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In Ungheria svolta ultranazionalista xenofoba e razzista

Rassegna stampa


Decine di migliaia in piazza contro la nuova costituzione


In piazza. Centomila a Budapest contro la nuova Costituzione voluta dal premier Orban

Divieti. Stretta sulla libera informazione, stravolto il ruolo della Banca centrale, limitazioni ai diritti

Ungheria, fa paura all’Europa la svolta ultra-nazionalista

«È il declino della democrazia, una nuova dittatura», denunciano i maggiori intellettuali ungheresi. Bruxelles e Fmi bloccano i negoziati con Budapest. E qualcuno pensa che il Paese possa venire espulso dalla Ue

di Roberto Brunelli (l’Unità, 04.01.2012)

Umorismo magiaro, lo chiamano. «Hey Europa, scusaci per il nostro primo ministro» c’era scritto su uno dei cartelli dei manifestanti che sfilavano lunedì sera per le strade di Budapest. Settantamila, secondo la polizia, centomila per gli organizzatori: cifre comunque inedite in Ungheria, che la dicono lunga sulla profonda inquietudine che ormai attanaglia il Paese, nel quale finora le mobilitazioni muovevano poche centinaia di persone. Questa volta è diverso. Davanti all Teatro dell’Opera c’erano i militanti i partiti della sinistra, certo, ma anche gli ambientalisti, i movimenti della società civile, cittadini comuni. Turbati, oltreché infuriati, per la radicale svolta fieramente reazionaria del governo guidato da Viktor Orban. Una svolta che preoccupa non solo Bruxelles, ma anche Parigi, Washington, l’Fmi. Una svolta cupa e piena di ombre, che fa dire ad un diplomatico di lungo corso, come l’ex ambasciatore americano Mark Palmer, che «l’espulsione dell’Ungheria dalla Ue oggi non è più una prospettiva impensabile».

Sotto accusa c’è la nuova Costituzione, fatta approvare dal premier con un colpo di mano ed entrata in vigore il primo gennaio. Un testo che «distrugge lo Stato democratico», come denuncia in una durissima lettera-appello un gruppo di ex dissidenti ungheresi. Gente che se ne intende di repressione e di Stati totalitari, visto che tra loro figurano storici come Janos Kenedi, scrittori come Gyorgy Konrad e attivisti per i diritti umani come Miklos Haraszti, gente che tra il 1956 e il 1989 non esitò ad opporsi apertamente ai governi comunisti dell’epoca e che oggi non esita a parlare di «declino della democrazia» e di «avvento della dittatura». L’accusa della piazza e degli intellettuali, la preoccupazione delle istituzioni europee ed internazionali, è che Orban abbia preparato il terreno per «rimuovere pesi e contrappesi democratici e di perseguire la sistematica chiusura delle istituzioni indipendenti». Con i numeri di cui dispone, il premier ha potuto agevolmente cucirsi addosso una legge fondamentale su misura: duramente criticata anche dal segretario di Stato Usa Hillary Clinton, la nuova Costituzione non solo rispolvera concetti cari al nazionalismo magiaro, come la Corona di Santo Stefano, ma si scatena su ogni aspetto della vita civile e pubblica. Dal divieto del matrimonio gay al giro di vite sul pluralismo dell’informazione, fino all’indipendenza del sistema giudiziario: il tutto nel nome di Dio, come spesso capita in questi casi.

CONTROLLO TOTALE

Con il suo partito, Fidesz, l’autoritario primo ministro occupa i due terzi dei seggi parlamentari. Una forza che gli ha permesso di stravolgere anche il ruolo dell’autorità monetaria. Nel penultimo giorno del 2011, con apposita legge, Orban ha de facto sottomesso la Banca centrale ungherese al potere politico. La nuova norma fonde l’istituto di emissione del fiorino con l’autorità di controllo finanziario (Pszf), esautorando così il governatore Andras Simor, notoriamente sgradito a Orban, e arriva sinanche a metter mano ai meccanismi che determinano i tassi d’interesse.

L’Europa è in grave ambasce per quello che ogni giorni di più si profila come il «caso Ungheria». Bruxelles, attraverso il portavoce della Commissione Olivier Bailly («siamo molto preoccupati»), fa sapere che si riserva di analizzare i testi costituzionali per verificare la loro compatibilità con il diritto europeo. Bailly ricorda anche che a dicembre Ue e Fmi hanno interrotto i negoziati preliminari sulla richiesta di aiuti finanziari (15-20 miliardi) avanzata da Budapest e che «ancora non è stata decisa» una data per l’avvio delle trattative formali, previste per gennaio. E a Orban che ha dichiara di non ritenere «cruciali» tali negoziati, l’Unione europea ribatte che la modifica dello statuto della Banca centrale è ritenuta una possibile «violazione dell’articolo 130 dei Trattati». Lo stesso presidente Barroso pare abbia «più volte» esercitato pressioni su Viktor Orban: senza alcun effetto visibile. Anche il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, lancia l’allarme: «A Budapest c’è un problema oggi». Parigi chiede l’intervento della Commissione europea «nel rispetto del bene comune di tutti i Paesi europei e dei grandi valori democratici». Il sospetto è che sia troppo tardi.

Giorgio Pressburger. La svolta a destra dell’Ungheria

 
Fermiamo questi zombi xenofobi e razzisti”

di Elisabetta Reguitti (il Fatto, 04.01.2012)

Nessuno può permettersi di considerare marginale quello che sta accadendo in Ungheria”. Lo scrittore e regista Giorgio Pressburger parla nella giornata in cui l’Ue annuncia di voler verificare la compatibilità della nuova Costituzione con il diritto europeo. Contro la Carta, decine di migliaia di ungheresi sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del premier conservatore Viktor Orbán.

Professore chi sono gli “zombi” ungheresi?

È l’immagine delle figure che tornano dal passato più nero dell’Ungheria che agitano i sentimenti nazionalisti, xenofobi e razzisti. Intendo le squadracce che ricordano molto quelle fasciste. Gli obiettivi punitivi sono le popolazioni Rom ma un servizio di questo genere può essere utilizzato anche per altro, soprattutto in un clima di deriva autoritaria come questo.

Cosa è davvero cambiato nella Repubblica ungherese?

Che hanno tolto “Repubblica”. Si è tornati alla denominazione originaria di Paese magiaro, un modo soft per dare un segnale forte della direzione che ha preso questo governo che sottopone tutti i mezzi di comunicazione a uno stretto controllo. L’ultima emittente radiofonica indipendente chiamata Club Rádiò sarà chiusa a febbraio. I magistrati verranno scelti e nominati dal governo. Si teme che possano essere messi in galera gli esponenti dell’ex governo ora a capo dell’opposizione, potrebbero sparire soldi pubblici. Si temono ritorsioni. Potrebbe accadere di tutto, nel silenzio assoluto perché i mezzi di comunicazione sono nelle mani del nuovo esecutivo.

Orbán ha vinto con il 60% dei voti.

Vero. Gli elettori erano troppo scontenti degli ultimi anni di governo di sinistra. Ha pesato molto la profonda crisi economica. L’Ungheria non ha materie prime o risorse naturali, ha solo cervelli e intellettuali che verranno messi nella condizione di non potersi esprimere. Penso a una filosofa come Ágnes Heller che ha sempre lottato contro la deriva antisemita e che ora verrà oscurata. Poi c’è il partito Jobbik (terza forza politica), gli stessi che accusarono i rom di essere i responsabili della riduzione del livello di vita degli ungheresi in questo periodo di crisi.

L’altra sera a migliaia sono scesi in piazza per protestare.

Cinque mesi fa quando sono tornato a Budapest ho sentito abulia tra le persone. L’abulia è un brutto stato d’animo e se aggiungiamo che le notizie sono molto filtrate mi chiedo se quello che si vuole fare sapere è esattamente ciò che avviene anche sulle manifestazioni. È fondamentale che nessuno consideri la situazione ungherese qualcosa di dissociato dagli altri paesi. L’Ungheria è l’unica nazione in tutta l’Europa centrale dove si è arrivati a tanto ma non va dimenticato che due guerre mondiali sono scoppiate in quell’area geografica.

Orbán ha annunciato che l’Ungheria potrebbe anche uscire dall’Europa.

Il Primo ministro ungherese non vede di buon occhio l’appartenenza all’Ue perché non vuole condividere le direttive con nessuno. Ma l’Europa è e rimane un’enorme potenza culturale ed è stato un miracolo che si realizzasse. Per l’Ungheria uscirne sarebbe una pazzia, un gesto di pura follia. Io non mi intendo di economia, oggi tutti parlano di economia. Io preferisco parlare delle persone che non hanno sufficienti mezzi di sostentamento. E poi io scrivo, continuo a scrivere, segnalando i pericoli e gli “zombi” che si aggirano per l’Europa.

Il morbo antico che avvelena l’Ungheria

di Bruno Ventavoli (La Stampa, 04.01.2012)

Erano in centomila i manifestanti la scorsa notte intorno al Teatro dell’Opera, tra i palazzi e i viali più eleganti di Budapest, per protestare contro la nuova carta costituzionale voluta dal premier Orbán e votata dal solo centrodestra. Erano tanti, molti più del solito, in una società civile inebetita dalla crisi economica, ma come inutili ragazzi della via Pál combattevano per un grund ormai perso.

Dentro al Teatro, con orgoglio e luminarie, il governo ha invece festeggiato l’architettura del nuovo Stato bocciato dalla comunità internazionale. Il pacchetto prevede una Banca Centrale sottomessa al potere politico (ideona bizzarra in questo momento di turbolenza finanziaria), insieme alla Corte Costituzionale e ai media (molti giornalisti dissidenti sono già stati licenziati dalla legge-bavaglio sulla stampa), i dirigenti dell’attuale partito socialista possono essere processati retrospettivamente per «crimini comunisti» prima dell’89, e tanti altri dettagli, dagli ungheresi all’estero al matrimonio etero. Il risultato è un Paese più autoritario, antimoderno, che allarma la Ue, l’America di Obama. E il fondo monetario internazionale, che ha congelato i negoziati per un maxiprestito al fiorino esanime.

Orbán, nato liberale, ma presto contaminato dal populismo, e l’estrema destra degli Jobbik, hanno portato a galla un’anima reazionaria che ha preso in contropiede l’Occidente. Chi ha letto i romanzi di Márai o Krúdy forse stenta a riconoscere nella realtà quelle atmosfere letterarie. Ma è proprio lì la chiave per capire i borborigmi fascisti della nuova Ungheria. Márai, come molti altri scrittori nati nel secolo breve, raccontava lo splendido mondo borghese della grande Budapest imperial-regia (il suo capolavoro, non a caso, è «Confessioni di un borghese»). Brillantezza intellettuale, tolleranza, quella civiltà delle buone maniere indagata da Elias, amore patriottico compensato da un naturale e brillante cosmopolitismo. Non poteva essere così, per chi era nato in case foderate da libri dove si parlavano in famiglia, correntemente, tre-quattro lingue. La borghesia era stato il motore dell’Europa moderna, ovunque. Anche in Ungheria. Ma con un problema. Lungo il Danubio, la borghesia, dopo secoli di guerre e dominazioni straniere, era nata in ritardo. E nonostante gli splendori della Belle Époque, era fragilissima.

Quando Márai scriveva, quel mondo borghese già non esisteva più, sepolto dalle macerie della prima guerra mondiale. Terrorizzato da una breve e sanguinaria rivoluzione bolscevica, poi tranquillizzata dal fascismo di Horthy, che però amava simboli, parole d’ordine, pennacchi, nazionalistici e feudali. Negli oltre quarant’anni di democrazia popolare, dal ’48 in poi, naturalmente, l’eutanasia della borghesia è proseguita.

L’economia di mercato introdotta da un giorno all’altro nell’89 ha ridato ossigeno alla classe media. Ma non è bastato. Il fiorino cagionevole ha presto spento i sogni di benessere, di rinascita, di prosperità a livelli occidentali, liberando il campo alle paure e agli orgogli nei quali l’Ungheria è vissuta per secoli, incuneata tra Occidente e Oriente. I valori della democrazia, del pluralismo, del dialogo, della diversità, sembrano superflui e accantonabili nella vita quotidiana dove è faticoso fare la spesa e pagare le bollette. Torna la tentazione del ripiegarsi su se stessi, appigliandosi all’idea di una Grande Ungheria, magari con un pizzico di ottuso vittimismo, per ciò che è successo nel corso della Storia, dalle guerre col turco, all’invasione sovietica, al trattato di pace di Trianon voluto dalla Francia che tolse alla fine della Grande Guerra due terzi del Paese.

Nei momenti di difficoltà, per antico morbo, l’Ungheria più che sentirsi parte del continente rimarca la sua fiera alterità suicida, corroborata da quella lingua dolce e altaica che nessuno in Europa capisce. Quando Orbán ha sfidato la comunità internazionale con la nuova costituzione, «Nessuno può sindacare su quel che facciamo», parlava anche in questo spirito. Le riforme, la modernità, il mercato, possono attendere. Meglio affidarsi a miti imprecisi di purezza, di sacralità della terra (che può essere comprata con quattro fiorini dagli stranieri della globalizzazione), di uomini forti al comando. Ancora una volta la classe media è stata stritolata, dalla farragine dello Stato e dall’inflazione. Ancora una volta torna la tentazione non di sconfiggere gli avversari politici, ma di cancellarli, processarli, zittirli. Ma per non perdere di nuovo i cugini ungheresi dalla famiglia europea, bisogna capire perché si sono ammalati.

 

Parla la filosofa ungherese Agnès Heller 

"Questa voglia di democrazia è un nuovo inizio" 

All’Europa chiediamo aiuto nel suo interesse, l’autoritarismo è contagioso 
Intervista di A. T. (la Repubblica, 04.01.2012)

BUDAPEST «La gente in piazza può essere un nuovo inizio, ma l’autocrazia resta. L’Europa deve aiutarci aiutando i media indipendenti poveri, ostacolati dal regime. Nel suo interesse: l’autoritarismo è contagioso». Agnès Heller, massima intellettuale ungherese di oggi, analizza lucida la crisi magiara.

Quanto conta il nuovo trend di protesta?

«È importante. Molte nuove organizzazioni, da "Szolidaritàs" a "Quarta repubblica", voglia di libertà di stampa, di diritti civili, libertà della proprietà privata e libertà d’imprese contro gli oligarchi».

Che regime è quello di Orbàn?

«Orban dice: "noi siamo i più grandi, sappiamo fare tutto meglio, gli altri non capiscono quanto siamo bravi, noi siamo il modello per tutta Europa". Peggio che nazionalismo, è folle mania di grandezza».

Nuova Costituzione, addio Banca centrale... si va verso una dittatura?

«È già una dittatura. Con un distinguo: un dittatore tipico decide su tutto, anche di vita e morte della gente. E può chiudere le frontiere. Qui non c’è la pena di morte e la gente può ancora viaggiare. Molti giovani qualificati vogliono andarsene, non ne avremo più a casa. Se Orbàn potesse chiudere le frontiere lo farebbe».

Fino a quando non potrà?

«Non possono ancora, non sono così pessimista. Hanno abolito il sistema di checks and balances costitutivo della democrazia. Non possono fermare le critiche dall’esterno, vitali anche qui. Qualche media indipendente vive ancora. Ma non è libertà. È come le voci tollerate sotto Horthy (ndr. il dittatore di destra che governò dal 1919 al 1944)».

Horthy è un modello per Orbàn?

«Non so quale sia il suo modello. Orbàn è Orbàn. Come tutti i tiranni è convinto di essere il solo ad avere ragione, e chi non è d’accordo con lui non è ungherese. Né Berlusconi né Putin lo hanno mai detto. Cuore straniero, quasi come dire "sangue straniero", viene definita l’opposizione».

Fascismo?

«Non amo i paragoni. I partiti siedono in Parlamento. Ma il Parlamento è diventato una macchina per votare le leggi senza dibattito. Con le istituzioni attuali non ci sarebbe più possibile entrare oggi nell’Unione europea. La gente ha paura sul posto di lavoro, ovunque. Paura di venire licenziata senza ragione con ogni pretesto legale di "ristrutturazione" se critica il governo, se non gli piaci».

L’Europa può muoversi?

«Nel suo interesse. La paura è diffusa in tutta la società, nei media pubblici restano solo opportunisti incapaci o chi teme di perdere lo stipendio. Ma molti credono a chi dice che la crisi è colpa di finanza internazionale, America, Israele. Slogan anticapitalisti e anticomunisti rafforzano il consenso del regime, l’idea di cospirazione internazionale e anche ebraica paga ancora, molti sono apatici».

Insisto, cosa può o deve fare l’Europa?

«Aiutare i nostri media indipendenti, e parlare chiaro. Ma prima di tutto dobbiamo aiutarci da soli».



Mercoledì 04 Gennaio,2012 Ore: 15:54
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/1/2012 11.17
Titolo:la Commissione europea attacca con durezza: «Verifichiamo se la nuova Costituzio...
Bruxelles. La Commissione: al via una procedura di verifica sulla nuova Costituzione ultra-nazionalista Reazioni. Il premier Orban sempre più isolato, ma ostenta sicurezza: il fiorino cade ai minimi storici

Ungheria, si sveglia l’Europa: «È democrazia o una dittatura?»

Dopo una forte pressione internazionale, la Commissione europea attacca con durezza: «Verifichiamo se la nuova Costituzione sia conforme con i valori democratici dell’Europa».

di Roberto Brunelli (l’Unità, 05.01.2012)

A Bruxelles il «dossier ungherese» passa di mano in mano, come una patata bollente. Scotta tanto da risvegliare antiche vibrazioni democratiche, tanto da decidere di andare allo scontro diretto con Budapest, dopo la dura svolta reazionaria impressa dal governo dell’ultraconservatore Viktor Orban con il varo della nuova Costituzione, considerata liberticida non solo tra le file della risorta opposizione ungherese, ma anche tra i più compassati funzionari di Eurolandia. La nota ufficiale consegnata ieri alle agenzie di stampa dal portavoce della Commissione europea non lascia spazio a dubbi: l’Ue afferma Olivier Billay si chiede se in Ungheria «ci sia una democrazia o una dittatura».

È questo il senso dell’«approfondita analisi» da parte di Bruxelles delle leggi costituzionali entrate in vigore il primo gennaio. Un procedimento che potrebbe portare anche alla Corte di giustizia europea: «La Commissione è stata la prima a sollevare dubbi sulla conformità delle nuove leggi ungheresi sui media, la giusitizia e la Banca centrale con i valori e i trattati europei». E se l’esame dei servizi giuridici confermasse quelli che con un eufemismo Billay chiama i «dubbi», a sua volta già espressi in numerose occasioni sia dal presidente José Manuel Barroso che da svariati commissari, Bruxelles è pronta ad aprire una procedura di infrazione contro Budapest.

L’attacco che avviene dopo la protesta di piazza di lunedì nella capitale ungherese e dopo una crescente pressione internazionale culminata con le dure critiche del segretario di Stato Usa Hillary Clinton e del ministro degli Esteri francese Alain Juppé è frontale, e fa il paio con la sospensione delle trattative con Ue e Fmi per la concessione degli aiuti finanziari richiesti proprio dal governo Orban. Che, tuttavia, pare più preoccupato di mettere «sotto tutela» governativa la Banca centrale e l’informazione, nonché mettere pesantissimi limiti ai diritti civili, eliminando sinanche la denominazione «Repubblica» dal nome di quest’Ungheria tutta Dio e totalitarismo, che non a mettere in sicurezza i propri conti disastrati.

L’esecutivo è sempre più isolato, con effetti pesanti anche sui mercati: il fiorino ha segnato ieri il suo record negativo. Per un euro ieri erano necessari circa 320 fiorini: un abisso. Negli ultimi mesi la moneta magiara ha perso circa il 20 per cento del proprio valore. Gli analisti concordano sul fatto che è proprio sul fronte economico che l’autocratico Orban definito «piccolo tiranno di provincia» dall’intellighentia magiara si sta giovando gran parte della credibilità interna. Dopo la doppia bocciatura da parte delle agenzie Standard & Poor’s e Moody’s, che hanno portato il rating sul debito sovrano sotto il livello d’investimento, il rendimento dei titoli di Stato è salito vertiginosamente, col risultato di ingrossare ulteriormente un debito pubblico arrivato nei giorni scorsi al suo massimo storico.

IMBARAZZI CONTINENTALI

Con la dura presa di posizione di ieri («democrazia o dittatura?»), Bruxelles cerca di uscire da un vero e proprio impasse nei confronti dell’Ungheria, che è membro dell’Ue da sette anni: ovvio che non può restare indifferente ai metodi di governo di Orban, agli attacchi al pluralismo dei media e alle minacce all’indipendenza dell’apparato giudiziario. Qualcuno (come Le Monde, ieri) ipotizza esplicitamente che l’Europa possa alla fine ricorrere all’articolo 7 del trattato di Lisbona, che prevede di togliere il diritto di voto agli stati membri che violano le regole democratiche.

Le voci che spingono ad una maggiore presa di coscienza nei confronti del «caso Ungheria» crescono di ora in ora. «È tempo che l’Europa si scuota, si svegli dallo shock dell’eurocrisi, ritorni ai valori fondamentali di coesione e di solidarietà. È tempo che rigetti gli incubi dei nazionalismi e dei populismi che scaricano su tutti noi i disagi di quest’epoca», dichiara il responsabile esteri del Pd, Lapo Pistelli. Il quale chiede anche un maggiore protagonismo dell’Italia per quel che riguarda «la vigilanza dei valori democratici».

In tutto questo, Orban, che ieri celebrava la totale indifferenza nei confronti dei centomila che lunedì sera affollavano le vie di Budapest («vedete, siamo un Paese libero?»), continua a fare orecchie da mercante. Il premier manda avanti i suoi spargendo segnali contrastanti alle controparti europee: al sottosegrtario per gli affari economici il premier fa dire che il fallimento dei negoziati per i prestiti «non sarebbe una tragedia». Orban «il viktator» ostenta sicurezza, e celebra con grandi celebrazioni ultra-kitsch la sua nuova Costituzione. Intanto, però, i sondaggi cominciano a turbare i suoi sonni: secondo un’indagine recente dell’istituto Szonda Ipsos, la Fidesz rimane sì il primo partito, ma perde il 18 per cento rispetto a quando conquistò sull’onda di un populismo trionfale i due terzi dei seggi parlamentari. Oggi, domani, dopodomani l’opposizione all’assolutismo magiaro del nuovo millennio rischia di crescere sempre di più. A Bruxelles lo sanno bene: meglio non sottovalutare chi s’indigna, di questi tempi.

Ungheria: intervenga la Ue

di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 05.01.2012)

L’Ungheria democratica chiama, l’Europa istituzionale nicchia, fa orecchie da mercante, traccheggia nell’ipocrisia. Ma se i governi europei vogliono trastullarsi in paralizzanti e irresponsabili lungaggini procedurali, è necessario che i cittadini europei facciano della “questione Ungheria” un loro problema e una loro battaglia. Ormai improcrastinabile.

Il governo di Victor Orban ha imposto una nuova Costituzione che calpesta i diritti democratici minimi che l’Europa ha posto come vincolanti e irrinunciabili per ogni paese che voglia aderire alla Comunità. La legge elettorale è ritagliata su misura per facilitare al partito di Orban la vittoria anche in futuro, stampa e televisione vengono imbavagliate, i magistrati asserviti alla volontà dell’esecutivo, la Banca centrale perde ogni margine di autonomia, sciovinismo e razzismo diventano il collante “popolare” di questo vero e proprio fascismo postmoderno.

Se l’Ungheria di Orban chiedesse oggi di aderire all’Europa verrebbe respinta, in quanto indigente dei requisiti democratici minimi. Ma l’articolo 7 del trattato di Lisbona specifica che un governo di un paese già membro dell’Unione Europea deve perdere il suo diritto di voto qualora violi quei requisiti. È perciò necessario che il Parlamento di Strasburgo , la Commissione di Bruxelles e i singoli governi europei si attivino immediatamente per applicare con assoluta intransigenza l’articolo 7. Ogni attendismo, ogni diplomatismo, ogni “gradualismo” nelle sanzioni, non farebbe che incoraggiare il governo Orban a proseguire sulla strada protervamente imboccata, che minaccia di contagio antidemocratico l’intera comunità politica continentale.

Piegarsi alle prepotenze dei poteri antidemocratici, in nome del “male minore”, è l’eterna tentazione degli establishment del privilegio. Tragici protagonisti di questa sindrome di viltà (che scolora nell’omertà) furono a Monaco, nel 1938, i democratici tiepidi Chamberlain e Daladier, che si piegarono agli antidemocratici coerenti Hitler e Mussolini. Se l’Europa delle Merkel, dei Cameron e dei Sarkozy cedesse oggi a Orban, guardando dall’altra parte o riducendosi a sanzioni di facciata, replicherebbe su scala ridotta l’infamia del ’38. E per favore non si citi Marx, che a proposito di Napoleone III giudicava come la storia si ripetesse sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Talvolta è così, talvolta la nuova tragedia, benché in formato mignon, è per chi la vive devastante quanto la precedente.

CON L’AGGRAVANTE che Hitler era ormai una potenza militare ed economica che da sola valeva il resto del-l’Europa, mentre il governo di Orban è costretto a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale col cappello in mano, e di fronte ad un efficace cordone sanitario europeo dovrebbe andarsene (proprio come l’amico Berlusconi). La viltà di Merkel, Cameron e Sarkozy sarebbe perciò una viltà al quadrato. Sarebbe complicità. Se Orban ha sempre indicato in Putin e Berlusconi i suoi modelli, ricambiato dal loro appoggio più sfegatato (dichiarò Berlusconi dieci anni fa a Budapest: “i nostri programmi e le nostre politiche sono identiche, tra noi c’è una straordinaria sintonia”), non è certo un caso. Dimostra come la peste del fascismo postmoderno, soft solo in apparenza, sia un forza diffusa e minacciosamente in crescita, di cui Marina Le Pen e la destra olandese nella maggioranza di governo sono solo altri inquietanti iceberg.

Se si vuole evitare il contagio, gli appestati vanno trattati come appestati. L’Europa ha fatto malissimo a non intervenire contro Berlusconi per quasi vent’anni, se non interviene contro Orban prepara il proprio suicidio. Perché sanzionare Orban, privarlo del voto nelle istituzioni europee, significa sostenere la Repubblica ungherese, la cittadinanza democratica ungherese, scesa in piazza cantando l’Inno alla Gioia di Schiller/Beethoven che l’Europa ha adottato come il proprio inno. Il nostro inno, se non vogliamo che l’Europa resti quella dei mercanti (e relative orecchie), dei banchieri (e relativi titoli tossici integrati di megabonus), dei governi democratici tiepidi (e relative viltà/omertà).

Ungheria, prova di diritto per l’Ue

di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 05.01.2012)

L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene.

L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione.

Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso.

Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri.

Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti.

Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica. Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa.

La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia.

L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/1/2012 16.20
Titolo:Chiesta l’applicazione dell’art. 7 del Trattato di Lisbona
Ungheria. Chiesta l’applicazione dell’art. 7 del Trattato di Lisbona, che congela il diritto di voto
I leader Swoboda e Verhofstadt: «Dobbiamo proteggere i diritti, no a pericolosi precedenti»

Socialisti e liberali europei: «Orban deve essere fermato»

Per Bruxelles è «l’extrema ratio»: ma i socialisti e i liberali chiedono che si applichi l’articolo 7.
Vi si ricorre in caso di violazioni dei principi fondanti della Ue.
Sarebbe la prima volta nella sua storia.

di Roberto Brunelli (l’Unità, 06.01.2012)

L’Ungheria danza in cima ad un vulcano pronto ad una doppia esplosione. Gli indicatori economici stanno precipitando di ora in ora, e il Vecchio continente continua ad aumentare la sua pressione. Ieri è stata la volta dei socialisti e liberali del Parlamento europeo, che hanno chiesto sanzioni politiche molto dure nei confronti del Paese dopo la svolta ultra-nazionalisti imposta dal governo guidato da Viktor Orban con la nuova Costituzione.

E non si tratta di bruscolini: il vicepresidente del gruppo, l’austriaco Hannes Swoboda, ed il leader dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa, il belga Guy Verhofstadt, propongono l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, cui si ricorre in caso di violazioni di principi fondanti della Ue in tema di democrazia, libertà fondamentali e diritti dell’uomo. Politicamente, un macigno: l’articolo 7 prevede, tra le altre cose, la sospensione del diritto di voto in Consiglio. Per avere nozione della gravità della cosa, mai nella sua storia l’Unione europea ha fatto ricorso all’articolo 7, che lo considera un’extrema ratio. «Non siamo ancora a questo punto», si fa sapere dalla Commissione: ma il solo fatto che se ne parli viene considerato di per sé emblematico.

Swoboda è molto netto. «Siamo dalla parte del popolo ungherese, che viene sempre più messo sotto pressione dal governo Orban. L’applicazione dell’articolo 7 deve essere seriamente presa in considerazione se il premier ungherese continua a sfidare deliberatamente le leggi ed i valori europei». L’esponente socialdemocratico austriaco sfida anche il Ppe sul «dossier ungherese», proponendo che il premier magiaro venga sospeso dal ruolo di vicepresidente del partito. Anche Verhofstadt si esprime in modo da non lasciar adito a dubbi, forse anche per accrescere la pressione sulla presidenza della Commissione: «Non è più tempo per scambiare lettere: a questo punto è degenerata la situazione in Ungheria. È arrivato il momento di avviare sanzioni legali e politiche sulla base dell’articolo 7. Che va applicato per proteggere la democrazia ed i diritti fondamentali in Ungheria e nella Ue, ma anche per evitare di stabilire un pericoloso precedente e dare un cattivo esempio ai Paesi che aspirano ad entrare nell’Unione».

La partita è grossa, insomma, ed investe in pieno «l’anima» della grande casa europea. La quale, per i critici, è talmente alle prese con la crisi di Eurolandia da scordarsi i suoi principi fondanti. Crisi che, per intanto, attanaglia pesantemente la stessa Ungheria. L’esecutivo di «Orban il Viktator» è al centro di una bufera selvaggia, ma fa finta di non accorgersene: ieri l’altro gli interessi sui titoli sovrani sono saliti al 10,9 per cento, un punto e mezzo in più rispetto al giorno precedente. A detta degli analisti, un tasso così alto significa che l’Ungheria non potrà più permettersi di ripagare il suo indebitamento. In bilico tra stagnazione e recessione, le prospettive economiche del Paese vengono inabissate ad un debito pubblico all’82,6 per cento del prodotto interno lordo. Nelle grandi capitali finanziarie si evocano giù da tempo scenari di bancarotta imminente (entro un mese, per intendersi), con ricaschi facilmente immaginabili su tutta l’Eurozona.

LA BEFFA DELL’AMNISTIA

Ecco che l’ineffabile Orban comunque si decide di battere un colpo, nel tentativo di allentare la tenaglia sul suo governo. Che ha annunciato ieri la proposta al Parlamento di un’amnistia per 43 manifestanti arrestati lo scorso 23 dicembre. Fra questi, 15 deputati socialisti e verdi, nonché l’ex premier anche lui socialista Ferenc Gyurcsany, accusati di aver ostacolato il traffico per essersi incatenati davanti al parlamento di Budapest. Anche loro protestavano contro la nuova Costituzione, poi entrata in vigore il 1. gennaio. Peraltro, anche se gli arrestati sono stati tutti rilasciati ieri, la procedura penale nei loro confronti va avanti comunque. Non sorprendentemente, però, Gyuarcsany e gli altri rifiutano l’amnistia, chiedendo anzi la cancellazione della procedura con la formula «il reato non sussiste».

Tra coloro che il 23 dicembre si sono incatenati davanti alla sede del Parlamento, c’era anche la deputata del partito ecologico Lmp, Virag Kaufer. Ebbene, per protesta contro la nuova Costituzione liberticida (riassumiamo: forti limitazioni alla libertà d’informazione, all’autonomia della Banca centrale e ai diritti civili), e per lanciare l’allarme per un Parlamento de facto esautorato, la signora Kaufer si è dimessa. Per la precisione, l’esponente ecologista ha dichiarato ieri all’agenzia Mti che intende organizzare un movimento di resistenza nella società alla politica autoritaria del governo. «Il Parlamento ungherese ormai è ridotto a un teatro di marionette di Orban, dove l’opposizione non ha nessun ruolo, e dove manca un reale confronto politico», ha detto Kaufer. Lei, insieme agli altri centomila manifestanti che lunedì gridavano la propria rabbia davanti al Teatro dell’Opera, chiedeva aiuto all’Europa. I primi colpi sono stati battuti.

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