gli azionisti, proprietari e quindi responsabili, sarebbero esonerati dai piccoli lavori domestici nelle loro banche, il divieto di distribuzione di qualsivoglia dividendo durante il periodo di recupero sarebbe perfettamente logico.

Arrivano infine i soggetti fisici. Quadri dirigenti delle banche, amministratori (li si dimentica troppo spesso), traders. Ai quali si dovrebbero aggiungere, al di là del perimetro delle sole istituzioni finanziarie, tutti i loro simili della stessa risma (8). A questo punto ci si irriterà per misure tanto strettamente mirate da essere destinate a rendere molto poco e ad avere di conseguenza efficacia soltanto simbolica, confermando così il loro carattere esclusivamente punitivo. Ma ciò significherebbe dimenticare che questo gruppo di contribuenti, effettivamente ristretto nel numero, da un decennio e mezzo capta una parte crescente della massa salariale globale e da solo costituisce un cespite che conta in punti di PIL.

Non è inutile ripetere che se, beninteso, la questione dei bonus e delle remunerazioni (per il settore bancario) rimane di secondaria rilevanza nell’economia generale della crisi finanziaria, essa è pur sempre della più alta importanza dal punto di vista politico della giustizia sociale – e adesso dell’opportunità fiscale. Poiché il discorso della finanza e dei suoi collaboratori è molto prevedibile, quindi avremo immancabilmente lo spettro delle «fughe di cervelli», così vale la pena di avvertire subito che questo entra nella zona dei rendimenti , non fa paura ai più, comincia perfino a infastidire un pochino e in effetti non tiene la strada neppure per un secondo, messo di fronte a qualche obiezione seria (9).

Qualcuno nel «sistema» comincia a sentirsi salire dentro una sacrosanta strizza
E poi, a costo di scivolare nell’ammonimento, tanto vale dire le cose ancor più fuori dai denti. Il processo che ha trasformato la crisi della finanza privata in crisi finanziarie pubbliche non si fermerà così a buon punto: la tappa successiva è quella che fa volgere la crisi finanziaria pubblica in crisi politica. Qualcuno nel «sistema» comincia a sentirsi salire dentro una dannata paura: si consideri come un’indicazione molto significativa che notori “nemici” della finanza come
Dominique Strauss-Kahn e Jean-Claude Trichet si siano pubblicamente preoccupati che il corpo sociale prenda probabilmente molto male che gli si venga a chiedere di assorbire una nuova crisi finanziaria. L’aspetto più buffo, se così si può dire, deriva dal fatto che non solamente l’ipotesi di una «prossima» non può essere per niente esclusa, ma che essa ha buone chance di avviarsi nel comparto dei debiti pubblici, quindi come conseguenza diretta della gestione della crisi precedente – ed è vero che questo comincerà ad avere molte conseguenze.

Scommettiamo che, per calmare un poco il popolo malcontento, i sindacati più istituzionalizzati, facenti ormai parte, al fianco della destra e della «sinistra» socialdemocratica, di un blocco di potere di fatto unificato al di là delle sue divisioni secondarie, organizzeranno qualche marcia innocente, se possibile in un giorno di sole, fra République e Nation [ndt.: due piazze parigine], magari anche dei picnic. Tuttavia è possibile che l’opzione «passeggiata urbana» non sia più sufficiente e che il popolo in questione, un po’ stanco di andare in giro, finisca per trovare di averne abbastanza di essere preso in giro.

Senza pronosticare ciò che allora potrebbe accadere, e di cui i greci ci daranno forse presto un saggio, è utile ricordare che un gruppo, per sua natura non cattivo, non lo diventa mai se non a forza di essere maltrattato e soprattutto nel ritrovarsi in una situazione senza uscita, come gli si continua a ripetere. Altre soluzioni ve ne sono (10). Presentate con qualche fermezza potrebbero perfino prendere l’aspetto di un contro-choc.

(1) In
La Stratégie du choc. La montée d'un capitalisme du désastre (Actes Sud, Arles, 2008), Naomi Klein sostiene che lo choc provocato dalle catastrofi permette l’imposizione di politiche ultraliberiste.
(2) Le condizioni del salvataggio di
American International Group (AIG), divenuto di fatto il salvataggio delle «contropartite» di AIG, e in particolare (ma non soltanto) di Goldman Sachs, richiederebbero una discussione dettagliata.
(3) Poiché la Société de financement de l'économie française (SFEF)ha prestato alle banche a un tasso superiore di quattrocento punti base al tasso delle sue proprie risorse.
(4) Come l’attestano la soppressione del tetto agli aiuti previsti (due volte 200 miliardi di dollari per Fannie-Freddy) e l’allungamento fino al 2012 della garanzia di Stato sulle loro perdite.
(5) Dipartimenti delle attività sui prodotti di tassi, una gran parte dei quali è dedicata alle transazioni sui titoli di debito pubblico.
(6) The Economist, Londra, 23 gennaio 2010.
(7)
André Orléan, « Beaucoup mieux qu'une taxe Tobin », Challenges, Paris, 29 octobre 2009.
(8) Vale a dire del medesimo 1% socialmente superiore della popolazione.
(9)Leggere, p. es.,
« Bonus et primes : le (résistible) chantage des "compétents"» et « Bonus : les faux-semblants de la régulation Potemkine », La pompe à phynances, blog. mondediplo.net, 26 mars et 21 août 2009.
(10) Leggere «
Si le G20 voulait... » et « Au-delà de la Grèce : déficit, dettes et monnaie », La pompe à phynances, blog.mondediplo.net, 18 septembre 2009 et 17 février 2010.

Testo originale :

Le Monde Diplomatique, mars 2010, page 9

GOUVERNEMENTS SOUS LA COUPE DES BANQUES
De la crise des subprime aux manœuvres spéculatives en Europe, de la panique bancaire à la dépression, les soubresauts de l'économie mondiale scandent depuis deux ans des histoires imbriquées. Celle d'un ménage américain appauvri par les bas salaires, et du courtier qui lui propose de s'endetter pour acheter une maison. Celle de l'établissement financier effondré sous le poids de ses créances douteuses, et de l'Etat qui le renfloue sur le dos des contribuables. Celle, enfin, de l'investisseur enhardi pariant sur la faillite d'un pays, et de la puissance publique apeurée qui présente l'addition des plans de rigueur à sa population. Toutes concourent au même dénouement. D'un côté, les desperados de la finance transfèrent leur dette aux Etats et retrouvent le chemin des coffres. De l'autre, Dubaï renvoie ses travailleurs immigrés ; la Grèce met ses fonctionnaires à la diète ; on massicote les services publics. « Si les pays européens "périphériques" choisissaient une approche keynésienne, ils seraient massacrés par les marchés », a expliqué un économiste de la Deutsche Bank dans le Financial Times du 10 février 2010. Rarement l'opposition entre capital et travail aura pris une forme aussi nette.

L'urgence du contre-choc
Par Frédéric Lordon ** Economiste, auteur de La Crise de trop. Reconstruction d'un monde failli, Fayard, Paris, 2009.

Il y avait quelques raisons de ne pas être entièrement convaincu de la thèse de Naomi Klein sur la « stratégie du choc » (1). Elle est sans doute très pertinente dans bon nombre de cas, notamment pour les pays du Sud ou les économies en transition. Mais elle n'a pas non plus la généralité qu'elle revendique implicitement, et il est assez évident que l'installation du néolibéralisme dans les économies dites « développées » ne répond pas au modèle du « choc » — plutôt à la mise en oeuvre progressive et « froid » d'un programme qui s'est systématisé et approfondi à mesure qu'il se déployait. Il faut cependant reconnaître que, pour la première fois, son analyse pourrait se trouver spectaculairement vérifiée au coeur même du capitalisme « développé ».

Avec l'implacable déterminisme d'un mécanisme horloger, la crise de la finance privée a muté en crise des finances publiques. La chose était fatale pour deux raisons au moins. En premier lieu, il était tout à fait impossible que les pouvoirs publics se désintéressent du risque imminent d'effondrement total du secteur bancaire. Le légitime débordement de colère que suscite le spectacle de la finance, de nouveau resplendissante aux frais du contribuable, n'ôte rien à cet état de fait : le sauvetage n'était pas une option. Que le renflouement des banques ait mêlé solidarité de classe et copinages variés (2) aux nécessités de l'urgence vitale n'est pas douteux, mais ne justifie en rien de nier aucun des ingrédients du mélange et surtout pas le dernier.

Pas très fiers tout de même, d'ailleurs moins d'avoir sauvé la finance que d'être incapables de lui imposer quoi que ce soit de sérieux en contrepartie — le vrai débat —, les gouvernements plastronnent néanmoins devant leurs opinions publiques en expliquant que, la finance remise et ses dettes remboursées, les plans de sauvetage in fine n'auront rien coûté, parfois même « rapporté de l'argent au contribuable ». Il faut objectivement reconnaître que le propos n'est pas que pure rodomontade ni usuelle contrefaçon. Les débours réels du gouvernement français auront été très modestes, le rétablissement général de la finance a dispensé les garanties d'avoir à jouer, et les refinancements d'urgence octroyés aux banques ont été dûment remboursés, avec profits pour le budget de l'Etat (3). Le rétrécissement du coût du sauvetage de la finance est, en apparence, plus spectaculaire encore aux Etats-Unis. Parti sur une enveloppe de 700 milliards de dollars, le Trouble Asset Relief Program (TARP, soit « programme d'assistance aux actifs troublés », délicieux euphémisme...), pour des raisons assez semblables, voit son addition finale réduite à moins de 100 milliards — que l'administration Obama entend d'ailleurs éponger complètement à l'aide d'une taxe spéciale levée sur les banques pour une période de dix ans.

La présentation flatteuse de cet heureux dénouement laisse cependant de côté quelques disgracieux détails, notamment le rôle décisif joué par les entités paragouvernementales telles que Fannie Mae, Freddie Mac et la Federal Housing Finance Agency (FHFA), intensément sollicitées pour éviter l'effondrement complet de l'immobilier et de la croissance, mais dont les coûts particuliers de sauvetage ont été prudemment sortis du bilan précédent, pour la double raison que ces coûts-là — 400 milliards de dollars tout de même... — sont bien moins sûrement récupérables. La finance est sauvée et la récession limitée, mais par report du gros des tensions en un lieu confiné dont rien ne peut garantir qu'il ne s'y produira pas bientôt une belle explosion (4).

Il y a surtout que, circonscrivant le coût de l'intervention publique au sauvetage des institutions financières, les bilans avantageux oublient en route l'essentiel, à savoir ce qu'il en coûte aux budgets de faire face au brutal ralentissement de l'activité et aux abyssales pertes de recettes fiscales qui se sont ensuivies. L'explosion des dettes et des déficits publics passe donc bien moins par les « plans de sauvetage » que par la médiation élargie de la macroéconomie — et là, pas d'échappatoire ni de miraculeux rétablissement possibles.

L'ALLONGEMENT des chaînes qui mènent des causes aux effets finaux étant le plus sûr moyen de faire perdre de vue les liaisons d'ensemble, la finance croit maintenant pouvoir faire comme si elle avait elle-même payé l'écot de ses petits débordements et renvoyer tout le reste (chômage, récession, déficits) aux lointaines complexités de la macroéconomie — bien triste, mais pas son affaire. Et comme la vergogne est un mot qui n'entre pas dans son vocabulaire, la voilà même qui, reprenant du poil de la bête, n'hésite plus à faire, comme par le passé, la leçon aux Etats, impécunieux et définitivement irresponsables. L'explosion des dettes publiques est un problème, répètent, le front plissé, les gérants des départements fixed income (5)... sauvés dans l'urgence du trépas par l'argent du contribuable.

Florissantes à nouveau, en partie du fait que les soutiens publics massifs à la conjoncture d'ensemble leur évitent une seconde fois de périr sous l'explosion des mauvaises dettes qui les auraient fatalement emportées autrement, les banques n'ont visiblement pas de scrupule, santé refaite, à spéculer désormais contre les Etats qui les ont tirées du gouffre, faisant par là monter le coût des emprunts publics, donc aggravant le problème des déficits... dont elles sont elles-mêmes l'origine.

Et voilà où le « choc » commence à prendre forme. Les salariés souffrent-ils de la récession ? Comme contribuables, ils paieront au surplus l'ajustement budgétaire ! Ce sera donc la double peine. Avec une habileté qu'on ne peut pas ne pas trouver remarquable, l'idéologie néolibérale est en train d'opérer en sa faveur le renversement radical d'un événement qui aurait dû signer son acte de décès : loin de se contenter de l'une de ces récurrentes séquences de « rigueur », la voilà qui annonce en fait un programme de démantèlement de l'Etat d'une ampleur encore jamais vue — en fait à proportion même de l'explosion des dettes et déficits publics que ses propres réalisations viennent d'engendrer. Un judoka n'aurait pas fait mieux.

Là où les chocs « ordinaires » considérés par Naomi Klein venaient généralement du dehors — coups d'État, contre-révolutions, catastrophes naturelles —, créant un état de désordre à la suite duquel seulement l'agenda néolibéral embrayait, le choc présent a été entièrement produit de l'intérieur et se trouve exploité par les forces qui auraient dû en être définitivement disqualifiées... mais trouvent encore l'audace d'en tirer l'occasion d'une avancée supplémentaire. Voilà donc que l'ampleur même de la déconfiture du néolibéralisme crée, par ses conséquences, le motif et le prétexte de sa reconduction à une échelle élargie ! Car il va sans dire que, pour revenir des déficits à deux chiffres ou presque (en points du produit intérieur brut [PIB]) vers les 3 % du pacte de stabilité, il va falloir trancher dans le vif avec une brutalité sans précédent. On quitte donc le registre de la « réforme » incrémentale en vigueur depuis deux décennies pour entrer dans un régime inédit de bouleversement accéléré, car il est des seuils d'« ajustement » où il n'est plus question d'un changement de degré mais d'un changement de nature.
Et là où la finance se contente de tenir le discours technique des risques de défaut souverain et des tensions sur les taux longs, l'appareil idéologique élargi — experts remis en selle, médias dévoués de longue date ou n'en étant plus à une contradiction près — a déjà commencé à offrir ses services. Impossible de passer une journée sans que se fasse entendre quelque part une voix prophétique avertissant du désastre et appelant à l'effort. Le matraquage « dette publique » est devenu un bruit de fond permanent et l'on trouverait difficilement dans le passé récent un cas de « travail » de l'opinion plus intense et plus continu — on pourra d'ailleurs y voir un indice de l'ampleur des transformations en préparation.

ETONNAMMENT revigoré après une année de dépression intellectuelle où lui aussi a bien cru son cher capitalisme au bord de l'écroulement, The Economist entend ne laisser à personne le magistère de la reconquista. Le voilà donc qui, depuis un trimestre, multiplie avec méthode et exhaustivité les dossiers spéciaux « finances publiques ». Royaume-Uni, Etats-Unis et puis, bien sûr, les cas les plus croustillants, trop beaux pour être vrais, Irlande, Espagne, Grèce, occasions de répéter la même enthousiasmante injonction : «réduction ». Pour qui voudrait se convaincre que les grands libéraux sortent de leur période honteuse et sont de nouveau à l'offensive, il suffirait de prendre connaissance du ton sur lequel l'« hebdomadaire de référence» fait part de ses impératifs conseils : « Dans le monde de l'entreprise, réduire les effectifs de 10 % est monnaie courante. Il n'y a pas de raison que les gouvernements ne puissent le faire également. (...) Les salaires du secteur public peuvent être abaissés compte tenu de la sécurité de l'emploi. (...) Les retraites du secteur public sont bien trop généreuses (...) (6) », le tout dans un éditorial intitulé avec nuance « Stop ! » et conclu d'un avertissement sans ambiguïté : « The Economist reviendra sur toutes ces questions dans les mois qui viennent » — on peut lui faire confiance.

On peut aussi ne pas consentir entièrement à cette fatalité annoncée ni se résoudre à sortir en charpie du tir de barrage idéologique — pour ne rien dire des conséquences matérielles du « choc » lui-même. C'est pourquoi il est utile de rassembler en un tableau cohérent l'ensemble encore épars des signes avant-coureurs afin de donner une idée plus nette du programme en cours d'élaboration. Les salariés du secteur public irlandais, à qui l'on a « proposé » des baisses nominales de salaire de l'ordre de 10 %, savent déjà à quoi s'en tenir ; pour le même motif, leurs homologues grecs sont promis à la même punition (avec en prime le chaleureux soutien de la Commission européenne) ; quant aux Français, ils mettront bientôt bout à bout la réforme des retraites, les projets de licenciement des fonctionnaires et l'idée (insensée) d'une constitutionnalisation de l'équilibre budgétaire pour avoir une vue plus claire de la destruction de l'Etat social qui les attend ; avec peut-être pour effet que, dans tous ces pays, rompant avec le prudent gradualisme des décennies antérieures, la violence concentrée inhérente au « choc » même ne laissera pas cette fois les corps sociaux sans réaction.
C'est pourquoi aussi, dans cette éventualité, et s'il est difficile de tomber dans le déni du problème budgétaire, on n'est pas tenu d'envisager comme seule solution la voie de sortie des coupes sauvages là où quelques possibilités intéressantes (mais systématiquement écartées) méritent d'être rappelées.

Quitte à n'en considérer qu'une, c'est bien sûr à l'augmentation du prélèvement fiscal qu'il faut penser pourvu que celui-ci soit bien dirigé afin de ne pas tuer la croissance ni faire payer le coût de la crise à ceux qui n'auront eu aucune part à son déclenchement. On dira que cette clause ne laisse qu'un contingent de sujets taxables des plus étroits. Ça n'est pas faux en nombre mais c'est — heureusement — très inexact en assiette. A vrai dire, les « sujets » en question entrent dans des catégories assez variées, qui déclinent autant de modalités fiscales annonçant des rendements tout à fait prometteurs. Transactions financières, institutions financières et « personnes financières » sont les heureux candidats à la réparation de leurs propres nuisances puisque, on l'a compris, la seule idée directrice admissible de l'ajustement fiscal tient qu'il reviendrait exclusivement à la finance de payer la totalité du coût de sa crise.

S'il est permis de douter des mérites de la taxe Tobin comme instrument de transformation radicale des « données » de la spéculation financière internationale, dont elle ne modifie pas fondamentalement les structures, il est cependant utile de se souvenir que, précisément en tant que taxe, elle ne perd rien de ses robustes propriétés fiscales : elle rapporte (7) ! Elle rapporte même beaucoup puisque, comme il l'a été noté à de si nombreuses reprises, le volume astronomique des transactions offre un levier faramineux qui rend extraordinairement juteux les taux nominaux de prélèvement les plus modestes.

Quand bien même une taxe sur les transactions serait en premier lieu payée par les institutions financières, ces dernières viennent immédiatement en second, et à titre plus direct, comme préposées au passage de la serpillière. On aura du mal à considérer qu'une taxe sur les banques (et les fonds) tombe dans la déraison économique réservée à l'inconscience révolutionnaire maintenant que même l'administration Obama en prend le chemin ; et c'est un vaste terrain d'exercice qui s'offre à l'imagination fiscale pour déterminer les modalités précises de ce prélèvement : sur les profits, l'actif total, les actifs les plus risqués (pour en décourager la croissance), la masse salariale des mieux payés, pour combler simplement le trou présent ou constituer en plus un fonds de garantie futur, etc. ? Et puisqu'on ne voit pas pourquoi les actionnaires, propriétaires donc responsables, seraient exonérés des petits travaux ménagers de leurs banques, l'interdiction de tout dividende pendant la période à éponger n'aurait rien que de parfaitement logique.

VENNENT enfin les sujets physiques. Cadres dirigeants des banques, administrateurs (on les oublie trop souvent), traders, auxquels il faudrait d'ailleurs ajouter, au-delà du périmètre des seules institutions financières, tous leurs semblables du même centile (8). C'est à ce moment sans doute qu'on s'offusquera de mesures si étroitement ciblées qu'elles sont vouées à ne rapporter que très peu, et ne peuvent par conséquent avoir d'autre efficacité que symbolique, attestant par là leur caractère exclusivement punitif. Mais c'est oublier que ce groupe de contribuables, il est vrai très étroit en nombre, n'en capte pas moins depuis une décennie et demie une part croissance de la masse salariale globale et qu'il constitue à lui seul une assiette qui se compte en points de PIB.

Il n'est pas inutile de redire que si, oui, la question des bonus et des rémunérations (pour le secteur bancaire) demeure secondaire dans l'économie générale de la crise financière, elle n'en est pas moins de la plus haute importance du point de vue politique de la justice sociale — et maintenant de l'opportunité fiscale. Comme — le discours de la finance et de ses collaborateurs étant très prévisible — nous aurons immanquablement droit au spectre de la « fuite des cerveaux », autant avertir tout de suite qu'il entre dans la zone des rendements décroissants, ne fait plus peur à grand monde, commence même à agacer un peu, et en fait ne tient pas la route une seconde confronté à quelques objections sérieuses (9).

Quelques-uns dans le « système » commencent à sentir monter en eux une sainte trouille
Et puis, quitte à faire dans l'avertissement, autant dire les choses un peu plus carrément encore. Le processus qui a fait muter la crise de finance privée en crise de finances publiques ne s'arrêtera pas en si bon chemin : l'étape d'après est celle qui fait tourner la crise de finances publiques en crise politique. Quelques-uns dans le « système » commencent à sentir monter en eux une sainte trouille, et l'on tiendra pour une indication très significative que de notoires ennemis de la finance comme MM. Dominique Strauss-Kahn et Jean-Claude Trichet se soient publiquement inquiétés de ce que les corps sociaux prendraient probablement très mal qu'on leur demandât de venir éponger une nouvelle crise financière. Le plus drôle, si l'on peut dire, tient au fait que non seulement l'hypothèse d'une « prochaine » n'est nullement à exclure mais qu'elle a toute chance de démarrer dans le compartiment des dettes publiques, en conséquence directe donc de la gestion de la crise précédente — il est vrai que ça va commencer à faire beaucoup.

Gageons que, pour calmer un peu le populo mécontent, les syndicats les plus institutionnels, faisant désormais partie, aux côtés de la droite et de la « gauche » social-démocrate, d'un bloc de pouvoir unifié de fait par-delà ses divisions secondes, organiseront quelques innocentes marches, si possible un jour de soleil, entre République et Nation, peut-être même des piqueniques. Il est cependant possible que l'option « promenade urbaine » ne soit plus suffisante et que le populo en question, un peu las de se promener, finisse par trouver qu'il en a également assez de se sentir promené.

SANS préjuger de ce qui pourrait se passer alors, et dont les Grecs nous donnerons peut-être bientôt un avant-goût, il est utile de se souvenir qu'un groupe qui n'est pas naturellement méchant ne le devient jamais autant qu'à force d'avoir été maltraité et surtout de se retrouver dans une situation de laquelle on ne cesse de lui répéter qu'il n'y a aucune issue — aucune autre que celle qui le maltraite. D'autres issues, il y en a (10). Présentées avec un peu de fermeté, elles pourraient même prendre l'allure d'un contre-choc.
FRÉDÉRIC LORDON.

(1) Dans La Stratégie du choc. La montée d'un capitalisme du désastre (Actes Sud, Arles, 2008), Naomi Klein soutient que le choc provoqué par les catastrophes permet l'imposition de politiques ultralibérales.
(2) Les conditions du sauvetage d'American International Group (AIG), devenu de fait le sauvetage des «contreparties» d'AIG, et notamment (mais pas seulement) de Goldman Sachs, appelleraient une discussion détaillée.
(3) Puisque la Société de financement de l'économie française (SFEF) a prêté aux banques à un taux supérieur de quatre cents points de base au taux de ses propres ressources.
(4) Comme l'attestent la suppression du plafond d'aides prévu (deux fois 200 milliards de dollars pour Fannie-Freddie) et l'allongement jusqu'à 2012 de la garantie d'Etat sur leurs pertes.
(5) Départements des activités sur les produits de taux, dont une grande part est consacrée aux transactions sur les titres de dettes publiques.
(6) The Economist, Londres, 23 janvier 2010.
(7) André Orléan, « Beaucoup mieux qu'une taxe Tobin », Challenges, Paris, 29 octobre 2009.
(8) C'est-à-dire du même 1 % supérieur de la population.
(9) Lire, par exemple, « Bonus et primes : le (résistible) chantage des "compétents"» et « Bonus : les faux-semblants de la régulation Potemkine », La pompe à phynances,
blog. mondediplo.net, 26 mars et 21 août 2009.
(10) Lire « Si le G20 voulait... » et « Au-delà de la Grèce : déficit, dettes et monnaie », La pompe à phynances,
blog.mondediplo.net, 18 septembre 2009 et 17 février 2010.



Giovedì 11 Marzo,2010 Ore: 14:31
 
 
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