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www.ildialogo.org «Libia, ecco perché Gheddafi ha fallito»,di Sandra Mattei

Intervista al sociologo di origini irachene. Intanto non ci sono ancora notizie di suor Bruna Menghini
«Libia, ecco perché Gheddafi ha fallito»

Adel Jabbar spiega i motivi della rivolta che ha provocato 10 mila morti


di Sandra Mattei

“La crisi economica ha solo accelerato la lotta di una classe media non ideologica contro clan familistici accentratori e corrotti”. “L’Occidente deve superare la visione precostituita I manifestanti non sono fanatici, ma la parte avanzata della società”


Ringraziamo Adel Jabbar per averci segnalato e messo a disposizione questa sua intervista di Giovedì 24 febbraio 2011 pubblicata a pag. 14 del quotidiano il Trentino

Adel JabbarTRENTO. «La rivolta nei Paesi arabi è scoppiata per una richiesta di diritti e dignità di popoli che hanno subito per anni dittature e repressioni brutali». E’ il commento di Adel Jabbar, sociologo e saggista, che esclude il ri-schio di un’avanzata integralista. Ma la repressione in Libia ha provocato già 10 mila morti e non ci sono notizie di suor Bruna Menghini, missionaria trentina in Libia.

Jabbar, di origini irachene, sta vivendo l’ondata di liberazione dai dittatori arabi con grande interesse e preoccupazione per la situazione in Libia.

Che cosa ha in comune la rivolta che ha spazzato via Ben Ali e Mubarak, con quella libica? Tutti i Paesi in cui sta dilagando la sollevazione popolare hanno in comune il potere in mano a clan familiari, il dispotismo e la corruzione. Caratteristiche che hanno le repubbliche. Mentre i regni sono retti anche su clan regionali, in stati come Libia, Algeria, Siria, Yemen, nati da rivoluzioni, i governi non hanno realizzato le aspettative e i clan al potere hanno escluso tutti gli altri.

manifestanti anti GheddafiQuale è stata la scintilla che ha fatto scattare la rivolta: la crisi economica o la mancanza di libertà? I Paesi di quest’area da anni pagano a caro prezzo il desiderio di emancipazione: con la pena di morte, l’esilio, il carcere. Tumulti c’erano già stati in Tunisia e in Egitto dal 2008, ma i regimi, avendo l’appoggio dell’Occidente, li hanno re pressi senza che se ne parlasse. In Tunisia, su una popolazione di 10 milioni di abitanti, ci sono 300 mila poliziotti, in Egitto, su 80 milioni, 3 sono nella polizia. La rivolta è scoppiata per chiedere più diritti e dignità, la crisi economica non ha fatto che amplificare queste rivendicazioni.

Quali le condizioni che hanno permesso il propagarsi del malcontento in tanti Stati arabi? Ripeto, gli Stati più esposti sono     quelli retti da un potere familistico, che ha accentrato tutta la ricchezza. Basti pensare alla Tunisia, da dove è partito tutto, che è uno dei Paesi più     evoluti sia a livello economico e che di scolarizzazione. Il 60 per cento dei tunisini ha meno di 30 anni. I giovani hanno raggiunto maggiore coscienza dei loro diritti, grazie anche al collegamento con internet e i social network e a fronte di questo sviluppo, le elite sono rimaste ferme, non hanno saputo aggiornarsi. Il meccanismo di imitazione ha contagiato tutti i Paesi con queste caratteristiche: una società civile pluralista e dinamica contro un’elite espressione di un potere arcaico.

In cosa si differenzia la situazione in Libia, dove è in corso una guerra civile, con diecimila morti? Gheddafi ha fallito il suo progetto rivoluzionario di costruire uno Stato senza istituzioni, che si reggesse sull’autarchia. Invece di riconoscere il fallimento, per governare si è basato solo sul suo clan. Manca inoltre una classe media che possa rivendicare uno stato di diritto e mi sembra di vedere una situazione come quella irachena, dove si spera in un intervento esterno.

La domanda che tutti si fanno ora è cosa succederà. C’è il rischio di una deriva integralista? Da anni scrivo che tale lettura retorica per interpretare i Paesi arabi non aiuta. Questi accadimenti dimostrano piuttosto che siamo di fronte a società molto avanzate, che non si rifanno più a ideologie poli tiche o religiose che siano, ma lottano per i diritti: al voto, alla libertà di espressione, al lavoro. Il modello a cui guardano è la Turchia. E penso che anche per l’Occidente sia meglio trattare con governi che hanno l’appoggio del popolo, piuttosto che su dittatori che possono cadere da un momento all’altro. Piuttosto mi preoccupa l’indifferenza dei giovani occidentali, che non solidarizzano con i loro coetanei.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Venerdì 25 Febbraio,2011 Ore: 10:44
 
 
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