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Esteri
Le radici delle rivolte nei paesi arabi

Un servizio della rivista Internazionale che parla finalmente dei motivi veri delle rivolte in Tunisia, Egitto, e negli altri paesi arabi. La speculazione finanziaria sui prodotti di prima necessità ha ridotto alla fame alcune decine di milioni di persone. E i soliti capitalisti d'assalto stanno guadagnando un mucchio di soldi. E i governi lasciano fare!


In copertina
Le guerre del pane
Annia Ciezadlo, Foreign Afairs, Stati Uniti
Per anni molti regimi del mondo arabo si sono assicurati la stabilità interna con i sussidi sul pane e altri beni di prima necessità. Una scelta che ha danneggiato l’agricoltura locale e impoverito le popolazioni, spingendole alla rivolta
Le persone riempivano da due giorni le strade del Cairo, bruciando autobus, tram, edifici governativi e auto di lusso. A piazza Tahrir i soldati lanciavano gas lacrimogeni contro i manifestanti. I cairoti incoraggiavano dai balconi e dai tetti i loro compagni che nelle strade scandivano slogan contro il governo. “Tu ti vesti all’ultima moda”, gridavano al presidente Anwar Sadat, “mentre noi dormiamo in dodici in una stanza”. Era il 1977. Un governo già impopolare aveva cercato di abolire i sussidi alimentari, provocando un forte aumento dei prezzi di beni di prima necessità come il pane, il riso e il gas. Centinaia di edifici furono incendiati e morirono 160 persone. E Sadat imparò una cosa fondamentale per qualsiasi dittatore arabo moderno: bisogna dare il pane al popolo, tanto pane e a buon mercato.
Oggi in tutto il Medio Oriente sono in corso grandi cambiamenti, ma una cosa è rimasta invariata: questa regione è la parte del mondo che dipende di più dall’importazione di grano. Tra i venti principali importatori di frumento del 2010, quasi la metà sono paesi del Medio Oriente. Nell’elenco troviamo tutti i regimi già rovesciati o ancora in bilico: al primo posto c’è l’Egitto, poi viene l’Algeria al quarto, l’Iraq al settimo, il Marocco all’ottavo, lo Yemen al tredicesimo, l’Arabia Saudita al quindicesimo, la Libia al sedicesimo e la Tunisia al diciassettesimo. Per anni molti di questi regimi hanno fatto affidamento sui sussidi alimentari per garantire la stabilità: un contratto sociale così diffuso che lo studioso tunisino Larbi Sadiki lo ha definito dimuqratiyya al khubz, la democrazia del pane. Ma negli ultimi anni i prezzi dei cereali hanno raggiunto livelli record e questa politica non ha funzionato più. In Tunisia le manifestazioni a favore della democrazia sono cominciate a dicembre con i dimostranti che brandivano baguette. Nel giro di pochi mesi le proteste si sono diffuse in tutta la regione.
Le rivoluzioni, ovviamente, non si fanno solo per il pane. I mediorientali chiedono anche il rispetto dei diritti umani e posti di lavoro. Ma i governi mettono tutte queste cose fuori dalla portata dei cittadini, usando i sussidi come sostituto delle riforme democratiche ed economiche. Alla fine il pane diventa un simbolo di tutto quello che non si può avere. Oggi le proteste sono arrivate fino allo Yemen, dove i manifestanti cuociono pagnotte con la scritta “andatevene”. Il messaggio è chiaro: il bene di prima necessità che un tempo i regimi arabi usavano per garantirsi l’obbedienza è ormai diventato un simbolo di sfida.
Le prime guerre del pane risalgono al periodo della guerra fredda, quando Stati Uniti e Unione Sovietica corteggiavano i paesi più piccoli offrendogli armi, grano e altri prodotti. In quel periodo molti regimi arabi crearono delle reti di sicurezza sociale basate sul modello sovietico della distribuzione centralizzata del pane. “Era un modo per comprarsi la lealtà della popolazione”, spiega l’economista Ibrahim Saif, segretario generale del consiglio economico e sociale della Giordania. “Io sono lo stato, mi prendo cura di te e tu non metti in discussione la mia politica”. Alla fine degli anni settanta il Fondo monetario internazionale (Fmi) cominciò a invitare i paesi arabi a rinunciare ai sussidi. “L’intifada del pane” scoppiata al Cairo nel 1977 fu solo una delle tante della regione: negli anni ottanta scoppiarono proteste in Marocco, Tunisia, Algeria e Giordania ogni volta che i governi tentavano di eliminare i sussidi. Quando Sadat fu assassinato nel 1981, il suo successore Mubarak fece in modo che gli egiziani avessero molto pane a buon mercato. Nei trent’anni successivi quel pane è stato pagato almeno in parte dai contribuenti statunitensi. Secondo il servizio ricerche del congresso americano, l’Egitto ha ricevuto dagli Stati Uniti 4,6 miliardi dollari in prestiti e sovvenzioni attraverso il programma Food for peace, gestito dall’Agenzia per lo sviluppo internazionale. E Mubarak non era l’unico a ricevere il grano statunitense. Saddam Hussein aveva ricevuto miliardi di dollari di grano sotto forma di sovvenzioni e prestiti garantiti. Ma il grano a buon mercato aveva un costo alto: la disoccupazione. La dipendenza dalla generosità degli stranieri, combinata con il basso prezzo dei cereali a livello mondiale, ha portato molti regimi mediorientali ad affossare il settore agricolo.
Negli anni ottanta e novanta i programmi di liberalizzazione degli scambi commerciali hanno spinto paesi come l’Egitto e il Marocco a dipendere pericolosamente dai carboidrati a buon mercato provenienti dall’estero. Nel 1960 l’Egitto produceva abbastanza grano da essere quasi autosufficiente, mentre l’anno scorso ha importato circa la metà del grano consumato nel paese (nove miliardi di tonnellate), diventando di gran lunga il principale importatore di grano al mondo. Il governo sovvenzionava il pane al ritmo di circa tre miliardi di dollari all’anno, in genere vendendo la farina ai panifici locali, un sistema complicato e inefficiente che incoraggiava la corruzione. Più i prezzi a livello mondiale salivano, più i fornai erano incentivati a rivendere la farina e il pane al mercato nero, dove incassavano un prezzo cinque volte superiore.
Standard di vita
I sussidi alimentari non riescono a ridurre il livello di povertà della popolazione. Anzi, scoraggiando gli investimenti nel settore agricolo, danneggiano proprio le persone che dovrebbero aiutare. Secondo il rapporto 2009 delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano nei paesi arabi, il Medio Oriente e l’Africa sub sahariana sono le uniche regioni in cui il numero di persone malnutrite è aumentato rispetto ai primi anni novanta. Negli ultimi anni il tenore di vita della maggioranza degli egiziani si è abbassato, anche se le élite si arricchiscono e gli indicatori economici sono buoni. Come dimostra uno studio della società di sondaggi Gallup, in Egitto e in Tunisia è aumentato il PIL ma c’è stato un netto calo degli standard di vita in tutte le fasce di reddito, escluso il 20 per cento più ricco. All’inizio del 2008, inoltre, il 40 per cento degli egiziani viveva con meno di due dollari al giorno.
Quando il prezzo del grano ha cominciato a salire, le “democrazie del pane” hanno mostrato le prime crepe. Nel 2008 c’è stata un’ondata di piccole rivolte in Giordania, Marocco, Algeria, Libano, Siria e Yemen. I governi locali hanno risposto aumentando i salari e le sovvenzioni o distribuendo contanti.
Ma in Egitto il prezzo del pane è aumentato del 37 per cento tra il febbraio del 2007 e il febbraio del 2008, e sempre più persone sono diventate dipendenti dai sussidi per il pane. A marzo del 2008 una decina di persone erano già morte facendo la ila per il pane: alcune nelle risse, altre per le ore passate in piedi. La popolazione era infuriata per la morte di questi “martiri del pane”. A quel punto Mubarak ha ordinato all’esercito di farsi carico della preparazione e della distribuzione del pane. Ma ormai era tardi: il 6 aprile 2008 decine di migliaia di studenti, disoccupati e operai tessili della città di Al Mahalla al Kubra hanno protestato contro la disoccupazione, i rincari alimentari e le torture della polizia. I video della rivolta sono stati caricati su Facebook e YouTube, contribuendo a diffondere la protesta in altre parti del paese. Alla fine hanno dato vita al movimento 6 aprile, protagonista della rivolta contro Mubarak.
Nei due anni successivi una combinazione di fattori – siccità, incendi, sovvenzioni per l’etanolo – ha provocato una crisi alimentare globale. Secondo i dati presentati il 15 febbraio dal presidente della Banca mondiale Robert Zoellick, nel secondo semestre del 2010 44 milioni di persone sono scese sotto la soglia della povertà. I regimi arabi hanno reagito come sempre: con le sovvenzioni. Algeria, Tunisia e Marocco hanno eliminato i dazi sull’importazione e le tarife doganali sul grano e altri prodotti alimentari. Egitto, Giordania e Yemen hanno aumentato i sussidi. La Giordania ha stanziato 125 milioni di dollari di sovvenzioni per lo zucchero, il riso e il carburante. L’Arabia Saudita ha promesso aiuti in contanti. La Siria ha rinunciato a ridurre i sussidi. Zoellick ha chiesto ai paesi di non adottare politiche che potrebbero rendere ancora più instabili i prezzi, come i divieti di esportazione, ma avrebbe potuto citare anche i sussidi. Le “democrazie del pane”, infatti, creano una domanda poco elastica, che non scende se i prezzi salgono e rende il grano ancora più costoso.
Ora Mubarak e Ben Ali se ne sono andati, ma bisogna tenere d’occhio altri paesi. In particolare lo Yemen, dove un cittadino su tre soffre la fame. Anche se dalle rivolte emergeranno istituzioni democratiche solide, la dipendenza della regione dal grano straniero scatenerà nuove crisi. Le soluzioni sono semplici: gli Stati Uniti e le grandi banche dovrebbero spingere i loro alleati mediorientali a sviluppare il settore agricolo. La Casa Bianca, inoltre, dovrebbe smettere di mandare le eccedenze all’estero sotto forma di aiuti, perché questo fa scendere i prezzi nei paesi che le ricevono e impoverisce ulteriormente gli agricoltori.
È ovvio che paesi come l’Egitto, l’Iraq e lo Yemen non possono cancellare i sussidi alimentari da un giorno all’altro. Ma è evidente che tenere in piedi le dittature con il pane a buon mercato è una politica miope: contribuisce a mantenere alti i prezzi a livello mondiale e non garantisce neanche la stabilità. (bt)
Da Internazionale n. 891 - 1 aprile 2011 pag. 37-38
 
 
Il circolo vizioso
Michael T. Klare, The Nation, Stati Uniti
Il prezzo dei prodotti alimentari dipende fortemente da quello del petrolio. Non si può risolvere la crisi attuale senza ridurre e razionalizzare i consumi energetici
Quando in futuro gli storici cercheranno di capire le cause delle rivolte del 2011 in Nordafrica e Medio Oriente, scopriranno che una delle prime proteste, quella in Algeria, è legata al rincaro dei prezzi dei generi alimentari. Il 5 gennaio 2011 alcuni gruppi di giovani hanno protestato ad Algeri, Orano e in altre grandi città contro l’aumento dei prezzi, bloccando le strade, assaltando le caserme della polizia e incendiando i negozi. Certo, la loro rabbia è stata alimentata anche da altri problemi, come la disoccupazione, la corruzione e la carenza di abitazioni, ma il primo impulso è arrivato dal costo eccessivo dei generi alimentari.
Man mano che l’epicentro delle proteste giovanili si spostava altrove, prima in Tunisia, poi in Egitto e quindi in Medio Oriente, quest’argomento è passato in secondo piano rispetto a richieste politiche più esplicite, ma non è mai sparito del tutto. Anzi, è rimasto il tema al centro delle proteste in Giordania, Sudan e Yemen. E ora che i prezzi dei generi di prima necessità continuano a crescere, in parte a causa dell’aumento del prezzo del petrolio, le proteste non potranno che moltiplicarsi.
La questione dei prezzi dei generi alimentari è molto sentita in Medio Oriente perché la maggioranza delle persone è stata esclusa dall’enorme ricchezza accumulata da parenti e amici dei tiranni al potere in tutti questi anni. Un altro motivo è che i generi alimentari incidono pesantemente sul bilancio delle famiglie: quando i prezzi aumentano, com’è successo negli ultimi sei mesi (in alcuni casi fino al 50 per cento), le famiglie che già prima stentavano a far quadrare i conti precipitano in condizioni di povertà estrema. “Il governo ci sta umiliando”, ha detto un giovane manifestante ad Algeri: “Hanno aumentato il prezzo dello zucchero e dobbiamo pagare l’affitto, l’elettricità, l’acqua e la benzina. Siamo diventati tutti poveri”.
Un aspetto paradossale è che molti di questi paesi sono produttori di petrolio, e quindi gli ultimi rialzi del prezzo del greggio hanno fatto aumentare in modo consistente le loro entrate. Tralasciando il fatto che solo un’élite approfitta dei benefici garantiti dal petrolio (di solito i petrodollari spariscono nei conti esteri delle famiglie al potere), il rialzo del prezzo del greggio peggiora le condizioni di vita della popolazione perché fa crescere i prezzi dei generi alimentari.
Nel tentativo di aumentare i raccolti per nutrire una popolazione mondiale in continua crescita, gli agricoltori hanno sviluppato una dipendenza sempre maggiore dal petrolio, ormai indispensabile nelle attività più essenziali. Questa tendenza è cominciata con la meccanizzazione dell’agricoltura dopo la seconda guerra mondiale e con la rivoluzione verde degli anni sessanta e settanta. Ed è proseguita con l’introduzione degli organismi geneticamente modificati e con la proliferazione delle “fattorie-fabbrica” gestite dalle grandi multinazionali. Il petrolio fa funzionare i macchinari agricoli e i veicoli che trasportano i prodotti fino ai mercati ed è impiegato come materia prima nella produzione dei pesticidi, degli erbicidi e dei fertilizzanti artificiali usati nell’agricoltura moderna. Ecco perché qualsiasi aumento del prezzo del petrolio si traduce in un aumento del costo di produzione del cibo.
Il legame tra cibo e petrolio è diventato molto evidente nel 20072008, quando i prezzi del greggio e quelli dei generi alimentari hanno raggiunto livelli record, contribuendo alla recessione dei mesi successivi. Tra il luglio del 2007 e il giugno del 2008 il prezzo del greggio è aumentato dell’87 per cento, da 75 a 140 dollari al barile. Nello stesso periodo sono schizzati verso l’alto anche i prezzi dei generi alimentari di base: da 160 a 225 dollari secondo l’indice dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), per gli alimenti di base che nel 20022004 costavano in media 100 dollari. Nel 2009 anche la Banca mondiale ha confermato questo legame, dal momento che “la produzione agricola è abbastanza intensiva da un punto di vista energetico”. Secondo la Banca mondiale, l’aumento dei prezzi del petrolio “ha provocato un rincaro del carburante necessario al funzionamento dei macchinari e dei sistemi d’irrigazione. Inoltre ha fatto aumentare il prezzo dei fertilizzanti e di altre sostanze chimiche che richiedono molto energia per essere prodotte”.
Come se non bastasse, l’aumento del prezzo del petrolio, combinato con la lotta dei governi di tutto il mondo contro il riscaldamento globale, ha incentivato l’impiego di alcune piante per produrre biocarburanti invece che cibo. Questo ha inevitabilmente contribuito a innalzare i prezzi dei generi alimentari.
Secondo le stime della Banca mondiale, ogni volta che il petrolio supera i 50 dollari al barile, un aumento dell’1 per cento si traduce in un rincaro dello 0,9 per cento del prezzo del mais, “perché ogni aumento di un dollaro del prezzo del petrolio aumenta il margine di profitto dell’etanolo e, di conseguenza, la richiesta di mais per la produzione di biocarburante”. Non bisogna stupirsi, quindi, se negli ultimi sei anni l’aumento della produzione mondiale di mais sia stato assorbito per due terzi dalla crescente richiesta di biocarburante negli Stati Uniti, lasciando poco spazio per soddisfare la domanda mondiale di cibo e di mangime.
L’impennata dei prezzi nel 2008 ha provocato disordini in molti paesi, tra cui Egitto, Haiti e Pakistan. L’anno dopo, nel tentativo di evitare altre rivolte, i paesi del G8 si sono impegnati a devolvere venti miliardi di dollari in tre anni a favore dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo. Finora, tuttavia, è stato erogato meno di un ventesimo di quella somma ed è stato fatto poco per aumentare la produzione mondiale di generi alimentari. E ora, con la nuova impennata dei prezzi del petrolio, è probabile che i prezzi battano i record precedenti, facendo aumentare il rischio di nuovi disordini in tutto il mondo. Ci troviamo in effetti davanti a un circolo vizioso: il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari.
Questa spirale è accelerata dall’effetto dei cambiamenti climatici. È vero che non si può attribuire un particolare evento meteorologico al riscaldamento globale, ma la crescente frequenza e intensità di eventi gravi, tra cui la disastrosa siccità della scorsa estate in Russia e Ucraina, le recenti inondazioni in Australia e la siccità che ha colpito il nord della Cina, sono coerenti con i modelli elaborati per descrivere gli effetti dei cambiamenti climatici. Questi eventi hanno colpito aree importanti per la produzione di grano, alimentando i timori sull’adeguatezza delle scorte e causando ulteriori rincari dei generi alimentari.
Ultima analisi
La rabbia provocata dal costo eccessivo del cibo può anche passare in secondo piano rispetto alle preoccupazioni di carattere politico nelle recenti rivolte in Nord Africa e Medio Oriente. Ma i prezzi del cibo non sono mai stati così alti da quando, vent’anni fa, la Fao ha cominciato a calcolare il suo indice. E ora gli esperti prevedono un peggioramento dovuto all’impennata del petrolio. Data la gravità della situazione, gli appelli lanciati nel 2009 dal G8 per un miglioramento della produzione agricola nei paesi in via di sviluppo sono ancora più urgenti. Lo stesso vale per la richiesta di misure che aumentino la disponibilità e l’accessibilità dei generi alimentari di prima necessità.
Tutto però dipende in ultima analisi dal petrolio. Per riuscire ad abbassare i prezzi di cibo e carburante, dobbiamo innanzitutto ridurre sensibilmente il consumo di prodotti petroliferi e rallentare il processo di riscaldamento globale. Inoltre bisogna finirla una volta per tutte di sostenere dittatori che fondano il loro potere sul petrolio. ( gim)
L’AUTORE
Michael T. Klare insegna Peace and world security studies all’Hampshire college di Amherst, nel Massachusetts. Ha scritto Potenze emergenti (Edizioni Ambiente 2010).
Da Internazionale n. 891 - 1 aprile 2011 pag. 38-39
 
In copertina
Il confronto
Bisogna fermare la speculazione
A favore
John Vidal, The Observer, Gran Bretagna
Con la deregolamentazione dei mercati, molti investitori hanno individuato nei beni alimentari ottime opportunità di guadagno
Tre anni fa gli abitanti del villaggio di Gumbi, nel Malawi occidentale, hanno cominciato improvvisamente a soffrire la fame. Non la fame che avverte un europeo quando salta un pasto, ma quel dolore profondo e lancinante che, dopo diverse settimane senza mangiare, impedisce di dormire e intorpidisce i sensi. Eppure non c’era stata nessuna siccità, che è la causa principale della denutrizione nell’africa meridionale, e i mercati erano pieni di cibo. Ma per qualche misteriosa ragione il prezzo degli alimenti di base, come il riso e il mais, era quasi raddoppiato nel giro di pochi mesi.
La stessa cosa era successa in altri cento paesi in via di sviluppo. Gli esperti hanno parlato di un’iperinflazione provocata da una “tempesta perfetta” di fattori umani e naturali. Secondo le Nazioni Unite, gli agricoltori statunitensi avevano destinato milioni di ettari di coltivazioni alla produzione di biocarburanti, i prezzi del petrolio e dei fertilizzanti erano aumentati vertiginosamente, la popolazione cinese stava passando da una dieta vegetariana a un’alimentazione a base di carne e, infine, vaste aree agricole erano state colpite dalla siccità. I rincari dei generi alimentari hanno spinto 75 milioni di persone oltre la soglia della denutrizione.
Tra gli operatori commerciali e gli economisti, però, si sta affermando una nuova teoria: i responsabili delle oscillazioni e dell’inflazione dei prezzi alimentari sono le banche, i fondi d’investimento come gli hedge fund e altri istituti finanziari, gli stessi che hanno provocato la crisi dei mutui negli Stati Uniti. Questi investitori sono accusati di aver sfruttato la deregolamentazione dei mercati delle materie prime per speculare sul prezzo dei generi alimentari, guadagnando miliardi di dollari e seminando miseria e povertà in tutto il mondo. I prezzi dei generi alimentari sono cresciuti oltre il livello record del 2008 e ne stiamo pagando le conseguenze. In Gran Bretagna e nel resto d’Europa si registrano aumenti anche del 10 per cento all’anno. Secondo le nazioni unite, nei prossimi dieci anni i rincari saranno almeno del 40 per cento.
Una modesta attività di speculazione sui generi alimentari c’è sempre stata ed era persino considerata un fatto positivo. Di solito funziona così: l’agricoltore x si tutela contro i rischi climatici o di altro tipo attraverso l’hedging (copertura), cioè vendendo al commerciante i prodotti prima del raccolto. Questo tipo di accordi garantisce all’agricoltore un’entrata sicura, che gli permette di pianificare l’attività e di fare nuovi investimenti. Quando era regolato da normative rigorose e il prezzo dei generi alimentari nel mercato reale rispecchiava il gioco della domanda e dell’offerta, il meccanismo funzionava abbastanza bene. Negli anni novanta, però, tutto è cambiato. Dopo un’intensa campagna di lobbying da parte di banche, fondi d’investimento e politici liberisti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la regolamentazione dei mercati delle materie prime è stata progressivamente abolita. I contratti di compravendita di prodotti alimentari sono stati trasformati in titoli (futures) che possono essere scambiati tra operatori totalmente estranei alla produzione agricola. È nato così il nuovo e surreale mercato della “speculazione alimentare”. Cacao, succhi di frutta, zucchero, carne e caffè sono diventati merci internazionali come il petrolio, l’oro e i metalli.
Meccanismo di garanzia
Nel 2006, quando è cominciata la crisi dei mutui negli Stati Uniti, le banche e gli altri operatori finanziari hanno spostato miliardi di dollari investiti in azioni e quote di fondi pensione verso le materie prime più sicure, specialmente quelle alimentari.
 “Ci siamo accorti di questa speculazione nel 2006”, spiega Mike Masters, amministratore dell’hedge fund Masters Capital Management. “All’epoca non sembrava un fattore importante, ma tra il 2007 e il 2008 la speculazione è cresciuta in modo vertiginoso”. Tre anni fa Masters ha dichiarato davanti al Senato degli Stati Uniti che l’impennata dei prezzi alimentari internazionali era dovuta a questa speculazione. “Bastava analizzare i lussi finanziari per averne la dimostrazione”, aggiunge il manager. “Conosco molti operatori e tutti mi hanno confermato che le cose stavano andando proprio così. Ormai quasi tutti gli scambi, direi il 70 o l’80 per cento, sono speculativi”. Secondo Masters, oggi i mercati sono condizionati dalle banche d’affari. “Mettiamo che arrivi la notizia di raccolti cattivi a causa del maltempo in un certo paese. Normalmente il prezzo salirebbe di circa un dollaro a bushel (pari a 27,2 chili). Ma quando il mercato ha una componente speculativa così forte, sale di 23 dollari. Tutto questo aumenta la volatilità dei prezzi. Finirà male, come tutte le mode di Wall Street. Prima o poi il sistema esploderà”. Hilda Ochoa-Brillembourg, presidente della società d’investimento statunitense Strategic Investment Group (Sig), conferma che la speculazione sul mercato alimentare ha raggiunto dimensioni enormi. Secondo i suoi calcoli, la domanda speculativa di futures sulle materie prime agricole è aumentata del 40-80 per cento rispetto al 2008.
La speculazione non si limita agli alimenti di base. L’anno scorso l’hedge fund londinese Armajaro ha comprato 240mila tonnellate di semi di cacao (più del 7 per cento delle riserve mondiali), facendo schizzare il prezzo al livello più alto degli ultimi 33 anni. E il prezzo del caffè è aumentato del 20 per cento in tre giorni per effetto delle scommesse al ribasso dei fondi speculativi. Olivier de Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione, è convinto che dietro all’impennata dei prezzi ci siano gli speculatori. “Se i prezzi di grano, mais e riso sono aumentati, non è perché le riserve o i raccolti sono scarsi. La colpa è delle reazioni a catena degli operatori che speculano sui mercati”. Deborah Doane, direttrice dell’ong londinese World development movement (Wdm), aggiunge che “mentre le banche fanno fortuna scommettendo sui prezzi dei generi alimentari, ci sono persone che muoiono di fame”.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) mantiene una posizione diplomaticamente evasiva sull’argomento. In un documento del giugno 2010 ha dichiarato: “Al di là degli effettivi cambiamenti nella domanda e nell’offerta di alcune materie prime, la tendenza al rialzo potrebbe anche essere stata amplificata dalla speculazione in mercati a termine organizzati”.
Le Nazioni Unite si avvalgono della consulenza di Ann Berg, una delle maggiori esperte di futures al mondo. Secondo Berg, è impossibile distinguere tra operazioni speculative e transazioni commerciali. “Nessuno sa cosa sta succedendo. Abbiamo avuto la bolla immobiliare e la crisi del credito. Il mercato delle materie prime è un altro settore remunerativo per gli operatori finanziari. La situazione è delicata. Molti paesi comprano direttamente sui mercati. Come dice un mio amico, ‘quello che per i poveri è un mezzo di sostentamento, per i ricchi è una forma di investimento’”. (eds)
 
Contro
The Economist, Gran Bretagna
Invece di accusare la finanza, è necessario favorire nuovi investimenti e ridurre i dazi doganali e i sussidi
Il sistema alimentare mondiale è in crisi. I prezzi sono saliti alle stelle, toccando il livello più alto in termini reali dal 1984 e registrando il secondo picco in meno di quattro anni. Le cause principali sono di carattere temporaneo: la siccità in Russia e in Argentina, le alluvioni in Canada e in Pakistan, il blocco delle esportazioni imposto da paesi che cercano di preservare le loro scorte alimentari, la corsa all’acquisto da parte di importatori che, nel timore di carenze o rincari futuri, cercano di ricostituire le riserve di cereali. La situazione è aggravata da fattori esterni all’agricoltura, come il rincaro del petrolio, che provoca un aumento dei costi di produzione.
Molti danno erroneamente la colpa anche alla speculazione. Certo, l’aumento delle transazioni finanziarie può accentuare la volatilità dei prezzi, ma non ci sono prove convincenti di questa correlazione. Per il momento i grandi cambiamenti strutturali, come la crescita di Cina e India, influiscono sui prezzi meno di quanto si pensi. I due giganti asiatici registrano un aumento e una diversificazione della loro domanda di generi alimentari, ma finora sono riusciti a soddisfarla in gran parte con la produzione nazionale.
Nei prossimi anni, tuttavia, i fattori strutturali saranno sempre più importanti. La produzione alimentare dovrà aumentare del 70 per cento entro il 2050 per stare al passo con la crescita demografica e con i cambiamenti nell’alimentazione provocati dal benessere e dall’urbanizzazione. Ma sarà più difficile aumentare la produttività, perché le terre incolte da sfruttare scarseggiano, le risorse idriche diminuiscono e in molti paesi l’uso massiccio di fertilizzanti serve a poco. Il cambiamento climatico potrebbe aggravare ulteriormente la situazione. Per la prima volta dagli anni sessanta, i rendimenti delle colture più importanti (grano e riso) crescono più lentamente della popolazione mondiale. Già oggi il mondo non riesce a sfamare in modo adeguato i suoi sette miliardi di abitanti. Come potrà farlo nel 2050, quando la popolazione raggiungerà i nove miliardi?
Aumento dei ricavi
Questa situazione richiede un aumento dei ricavi degli agricoltori che incoraggi i nuovi investimenti. Una politica di aiuti per le fasce più povere della popolazione sarebbe un primo passo: i programmi come Oportunidades in Messico e Bolsa família in Brasile hanno dato buoni risultati. Per quanto riguarda l’aumento della produzione agricola, bisogna rimuovere i dazi doganali e tagliare i sussidi. Rimuovere le barriere commerciali erette dai paesi ricchi permetterebbe agli agricoltori più poveri di aumentare le loro esportazioni. Dovrebbero essere eliminati i programmi che incentivano la produzione di biocombustibili, un’attività economicamente dispendiosa e dannosa per l’ambiente. Potrebbe essere utile anche aprire i mercati alle catene di distribuzione straniere: aziende come WalMart sanno come portare i prodotti alimentari nei supermercati invece di lasciarli marcire nei campi.
I governi, inoltre, dovrebbero aumentare i fondi pubblici per la ricerca nel settore agricolo. La rivoluzione verde è nata dalla ricerca pubblica, e lo stesso vale per i recenti successi dell’agricoltura brasiliana. I paesi occidentali hanno tagliato con estrema disinvoltura le attività di ricerca. È stato un grave errore. Ma anche i giganti emergenti dovrebbero dare un contributo. Cina, India, Brasile e Russia si lamentano di non ricevere il rispetto che meritano. Questa è un’opportunità per guadagnarselo. ( eds
Da Internazionale n. 891 - 1 aprile 2011 Pag. 40-41
 
In copertina
Stomaco pieno e democrazia
David Rief
In Egitto le manifestazioni in cui si chiedeva la fine della dittatura di Hosni Mubarak sono state guidate dalla classe media urbana, mentre i poveri sono rimasti per lo più in disparte
Nessuno aveva previsto gli eventi che hanno sconvolto il Maghreb e il Medio Oriente arabo, provocando la caduta di due regimi e scuotendo quasi tutti gli altri, dal Marocco allo Yemen. Gli analisti, il Pentagono, i servizi di sicurezza occidentali e, cosa più importante, i dissidenti e i movimenti per la democrazia del Medio Oriente sono stati colti di sorpresa dalla rapidità del cambiamento. Da un giorno all’altro il mondo arabo sembra essersi trasformato da una regione in cui i governi erano inattaccabili, in una in cui nessun dittatore governa incontrastato. E anche se si scoprisse che questo è il 1848 del mondo arabo, e non il suo 1789, l’era delle dittature stabili è finita per sempre.
Profondi cambiamenti sociali come questo non hanno mai un’unica causa. In Tunisia la rivolta è stata scatenata dal suicidio di Mohamed Bouazizi, un povero venditore di verdura della cittadina di Sidi Bouzid. In Egitto le manifestazioni in cui si chiedeva la fine della dittatura di Hosni Mubarak sono state guidate dalla nuova classe media urbana, mentre i poveri sono rimasti per lo più in disparte.
Naturalmente, ora che i cambiamenti si sono già verificati, le spiegazioni abbondano e sono una più parziale dell’altra. Secondo i militanti dell’opposizione, questi eventi dimostrano che tutti nel mondo hanno sete di democrazia. I tecno-utopisti sostengono che sono stati Twitter e i nuovi social network a rendere possibile la rivoluzione dei gelsomini e quella di piazza Tahrir. In ognuna di queste spiegazioni c’è del vero. L’unico problema è che, fatta eccezione per la guerra libica, sono tutte presentate come rivoluzioni della speranza, mentre in realtà sono soprattutto rivoluzioni della disperazione. Pensate a Mohamed Bouazizi: si è dato fuoco semplicemente perché si vedeva senza futuro nella Tunisia di Ben Ali.
Ovviamente pochi dei suoi connazionali avrebbero scelto di morire come lui. Ma molti di loro, probabilmente la maggioranza, condividevano e, anzi, continuano a condividere la sua sensazione di non avere un futuro. La caduta della dittatura ha fatto ben poco per cambiare questo sentimento, come dimostra chiaramente il costante flusso di immigrati dalla Tunisia verso Lampedusa.
La democrazia è meravigliosa, ma non basta a sfamare la gente, a vestirla e a garantirgli una vita dignitosa. Oggi c’è la democrazia in molti paesi dell’Africa sub sahariana, dove appena vent’anni fa i regimi autoritari erano la maggioranza. Ma prendendo in considerazione parametri oggettivi come i livelli di salute e di nutrizione, in questa regione la vita dei più poveri non è migliorata molto.
Persino l’India – che è sempre stata una democrazia, ha un’economia in forte crescita e prospettive apparentemente illimitate per il futuro – registra la più alta percentuale al mondo di bambini malnutriti: il 49 per cento contro il 29 dell’Africa subsahariana. In un mondo simile, Brecht non sbagliava quando scriveva nell’Opera da tre soldi: “Prima viene lo stomaco pieno e poi la morale”.
Il grande errore dei movimenti per la democrazia è il loro rifiuto di ammettere che, se il progresso economico non viene subito dopo le riforme politiche, dal punto di vista dei poveri tutto quello che è stato raggiunto è una vittoria di Pirro. Gli estensori della Dichiarazione universale dei diritti umani lo avevano capito molto bene quando hanno messo i diritti economici e sociali sullo stesso piano dei diritti politici, civili e culturali. Il motivo per cui quello che era chiaro all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 sembra meno evidente oggi non è solo misterioso, ma anche tragicamente autolesionistico. Da decenni, ormai, esiste una divisione di fatto tra sviluppo economico da un lato e diritti umani e costruzione della democrazia dall’altro. Questa divisione non ha mai avuto molto senso in nessun contesto, e meno che mai in Medio Oriente. Se non si riesce al più presto a ridurre la povertà in questa regione, i poveri non avranno nessun motivo per restare nei loro paesi, e quelli che possono se ne andranno.
La dittatura è una cosa terrificante e brutale, ma lo sono anche la povertà e la fame. È impossibile sapere quale ruolo ha svolto nelle rivolte l’aggravamento della povertà nel Medio Oriente arabo negli ultimi dieci anni. Ma è sicuro che, con i prezzi dei generi alimentari in crescita, con le scuole e le università nel caos e con il costante aumento della disoccupazione, una grande paura si è impossessata dei poveri di tutto il mondo.
Probabilmente, a differenza di quella che precedette la rivoluzione francese, la grande paura di questi giorni non è stata la causa immediata dei recenti sconvolgimenti avvenuti nel mondo arabo. Ma è certamente una delle sue cause più profonde e resta lo spettro del cambiamento democratico della regione. Se non si cerca di eliminarlo, si farà beffe delle speranze alimentate dalle sorprendenti trasformazioni di queste ultime settimane.  (bt)
 
DAVID RIEFF
È un giornalista statunitense. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono Senza consolazione. Gli ultimi giorni di Susan Sontag (Mondadori 2009) e Sulla punta del fucile (Fusi orari 2007).
 
Da Internazionale n. 891 - 1 aprile 2011 Pag. 42

 



Venerdì 08 Aprile,2011 Ore: 16:51
 
 
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