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www.ildialogo.org Domenica 28a per annum – B– 14 ottobre 2012 –,di Paolo Farinella, prete

Domenica 28a per annum – B– 14 ottobre 2012 –

di Paolo Farinella, prete

La domenica 28a del tempo ordinario B prosegue la presentazione della formazione che Gesù fa ai suoi discepoli lungo il cammino verso Gerusalemme, la mèta della sua vita. Come abbiamo visto, il cammino si snoda tra i facili ed effimeri entusiasmi della folla che Gesù spegne subito e l’incredulità dei discepoli che lo seguono e dell’ambiente religioso che sospetta. Questa incredulità diventa ostilità e rifiuto che a Gerusalemme, la città santa raggiunge il culmine: Gesù è ucciso in nome di Dio (cf Mt 26,65-66). Ancora una volta si riesce a coinvolgere Dio in un assassinio di potere. Tutte le volte che Dio cessa di essere una persona, ma diventa uno strumento di ideologia si trasforma in martello micidiale che schiaccia chiunque è di una ideologia o pensieri diversi. Questo schema omicida ammantato di religiosità è vivo anche oggi a qualsiasi latitudine e in qualsiasi religione che vuole imporre in modo esclusivo se stessa come «verità assoluta e unica». Se una Chiesa, un Movimento, un Pensiero religioso si pongono come «assoluto» e portavoce «esclusivo» di Dio, è evidente che non c’è spazio per qualsiasi «diverso» che se insiste corre veloce verso la morte.

Sta qui la discriminante tra «assoluto» e «relativo»: Dio in sé è il Tutt’altro, il Presente-Assente, l’Assoluto incontenibile davanti al quale non possiamo che stare in silenzio contemplativo. Tutto ciò, invece, che è umano, misurabile e caduco, come le Chiese, le Religioni, le Ideologia, è «relativo» e deve accettare il limite proprio della creaturalità. La Chiesa non possiede Dio, ma vive della ricerca di Dio che sfugge ad ogni classificazione e possesso. La Chiesa che pretende di possedere Dio, inevitabilmente diventa assassina perché s’identifica con lui e ne assume la rappresentanza totalizzante. Il dialogo è radiato in nome del dogma che vive nella sua solitudine esemplare1. Per vanificare la morte in nome di Dio, Gesù son fugge dalla morte, ma le va incontro e pochi istanti prima di morire perdona i suoi assassini capovolgendo così la legge del taglione prescritta nella Toràh. Alla logica dell’«occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24) si sostituisce il perdono senza riserve e senza nulla in cambio, un amore a perdere: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24). In nome di Dio si può solo perdonare non uccidere. In nome di Dio si può solo essere uccisi non offendere (cf Gv 18,11).

Il cammino di catecumenato che Mc ci descrive è disseminato dall’incredulità che diventa parte integrante dello stesso cammino. Il credente porta dentro di sé una porzione di incredulità e di non-fede che fa deterrenza a qualsiasi forma di fondamentalismo religioso: se il credente è un misto di fede e di non-fede, di fronte agli altri sarà discreto, paziente e compassionevole e si eserciterà ogni giorno a misura la pagliuzza nell’occhio degli altri con la trave nel proprio occhio (cf Mt 7,3; Lc 6,41). Chi invece crede di credere e brucia di zelo in difesa della «purezza» di Dio, brucia solo per l’immagine che egli ha di Dio e non certo per il Dio «pronto a perdonare, misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore» (Ne 9,17; cf Es 34,6-7; Sal 86/85,15; 145/144,8; 103/102,8).

Gesù è alla conclusione del suo ministero di rabbi itinerante e non ha raccolto grandi successi come forse sperava all’inizio. Le masse rifiutano il Messia dimesso e povero che egli rappresenta, perché sono abbagliate dall’attesa di un Messia folcloristico e scenografico, potente e vincente. Le istituzioni (tempio e sacerdozio) sono contro di lui perché egli svela la doppiezza della loro vera natura; usano Dio per il loro potere e per il denaro. Ora la morte non è solo vicina, è inevitabile. Tutto è contro di lui che molti considerano un invasato se non un pazzo come pensa la sua stessa famiglia (cf Mc 3,21). Il Regno predicato da Gesù non sarà mai invaso dalle folle, ma sarà popolato solo da un «piccolo gregge» (Lc 12,32). Quando le chiese sono piene dobbiamo preoccuparci: esse sono popolate di religione atea e interessata; quando in esse invece vive il «piccolo gregge», si compie un segno dei tempi che anticipa il Regno perché compie solo il suo dovere di credere nel Signore Gesù, Messia impotente e Dio povero, pane spezzato per gli affamati di giustizia (cf Mt 5,6). La chiesa dei «numeri» si preoccupa di apparire e tiene la contabilità statistica, il piccolo gregge non teme la sua debolezza, ma si affida alla grazia di Dio (cf Lc 12,32), consapevole che «quello che debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27).

La «sapienza» di cui parla la prima lettura (cf Sap 7,7-11) è l’arte del buon governo che l’autore individua come conseguenza della preghiera e del disinteresse totale. La versione italiana traduce con «prudenza», dove il greco usa «phrònēsisintelligenza/pensiero». Possiamo dire che il testo afferma con chiarezza che nessun conflitto d’interessi può coesistere con lo spirito di sapienza che anima chi governa: nemmeno la salute, nemmeno le ricchezze, nemmeno «tutto l’oro» del mondo possono essere preposte all’anima di chi ha autorità. In sostanza la Scrittura ci dice che la politica non è l’arte del compromesso, né il governo è l’equilibrio delle convenienze, ma semplicemente una questione di anima, una disposizione dello spirito, un servizio reso agli altri in nome di Dio che è nei cieli l quale «non vi è preferenza di persone» (Ef 6,9). Chi governa deve essere umile e vero, serio e affidabile, trasparente e consapevole di non essere padrone, ma ministro della pace ordinata del suo popolo. Governare significa realizzare al meglio il «bene comune» come sintesi del benessere e della felicità di tutti. Dobbiamo pregare per i governanti perché acquistino lo spirito di sapienza, se veramente vogliono servire il loro popolo. Se invece vogliono servirsi del popolo per la loro immoralità, è obbligo dei cristiani prendere le distanze e non diventare complici della loro immoralità.

La seconda lettura, tratta ancora dalla lettera agli Ebrei, che, come abbiamo già detto, è un’omelia scritta da un sacerdote ebreo convertito, riporta un brano conosciuto e molto forte che riguarda l’efficacia della Parola paragonata alla spada affilata dai due lati. Precedentemente l’autore aveva descritto il modo con cui si è rivelato Dio: ha parlato attraverso i profeti e infine in Gesù Cristo (cf Eb 2,1-4). Questa rivelazione è annuncio di salvezza che l’autore chiama «riposo» per coloro che l’ascoltano (cf Eb 3,18; 4,1.3-7.11; cf Nm 14,29; 1Cor 10,5); per coloro invece che non l’ascoltano, ma la rifiutano, essa diventa castigo (cf Eb 4,2). I due versetti, riportati dalla liturgia di oggi, si situano in questo contesto e lo spiegano alla luce della esperienza dell’AT.

Il profeta Isaia aveva già parlato dell’efficacia della Parola in se stessa, paragonata alla pioggia e alla neve (cf Is 55,10-11), ma questa efficacia si manifesta maggiormente in coloro che annunciano la Parola, cioè nei profeti che spesso pagano pesantemente la loro fedeltà ad essa (cf Ger 20,7; Ez 3,26-27). Quando il profeta si lascia possedere dalla Parola diventa a sua volta testimone e garante della Parola che si compie (cf Is 8,1-17; Os 1-3; Sal 69/68,12). Con l’avvento di Gesù avviene qualcosa di inatteso e di unico: la Parola è lo stesso profeta e il profeta è la Parola di Dio «incarnata». Dio non si limita più a inviare qualcuno a parlare in suo nome, ma viene egli stesso e si presenta come Lògos, come Parola (cf Eb 1,1-2; cf Gv 1,1.14). Ciò che hanno sperimentato i profeti e ciò che si è compiuto in Gesù è ancora possibile in ogni cristiano che si abbandona alla seduzione di Dio (cf Ger 20,7). Chi ascolta con spirito di sapienza la Parola che è Gesù, scopre le intenzioni profonde del suo cuore, snida i sentimenti e illumina le decisioni della vita. In questo senso la Parola è giudizio e spada perché non svela solo il comportamento esterno come fa il codice civile, ma scende nel profondo dell’anima, ed essendo affilata da ambo le lame, «doppio taglio» (Eb 4,12), essa inevitabilmente ferisce la carne viva e dà nome alle aspirazioni segrete e alla missione a cui ciascuno di noi è chiamato (cf Lc 2,35).

Il Pane e il Vino sono efficaci perché la Parola che ascoltiamo manifesta il senso e la portata di questo nutrimento riservato a coloro che sono affamati e assetati di giustizia. In fondo l’Eucaristia è una scuola dove ognuno si nutre di fede e nello stesso tempo impara a credere di nuovo per tornare nel mondo ed essere profeta con la vita del Dio che ha sperimentato. Invochiamo lo Spirito che supplisca la nostra debolezza, introducendoci con il salmista che interpreta i nostri sentimenti (cf Sal 130/129,3-4): Se consideri le colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma con te è il perdono, o Dio d’Israele.

Spirito Santo, tu sei la Sapienza che siede accanto al Padre e al Figlio, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la Sapienza più preziosa di ogni ricchezza, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la Sapienza che assiste coloro che temono Dio, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la Sapienza, sorgente di tutti i beni messianici, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la Sapienza del cuore che valuta la caducità della vita, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu ci sazi ogni mattino con il pane della Parola/Sapienza, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu ci sveli ogni giorni l’opera che Dio compie in noi, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu guidi la spada della Parola perché trafigga il nostro cuore, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu raggiungi il nostro intimo fino al punto dell’incontro con Dio, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu scruti sentimenti e pensieri del cuore per farne dono a Dio, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu alimenti in noi il desiderio di vedere la bontà di Dio, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu semini e coltivi nel nostro cuore i comandamenti di Dio, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu solo puoi liberarci da ciò che c’impedisce di seguire Gesù, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu ci insegni che non possiamo servire Dio e il denaro, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu ci insegni la povertà come via maestra per entrare nel Regno, Veni, sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei il centuplo che riceviamo per averti scelto e seguito, Veni, sancte Spiritus.

La spada di cui ci parla la lettera agli Ebrei è la Parola, cioè la sapienza, cioè l’intelligenza, il pensiero. Essa non è un arma di offesa, ma un metodo di ascolto e di adesione. Provoca una ferita e una sofferenza, ma non agli altri: essa ferisce il cuore di chi vuole ascoltare con il cuore. Mettersi in relazione con un altro, qui con Dio, significa mettersi in gioco e non giocare in difesa. Solo così possiamo essere capaci di liberarci da noi stessi, dai nostri bisogni e dalla nostra stessa religione per essere pronti ad accogliere l’invito del Signore che ci chiama per nome: «seguimi» (Mt 9,9 et passim). Vogliamo seguirlo, andando per le strade del mondo e raccogliendo gli aneliti di pace e di amore, di dolore e di amarezza che deponiamo sull’altare

(italiano)

Nel Nome

del Padre

e del Figlio

e dello Spirito

Santo.

Amen.

(ebraico)

Beshèm

ha’av

vehaBèn

veRuàch

haKodèsh.

Invochiamo il perdono di Dio che è il Padre della sapienza, il fondamento della preghiera, la forza dell’efficacia e il punto di partenza per la missione come risposta alla chiamata di Dio. Solo se siamo perdonati possiamo rispondere all’invito di Gesù: «Eccomi, manda me» (Is 6,8).

[Le prime tre risposte sono in ebraico, le altre in greco]

Signore, per le volte che abbiamo sentito e non ascoltato la Parola,

Ha’adôn, channènu [Signore, pietà di noi]

Cristo, ci chiami alla libertà da noi stessi per seguirti e testimoniarti,

Yeshuàch, shemachènu [Gesù, ascoltaci]

Signore, abbiamo preferito la tranquillità alla sapienza del cuore,

Hammashiàch, chazrènu [Messia, aiutaci]

Cristo, sei la cruna dell’ago che ci introduce al tuo regno di giustizia, Christe, elèison.

Signore, se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Kyrie, elèison. Pnèuma, elèyson.

Cristo, tu sei il perdono e la misericordia perché sei il Dio di Israele, Christe, elèison.

Dio onnipotente, che ci offre la Sapienza più preziosa di tutto l’oro nella Parola che ascoltiamo e nel Pane che mangiamo, cibo del cuore che ci rende liberi da qualsiasi condizionamento per essere in grado di seguire il Figlio che ci chiama alla radicalità del vangelo, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduce alla vita eterna. Amen.

GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente [breve pausa 1-2-3]

Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]

Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]

Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.

Preghiamo [colletta]. O Dio, nostro Padre, che scruti i sentimenti e i pensieri dell’uomo, non c’è creatura che possa nascondersi davanti a te; penetra nei nostri cuori con la spada della tua parola, perché alla luce della tua sapienza possiamo valutare le cose terrene ed eterne, e diventare liberi e poveri per il tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

MENSA DELLA PAROLA

Prima lettura Sap 7,7-11. L’autore del libro della Sapienza vive nel sec. I a. C. Egli riflette sulla storia passata e particolarmente sul re Salomone presentato come l’ideale del re che ha governato con la «sapienza» che egli stesso ha chiesto a Dio. L’autore di questo brano forza un po’ la storia perché Salomone si riteneva inadeguato al governo (cf 1Re 3,6-12; 5,9-14). Nel testo odierno «sapienza» ha il significato tecnico di «abilità politica» in funzione del buon governo che il re Salomone antepone a tutto, dalla ricchezza alla salute, anticipando così la figura della perla/Regno di Cristo per il cui acquisto il credente vende ogni cosa (cf Mt 13,44-46).

Dal libro della Sapienza Sap 7,7-11

7Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. 8La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, 9non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. 10L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. 11Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile. - Parola di Dio. Rendiamo Grazie a Dio.

Salmo responsoriale 90/89, 12-13; 14-15; 16-17. Il salmo è attribuito a Mosè, l’uomo di Dio per eccellenza e l’uomo del popolo fino allo spasimo. E’ la preghiera di un saggio permeato dalla Scrittura: nel salmo, infatti, si fanno allusioni ai libri della Genesi, del Deuteronomio e di Giobbe. L’autore riflette sulle debolezze umane, sulla brevità della vita come conseguenza del peccato. Facciamo nostro l’anelito del v. 14 partecipando a questa Eucaristia per saziarci al mattino con il suo amore perché possiamo in grado di esultare con gli uomini e le donne che incontriamo nella Storia.

Rit. Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.

1. 12Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
13Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi! Rit.

2. 14Saziaci al mattino con il tuo amore:

esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
15Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,

per gli anni in cui abbiamo visto il male. Rit.

3. 16Si manifesti ai tuoi servi la tua opera

e il tuo splendore ai loro figli.

17Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,

l’opera delle nostre mani rendi salda. Rit

Seconda lettura Eb 4,12-13. La Parola di Dio, cioè il progetto di salvezza di Dio che è il Lògos/Gesù Cristo, è una spada. Non una spada qualsiasi, ma è affilata dall’uno e dall’altro lato: quando penetra lascia sempre il segno. Aderire al Lògos e sceglierlo come progetto della propria vita non è indolore perché si verificano due esiti: convertirsi a Dio comporta tagli e capovolgimenti; rifiutare il progetto di Dio significa sottomettersi al giudizio della Parola stessa che giudicherà con una sentenza di castigo (Eb 4,2). Fede o incredulità sono le conseguenze che comporta la Parola sempre efficace. Sta a noi, guidati dalla «sapienza», sapere scegliere tra la vita della fede e la morte dell’indifferenza.

Dalla lettera agli Ebrei Eb 4,12-13

12La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto. - Parola di Dio.

Vangelo Mc 10,17-30. Il brano del vangelo di oggi ha una storia molto movimentata, ma Mc ha lasciato tracce che permettono di ricostruire il testo originario. Mt e Lc invece hanno modificato il testo cancellando i vari passaggi. In origine, Gesù, parlò di due fatti distinti: a) un racconto di vocazione nel contesto più generale dell’incredulità dei Giudei senza accenno alla «ricchezza» e b) una riflessione sulle condizioni per entrare nel Regno: anche qui senza accenno alle «ricchezze». In una fase successiva alla morte di Gesù, mutato il contesto sociale, i due racconti si trasformano in lezioni sulla povertà come condizione essenziale per entrare nella nuova comunità. Un esempio lo abbiamo negli Atti quando Bàrnaba vende tutto e dà il ricavato alla comunità (At 4,36-37) a differenza di Ananìa e Zaffìra che provano ad imbrogliare gli apostoli per avidità (At 5,1-11). C’è una novità nel cristianesimo che supera ogni forma di legalismo umano ed è l’invito personale rivolto all’anonimo del vangelo: «Seguimi!» (Mc 10,21). L’imperativo alla 2a persona è un appello ad un «tu»2: a cercare la libertà del cuore che la ricchezza non può comprare né appagare. Essere ricchi è un problema.

Canto al Vangelo

Alleluia. Beati i poveri in spirito, / perché di essi è il regno dei cieli. Alleluia.

Dal Vangelo secondo Marco 10,17-30

[1a tappa: predicazione di Gesù]

In quel tempo, 17mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». 20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

[2a tappa: sviluppo della comunità primitiva]

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma 27Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

[3a tappa: aggiunta posteriore, alla luce delle persecuzioni]

28Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà». - Parola del Signore.

Spunti di omelia

In appendice riportiamo il testo del vangelo nella sua ricostruzione storico-letteraria (ciò che Gesù ha detto e fatto, ciò che la comunità ha aggiunto e come il redattore finale ha definitivamente fissato il testo come lo possediamo noi oggi) per dare un saggio della complessità del testo. Ogni volta infatti che leggiamo un brano del vangelo dobbiamo fare tre passi indietro: 1) il testo come è ora; 2) il livello della comunità cristiana che ha interpreto la predicazione apostolica che a sua volta si basa su Gesù; 3; il livello di ciò che realmente ha detto e fatto Gesù. In sintesi per quanto riguarda il nostro testo. Sulla bocca di Gesù vi sono due insegnamenti semplici e lineari: un racconto di vocazione senza accenno alla ricchezza del candidato, se non in forma molto superficiale e un insegnamento sulle condizioni per entrare nel Regno dedicato alla formazione dei discepoli.

Dopo i primi successi molto esteriori, Gesù e gli apostoli sperimentano il rifiuto da parte della gente e la persecuzione da parte dell’autorità. La stessa esperienza fa la comunità cristiana anche dopo la morte di Gesù. I cristiani provati applicano i racconti di Gesù alla propria situazione e ne ricavano un sostegno nella prova e un insegnamento per la vita. Dopo la caduta del tempio e la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), si compie la scissione definitiva dei cristiani dal mondo ebraico. Gli insegnamenti originari di Gesù diventano una lezione sulla povertà reale per scoraggiare i propri aderenti all’attaccamento della ricchezza, prendendo a modello di vita la stessa comunità come la troviamo descritta negli Atti (cf At 4,36-5,14). Le condizioni per entrare nel Regno annunciato da Gesù diventano un ostacolo ai ricchi il cui cammino è appesantito da beni e ricchezze. Matteo (5,3) e, in misura minore Luca (cf Lc 6,20-24) hanno quasi cancellato del tutto queste tracce, a differenza di Marco che invece conservandole ci ha permesso di ricostruire le fasi del testo3.

Il brano ha dunque due temi connessi: l’incredulità dei Giudei, illustrato dal racconto di vocazione dell’uomo dai molti beni e la difficoltà di entrare nel Regno al seguito di Gesù con «bagaglio al seguito» cioè con le ricchezze in mano. Il richiamo è a Giobbe che afferma: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò» (Gb 1,21). Il giovane rabbi Gesù è alla fine del suo pellegrinaggio e fa un bilancio consuntivo: ora prende coscienza che il suo Regno non sarà invaso dalle folle osannanti (cf Mc 10,24). La nuova comunità che da lui prenderà il nome avrà come compito quello di essere una minoranza, poco più di un segnale, un indicatore stradale. Il rifiuto dei Giudei che in Mc è paragonato all’incredulità, in Mt e Lc produce una reazione violenta di Gesù che maledice il popolo con un verdetto peggiore di quello riservato a Sòdoma e Gomòrra (cf Mt 11,20-24). Mc è attento allo sviluppo della coscienza psicologica di Gesù e ne traccia l’evoluzione spirituale: Gesù è un vero uomo, non un prodigio che conosce tutto in anticipo. La sua natura umana lo obbliga alla fatica di ogni individuo nella ricerca e nella scelta. Egli probabilmente parte con un entusiasmo da «principiante», ma la storia e la natura degli uomini e delle donne che incontra gli insegnano che i miracoli sono merce rada e comunque bisogna rispettare i ritmi di crescita delle singole persone.

Anche i discepoli di Gesù prendono atto dello scacco del loro lavoro missionario e la comunità primitiva mette in evidenza per due volte il loro «sbigottimento» (cf Mc 10,24.26). Mc da parte sua mette in luce e sottolinea con amarezza l’amore inutile del Maestro: «Gesù, fissatolo, lo amò… ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto» (Mc 10,21.22). La scena è drammatica perché il testo greco è forte: «dopo avere fissato lo sguardo [su di] lui, Gesù lo amò». Il verbo è «agapàō» ed è il verbo della gratuità senza condizione che esprime il sentimento di tenerezza. Un amore personale, unico ed esclusivo che diventa inutile e resta infecondo «perché aveva molti beni» (Mc,10 22). Non c’è posto per l’amore dove il cuore è ingombrato dalle cose. Il mistero della salvezza è nascosto nel cuore di Dio perché a lui «nulla è impossibile» (v. 27) e costituisce il fondamento della preghiera della Chiesa per la salvezza dell’umanità anche di fronte al rinnegamento più evidente. La salvezza è una prerogativa di Dio. Per questo non si deve mai giudicare alcuno.

A questo punto Gesù è veramente figlio di Abramo perché è in tutto simile a lui. Dalla sterilità di Abramo Dio seppe trarre un popolo numeroso come le stelle del cielo e la sabbia del mare (cf Gen 15,1-6), e ora dall’insuccesso della missione della «discendenza [di Abramo] che è Cristo» (Gal 3,16) che si consumerà nel fallimento totale della croce saprà trarre il seme della nuova alleanza: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24) Ora le parole di Gesù acquistano un senso pieno perché descrivono la sua vita e ci indicano la direzione: «Non potete servire Dio e mammona» (Mt 6,24L Lc 16,13).

Quando il missionario è preso dalla frenesia di realizzare o di convertire o di costruire è destinato a fallire perché il suo compito primario è stare in mezzo ai suoi simili e vivere da testimone attraverso la profezia senza parola della sua vita, rimettendo a Dio il segreto del disegno finale perché il futuro è solo nelle sue mani (cf Mc 13,32). Il missionario, il battezzato cosciente sa di essere servo con il diritto di seminare ciò che ha ricevuto, ma non sempre ha il mandato di raccogliere:

«36E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica» (Gv 4,36-38; cf 1Cor 3,5-11).

E’ facile per il clero mettersi alla testa della comunità o per il missionario mettersi alla testa dei poveri, è molto difficile essere parte integrante della comunità e povero tra poveri, offrendo non lo scintillìo delle apparenze del mondo di provenienza, ma solo la povertà della propria vita che «sta lì» a vivere e morire «come loro», testimone vivente di una Parola non sua e di una salvezza che viene dall’alto. Guai a trasformare la povertà evangelica in ideologia perché si finisce sempre per scoprire che chi la predica non la vive e chi la vive è usato. La povertà non è un ideale, ma un metodo e uno strumento per realizzare l’ideale della comunione, della fraternità, del Regno di Dio. I professionisti della povertà si mettono sempre alla testa dei poveri, i «poveri di Yhwh» stanno insieme e aiutandosi reciprocamente, cammano insieme verso il monte della liberazione che solo Dio può dare e solo chi vive distaccato dallo stile del mondo, può ricevere: «Sono nel mondo … non sono del mondo» (Gv 17,11.16)4. Nell’intenzione di Mc però, il racconto dell’uomo ricco ha anche lo scopo di spiegare le ragioni dell’incredulità attraverso un percorso psicologico interessante che può riguardare ciascuno di noi.

v. 17: «Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?».

Gesù è in Galilea, probabilmente in casa di Simone a Cafàrnao, si è discusso del divorzio e dell’accoglienza dei bambini (v. domenica scorsa); ora Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme. Un uomo gli corre incontro (il vangelo non dice che sia giovane) e pone la domanda essenziale della vita: egli s’interroga sulla salvezza. La questione è esatta, ma egli la pone in modo errato perché ricorre a Gesù come se fosse uno dei tanti rabbini che popolano la Palestina dell’epoca per chiederli un parere. Il titolo «Maestro buono» è appunto riservato alle guide che fanno scuola d’interpretazione della Scrittura e della tradizione e qui dimostra che l’uomo non è tanto interessato alla sua salvezza, ma ad una opinione di scuola. Forse ha già interpellato o forse interpellerà altri rabbini per conoscere la loro opinione: alla fine tra tutte le interpretazioni della Toràh, sceglierà la soluzione più conveniente a lui. Non solo non vuole mettere in discussione se stesso, ma vuole anche essere a posto con la sua coscienza e con gli obblighi della religione: quando si dice che uno vuole la moglie piena e la botte ubriaca.

v. 18: «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo».

Gesù lo snida subito, rifiutando la sua tendenza a blandirlo (lo chiama non solo Maestro, ma anche lo qualifica come «buono»), senza cadere nella trappola, ma lo pone immediatamente davanti alla presenza di Dio: «Solo Dio è buono». La bontà appartiene alla solitudine di Dio perché ne caratterizza la natura e chi vuole parteciparvi deve entrare in questo logica e lasciarsi toccare dal flusso della grazia che esige la nudità della verità. Riferendosi a Dio, Gesù vuole dire che la sua risposta non sarà una delle tante opinioni, ma gli svelerà il comandamento di Dio che lo vincolerà nella sua coscienza e nelle sue scelte. Dopo l’incontro con Gesù, egli non avrà più scampo perché non potrà più andare in giro a chiedere parere, ma deve porsi davanti a se stesso e al Dio in cui si illude di credere e decidersi: «la Parola di Dio … è più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La salvezza non è una questione da discutere accademicamente, ma un rapporto personale con Dio che si consuma in un rapporto d’amore e non di calcolo, di tenerezza e non d’interesse.

v. 19: «Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».

Di fronte al tentativo di sfuggire ad un confronto serio, Gesù lo riporta ancora una volta alla volontà di Dio, inchiodandolo ai comandamenti, cioè all’appello rivolto all’io profondo che è la sorgente della vita vissuta nella sua concretezza e non ragionata nell’astrazione. La volontà di Dio non è un capriccio, ma una relazione che esige una dinamica di intimità e tocca le ragioni che ispirano e spingono a vivere. Spesso discutiamo «su Dio», ma non parliamo «a Dio» e non lo incontriamo nella vita perché non siamo capaci di incontrare gli altri. Spesso crediamo di pregare e invece parliamo solo con noi stessi, trasformando la preghiera da trasfusione di vita a mero psicologismo auto-gratificante. Non basta chiudere gli occhi e stare in raccoglimento per incontrare Dio, ma è necessario imbandire la tavola, preparare la mensa della propria vita come spazio dove Dio possa danzare l’amore trinitario, dopo essersi saziato del nostro desiderio di lui, dandogli compimento.

v. 20: «Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”».

La risposta dell’uomo è temporeggiatrice perché serve per prendere tempo e rimandare la sentenza. L’uomo capisce che i conti non gli torneranno più e vuole organizzarsi per impressionare e uscire indenne dalle esigenze «di Dio». Gesù non è più «Maestro buono», ma solo «Maestro» e in questo ridimensionamento c’è da vedere una presa di distanza da Gesù che ha l’autorità di parlare a nome di Dio. L’uomo ricco ci prova ancora: egli è soddisfatto di adempiere tutti i suoi doveri: è nato ebreo e non ha cessato di esserlo fin dalla nascita: è il tipico uomo religioso di tutti i tempi. Vive per forza d’inerzia, non sceglie mai. E’ religioso perché pratica molto, osservando tutte le prescrizioni delle norme, della liturgia, della purità legale, ma non sa amare e non ha mai fatto l’esperienza di essere amato. Frequenta il tempio per gli adempimenti di rito, ma non ha mai incontrato Dio. Somiglia al fariseo nel tempio che s’ingrassa da solo davanti a Dio (cf Lc 18,10-12), senza neppure immaginare che Dio è lontano da lui e dal suo sistema di pensiero. Consapevole di adempiere tutte le prescrizioni della Toràh, se ne vanta e ne va orgoglioso, come coloro che per accreditarsi dicono «da bambino facevo anche il chierichetto». Ancora una volta la «religione» gli preclude la via della «fede»: la religione gli ha stroncato la capacità della speranza e quindi la possibilità di convertirsi e di essere un credente che «ha fatto l’esperienza di Dio». Crede di obbedire alla Legge e si giudica a posto con la sua coscienza: ha fatto il suo dovere legale. Crede di credere e non si è accorto che ha trattato Dio come una prostituta con cui fare un baratto momentaneo.

 

v. 21: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”».

Oggi più che ieri siamo tentati di accontentarci della religiosità legale: pagare il pedaggio per la tranquillità della coscienza con una religiosità senza impegno e senza problemi. Gesù smonta questa religiosità e usa lo stesso linguaggio di Yhwh con Abramo. In Gen 12, 1-4 nel proliferare della religiosità del sec. XIX a.C. un Dio sconosciuto entra nella vita di un tranquillo capo clan che fa risuonare la sua parola autorevole: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre» (Gen 12,1). Abramo si lasciò «sedurre» da quella parola nuova senza altra garanzia per il futuro che la Parola stessa di un Dio sconosciuto e, fidandosi, «sulla sua parola gettò le reti» (Lc 5,5), dando inizio alla storia di Dio nella storia dell’umanità. L’uomo del vangelo si trova di fronte alla stessa autorità perché riceve un comando perentorio: Vàttene dai tuoi beni, dalla tua religione perbenista e borghese, dalla tua presunzione di bontà, condividi con i poveri la ricchezza che ti soffoca e infine seguimi, cioè vai verso la terra della fede che io ti ho appena indicato.

Lo sguardo di Gesù è penetrante e per descriverlo l’autore usa il verbo «emblèpō» che significa «guardo/osservo con attenzione/intensamente». Uno sguardo talmente diretto e forte che fa sentire la densità e la tensione dell’amore che trasporta: «ēgàpēsen» che può essere tradotto con lo «amò di amore totale/gratuito». L’uomo è nudo, spogliato da quello sguardo che arriva all’anima, straendolo dal sepolcro della sua esistenza senza senso, come Lazzaro dalla caverna della morte: «Vieni fuori! … Liberàtelo e lasciàtelo andare» (Gv 11,43-44). L’uomo che pesa la sua ricchezza, ma non conosce la profondità della sua anima, capisce che le sue domande sulla vita eterna e le sue risposte sulla sua religiosità «fin dalla nascita» (Mc 10,20) non erano che scuse per eludere la fede e il rapporto con Dio che non vuole i suoi atti di religione e il suo ossequio alle regole, ma pretende la sua vita:

«Sono sazio dei vostri olocausti … smettete di presentare offerte inutili … Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei … cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova …» (Is 1,11.13.15.17).

Di fronte all’invito perentorio di credere in Dio, l’uomo si toglie la maschera e si mostra per quello che è. Lo sguardo intimo di Gesù è arrivato al cuore e lì si è depositato, svelando un amore esclusivo e gratuito, quasi complice e coinvolgente: «Vieni!» che esprime la disponibilità di Dio a ricominciare con lui la nuova direzione della vita. Anche Dio però si ferma, a distanza di sicurezza, davanti alla libertà della coscienza.

v. 22: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni».

Un uomo ricco può essere una povera persona che affonda nell’angoscia che nemmeno la ricchezza sa lenire; non è capace di mettere in atto una relazione di vita, forse è «solo» anche nella vita, magari con servi e dipendenti: la sua solitudine isolata risplende dall’alto dei suoi «molti beni» che non gli riempiono la vita, ma gliela occupano, impedendo gli slanci propri della vita. L’invito di Gesù invece lo incupiscono con un moto di dolore perché egli si crede religioso e invece scopre di essere ateo. Su di lui scende la notte che lo avvolge nella tristezza della morte5. Si accontenterà della sua religiosità di convenienza, ma dovrà rifiutare ad essere salvato perché credere è solo attaccarsi alla persona di Gesù. Quest’uomo ha fatto scuola perché lungo il corso della storia, il cammino degli uomini di chiesa si è fatto più sottile e blasfemo: hanno trasformato la ricchezza o per lo meno lo stile appariscente come rappresentativo della «Maestà di Dio». Un uomo ecclesiastico può paludarsi in abiti di seta e pizzi traforati e con tranquilla coscienza potere dire che tutto ciò non è riferito alla sua «povera persona», ma a «ciò che lui rappresenta». Intanto il rappresentante si addobba come un manichino e attira l’attenzione su di sé, invece che sul «Tutt’Altro». La ricchezza sontuosa che egli indossa è «per la gloria di Dio», se dipendesse da lui, infatti, vi rinuncerebbe, ma non lo fa perché si sente ed è solo «un umile servitore nella vigna del Signore»6. Un discepolo carico di beni o «vestito in morbide vesti» (Mt 11,8) non può essere rappresentativo di chi, nato in una mangiatoia (cf Lc 2,7), ha chiamato a sé i discepoli con l’ordine di prendere per il viaggio, né bastone né sacca, né pane né denaro, né due tuniche (cf Lc 9,3).

vv. 23.25: «23 Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio! … 25 È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”».

L’espressione che parla del cammello che passa la cruna dell’ago ha fatto pullulare molte di ipotesi. Noi prendiamo la sentenza come una iperbole7 che non ha bisogno di cambiare il testo, ma sottolinea «l’esagerazione» plastica del rapporto tra «cammello», animale con due gobbe e la «cruna di un ago», passaggio piccolissimo e strettissimo, dove può passare solo un filo sottile di cotone8. L’espressione serve per sottolineare una difficoltà insormontabile: «i molti beni» costituiscono una «porta molto stretta» da attraversare per giungere al Regno di Dio.

La comunità primitiva sviluppa il tema della ricchezza che nella predicazione di Gesù era appena accennata: si nota una certa confusione perché i primi cristiani spinti dalla convinzione che il mondo dovesse finire da un giorno all’altro avevano fatto della povertà materiale la condizione del nuovo gruppo, come si vede chiaramente dalle beatitudini di Lc 6,20-26, scandite dall’avverbio di tempo «ora». Mt attenua questo atteggiamento e nella 1a beatitudine parla di «poveri dello/nello spirito/relativamente allo spirito» (Mt 5,3) eliminando, la maledizione ai ricchi che invece riporta Lc: «Ma guai a voi, ricchi» ( Lc 6,24) e trasportando il discorso di Gesù dal piano profetico a quello morale, perché ormai al tempo di Matteo (70-80 d. C.), la Chiesa è strutturata e si interroga sulla corrispondenza della vita quotidiana agli insegnamenti di Gesù.

Per superare il legalismo della religione non bisogna cadere nell’altro legalismo: esigere che i ricchi diventino poveri per entrare nel Regno, quasi che la povertà in se stessa sia una garanzia per una vita di fede. Gesù non ha fatto una questione sociale. Egli è venuto ad includere i poveri, gli esclusi, i reietti, gli inutili, coloro che la società considerava un peso: ha riconosciuto a tutti il diritto al «permesso di soggiorno permanente nel Regno» perché, se lo vogliono, possono essere più liberi degli altri. Non è necessario che i ricchi alienino le loro ricchezze: è necessario che le ritengano mezzi e non fine e le condividano nel contesto di una giustizia che supera quella degli uomini. La povertà è un male specialmente per coloro che non sanno organizzarsi o difendersi, ma è il terreno dove confrontarsi e misurarsi specialmente oggi in cui il mondo occidentale, che si identifica con il mondo dei cristiani, è interpellato dalla fame e dalla denutrizione che colpiscono tre quarti dell’umanità. Sant’Ambrogio commentando il racconto biblico di Nabot fatto uccidere dalla regina Gezabèle per potergli prendere la vigna (cf 1Re 21,7-15) così commenta:

«Non è del tuo avere, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché ciò che tu ti annetti è quello che è dato in comune per l’uso di tutti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi»9.

Tutte le ricchezze sono costruite a danno dei poveri. I centri decisionali e strategici dell’economia mondiale sono saldamente nelle mani dei paesi ricchi, capitalistici, per lo più nei Paesi occidentali a maggioranza cristiana, che impongono ai Paesi poveri i loro criteri e le loro condizioni. Nessun Paese povero, infatti, decolla perché strozzato e spesso depredato dagli stessi che lo dovrebbero aiutare. Molte imprese nascono per prendere contributi pubblici, dichiarare fallimento e mettere sulla strada operai e famiglie: questa ricchezza grida contro il cielo e i cristiani sono chiamati a porre gli interessi delle persone davanti a qualsiasi altro fine, se vogliono essere testimoni del Dio di Gesù Cristo. E’ necessario valutare le cause della miseria e della povertà che impediscono alla maggioranza dell’umanità di accedere alla mensa della dignità umana a cui ciascuno ha diritto per potere essere figlio di Dio. Un industriale che restaura una chiesa, ma licenzia anche un solo operaio senza domandarsi quale possa essere il futuro suo e della sua famiglia è colpevole di un delitto gravissimo ed è già condannato senza riserve dallo sguardo penetrante di Gesù che svela l’ipocrisia di una religiosità senza fede.

L’invito di Gesù: «Va’, vendi quello che hai e dello ai poveri» (Mc 10,21) è rivolto alla Chiesa e agli uomini di Chiesa, quando ricorrono ai favori dei potenti, dei ricchi o dei politici e questi ne concedono in abbondanza, imbavagliandone la potenza profetica. Il Pane spezzato dell’Eucaristia è l’icona di questa prospettiva che esige la nostra conversione alla giustizia di Dio che è l’amore per chi è nel bisogno e non l’uguaglianza tra diseguali.

Credo o Simbolo degli Apostoli10

Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; [Pausa: 1 – 2 – 3]

e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, [Pausa: 1 – 2 – 3]

il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato,

fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; [Pausa: 1 – 2 – 3]

il terzo giorno è risuscitato da morte; salì al cielo,

siede alla destra di Dio onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. [Pausa: 1 – 2 – 3]

Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen.

Preghiera universale [intenzioni libere]

MENSA EUCARISTICA

Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24),

Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.

Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.

[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore.

Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.

Il Signore riceva il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.

Preghiamo (sulle offerte). Accogli, Signore, le nostre offerte e preghiere, e fa’ che questo santo sacrificio, espressione perfetta della nostra fede, ci apra il passaggio alla gloria del cielo. Per Cristo nostro Signore. Amen.

REGHIERA EUCARISTICA II (detta di Ippolito, prete romano del sec. II)
La creazione loda il Signore

Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito. In alto i nostri cuori. Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. E’ cosa buona e giusta.

E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Padre santo, per Gesù Cristo, tuo dilettissimo Figlio.

Tu ci concedi lo spirito di Sapienza convocandoci alla mensa della Parola e del Pane (cf Sap 7,7).

Egli è la tua Parola vivente, per mezzo di lui hai creato tutte le cose, e lo hai mandato a noi salvatore e redentore, fatto uomo per opera dello Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria.

La tua Sapienza che è lo Spirito di Gesù è più preziosa dell’oro e della salute (cf Sap 7,9-10).

Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce, morendo distrusse la morte e proclamò la risurrezione.

Santo, Santo, Santo, il Signore Dio degli eserciti. Kyrie, eleison, Christe, elèison. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Christe, elèison, Pnèuma, elèison!

Per questo mistero di salvezza, uniti agli angeli e ai santi, proclamiamo a una sola voce la tua gloria:

Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto nel Nome del Signore colui che viene. Kyrie, eleison, Christe, elèison, Pnèuma, elèison!


Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.

«Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (Sal 90/89, 14).

Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI. Resta con noi, Signore, e ti riconosceremo allo spezzare il pane (cf Lc 24, 29-31).

Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.

Il calice della benedizione che benediciamo è comunione con il Signore Gesù (cf 1Cor 10,16).

FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.

«Abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,69).

MISTERO DELLA FEDE.

Maranà thà! Celebriamo la tua morte e la tua resurrezione: Vieni, Signore Gesù!

Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.

La tua Parola, o Padre, è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; il tuo Vangelo penetra e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore (cf Eb 4,12).

Ti preghiamo: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.

Solo tu, o Dio, sei Padre di tutti e noi siamo tutti fratelli e sorelle: insegnaci ad essere perfetti come tu sei perfetto, Padre nostro che è nei cieli (cf Mt 23,8; 5,48).

Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell'amore in unione con il Papa …, il Vescovo .., le persone che amiamo e che vogliamo ricordare … e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.

«Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”» (Mc 10,19).

Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.

«Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”» (Mc 10,20).

Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.

Tutti: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dello ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”» (Mc 10,21).

Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]

Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell'unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià

sia santificato il tuo nome

itkaddàsh shemàch

venga il tuo regno

tettè malkuttàch

sia fatta la tua volontà

tit‛abed re‛utach

come in cielo così in terra

kedì bishmaià ken bear‛a.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh

e rimetti a noi i nostri debiti

ushevùk làna chobaienà

come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori

kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà

e non abbandonarci alla tentazione

veal ta‛alìna lenisiòn

ma liberaci dal male.

ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione Mc 10,21: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! e Seguimi!».

Dopo la Comunione

Oggi ricordiamo una donna, minuta, coraggiosa ed energica, che il card. Carlo Maria Martini ebbe a definire una delle più grandi mistiche del XX secolo: Madeleine Delbrêl, appassionata di Dio e della gente ordinaria. Madeleine era nata il 24 ottobre 1904 a Mussidan (Dordogne – Francia). Ancora giovane si convertì dall’ateismo al cristianesimo. Assieme ad altre donne, trovò tra i comunisti di Parigi la possibilità di vivere una vita autentica di comunità cristiana, senz’altro scopo che quello di farsi “prossimo dei suoi prossimi” in una disponibilità incondizionata all’evangelo. Fu una vera umanista che amò Dio intensamente, incontrandolo in tutte le cose ordinarie della vita. Scrisse:

Ci sono persone che Dio chiama e mette da parte in conventi o monasteri. Ve ne sono altre che Dio chiama e le lascia nella società, quelle che Dio non ritira dal mondo. Queste sono le persone che hanno un lavoro ordinario, un matrimonio ordinario o un celibato ordinario. Persone che hanno malattie ordinarie e sofferenze ordinarie. Che vivono in case ordinarie e vestono abiti ordinari. Le persone che noi incontriamo in qualunque strada ordinaria...” “Noi, le persone ordinarie delle strade, crediamo con tutte le nostre forze che questa via, che questo mondo in cui Dio ci ha posto è per noi il luogo della nostra santità”. “Noi incontriamo Dio in tutti i “piccoli” che soffrono nel loro corpo, che sono disgustati, angosciati, che hanno bisogno di qualcosa. Noi incontriamo Cristo respinto in innumerevoli atti di egoismo. Come potremmo prenderci gioco di questa gente o odiare questa moltitudine di peccatori, di cui noi facciamo parte?”.

Madeleine visse in pieno il travaglio della Chiesa pre-conciliare di reinventare l’esistenza cristiana nel mutato contesto storico e culturale. Conobbe, com’è inevitabile, incomprensioni, isolamento, ostilità, nei suoi fratelli di chiesa. Ma trovò anche chi la sostenne e l’appoggiò (tra questi il card. Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI). Alla convocazione del Concilio Vaticano II, volle vedere in esso il sorgere di una nuova primavera dello Spirito, a cui aveva dedicato la vita. Madeleine morì improvvisamente, il 13 ottobre 1964.

Da Elie Wiesel: Sei Riflessioni sul Talmud

[Fonte, Comunità del Bairro, Goiás - Brasile, «Giorno per giorno» del 25-09-2012]

’Aqiba e il figlio stavano camminando nel bosco, quando si fermarono nei pressi di un pozzo. ’Aqiba domandò a qualcuno che si trovava lì vicino: “Chi ha bucato questa pietra?”. “Le gocce” fu la risposta. “Sono state loro. Se una quantità sufficiente di gocce cade sulla pietra, per un perido sufficientemente lungo, la pietra si modifica”. Disse ’Aqiba: “Se la pietra può ricevre le gocce d’acqua, il mio cuore può ricevere la Torah”. E così ’Aqiba e il figlio andarono da un maestro e iniziarono a imparare l’Alef-Beth. Aveva quarant’anni. Capite: Rabbi ’Aqiba fu il fondatore dell’educazione ebraica rivolta agli adulti. Non c’è da stupirsi che, come noi, Rahel si sia innamorata di lui. Inizialmente studiò con rabbi Nahum Ish Gamzu, una figura leggendaria che nell’arco di tutta la sua vita rese grazie a Dio per qualunque cosa buona o cattiva. Era chiamato Gam-zu, in quanto la sua espressione preferita era “gam zu letovah, tutto va per il meglio”. Fu la sua influenza a permettere ad ’Aqiba di accettare la propria sofferenza con tanta serenità? In seguito studiò con rabbi Eli’ezer ben Hananya.

La leggenda vuole che sia rimasto lontano da casa per dodici anni. Di ritorno, gli capitò di ascoltare, senza essere visto, una discussione tra Rahel e un vicino geloso e maligno: “Tuo padre ha fatto bene a diseredarti”, questi le diceva. “’Aqiba non ti merita. Ma non vedi che ti ha lasciato, che ti ha abbandonato per dodici anni?”. “Se dipendesse da me” rispose Rahel, “continuerebbe gli studi e ripartirebbe per altri dodici anni”. ’Aqiba non entrò nemmeno in casa . Tornò alla yeshivah per altri dodici anni.

Questa storia dovrebbe insegnare alle donne a fare più attenzione alle loro parole e agli uomini a imparare ad ascoltare più attentamente: non si deve origliare da fuori, bisogna entrare dentro. Ma quando finalmente tornò, il giovane pastore oramai divenuto rabbi ’Aqiba, fu accolto da tanti ammiratori (secondo una fonte aveva ventiquattromila discepoli) che Rahel non riuscì nemmeno ad avvicinarsi. Ad un certo punto, egli la riconobbe tra la folla e disse: “Fate largo, lasciatela passare, perché sheli ve-shelakhem, shelah hu, tutto ciò che voi ed io abbiamo cercato di ottenere e che abbiamo ottenuto, lo dobbiamo a questa donna”. .

Giovanni Paolo I, papa Luciani, Discorso del 27 settembre 1978

«Amare significa viaggiare, correre con il cuore verso l’oggetto amato. Dice l’imitazione di Cristo: chi ama “corre, vola e gode”. Amare Dio è dunque un viaggiare col cuore verso Dio. [...] Alcune persone è facile amarle; altre, è difficile; non ci sono simpatiche, ci hanno offeso e fatto del male; soltanto se amo Dio sul serio, arrivo ad amarle, in quanto figlie di Dio e perché questi me lo domanda. Gesù ha anche fissato come amare il prossimo: non solo cioè con il sentimento, ma coi fatti. Questo è il modo, disse. Vi chiederò: Avevo fame nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi avete dato da mangiare? Mi avete visitato, quand'ero infermo? Il catechismo traduce queste ed altre parole della Bibbia nel doppio elenco delle sette opere di misericordia corporali e sette spirituali. L’elenco non è completo e bisognerebbe aggiornarlo. Fra gli affamati, per esempio, oggi, non si tratta più soltanto di questo o quell’individuo; ci sono popoli interi. Tutti ricordiamo le grandi parole del papa Paolo VI: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. A questo punto alla carità si aggiunge la giustizia, perché - dice ancora Paolo VI – “la proprietà privata non costituisce per nessuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”. Di conseguenza “ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile”. Alla luce di queste forti espressioni si vede quanto - individui e popoli - siamo ancora distanti dall'amare gli altri “come noi stessi”, che è comando di Gesù».

Preghiamo. Padre santo e misericordioso, che ci hai nutriti con il corpo e sangue del tuo Figlio, per questa partecipazione al suo sacrificio donaci di comunicare alla sua stessa vita. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

Benedizione e saluto finale

Sia Benedetto colui che è Benedetto in cielo e in terra.

Rivolga il Signore il suo Nome su di noi e ci doni il suo Spirito.

Rivolga il Signore il suo Volto su di voi e vi doni la sua Pace.

Sia sempre il Signore davanti a noi per guidarci.

Sia sempre il Signore dietro di voi per difendervi dal male.

Sia Sempre il Signore accanto a noi per confortarci e consolarci.

E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio

e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen!

La messa finisce come lode, continua come storia e sacramento di testimonianza.

Andiamo in Pace. Rendiamo grazie a Dio con la forza dello Spirito Santo.

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Domenica 28a Tempo Ordinario-B – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete

© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica

Paolo Farinella, prete – 14-10-2012 – San Torpete – Genova

NOTE

1 A questa categoria appartengono le formazioni religiose che rifiutano, implicitamente o esplicitamente il concilio Vaticano II e la riforma di Paolo VI. Tra esse eccelle a livello di simbolo il movimento lefebvriano che addirittura esclude la possibilità di un concilio perché l’infallibilità del papa sancita dal Vaticano I rende inutile e controproducente la libertà di ricerca e il dialogo all’interno della stessa Chiesa cattolica. Secondo questo schema mentale, il papa non è più il vicario di Cristo, ma vice-Dio: a lui il comando assoluto che esercita «motu proprio» a tutta la Chiesa il dovere di dire «Amen».

2 Gesù usa la stessa autorità di Yhwh che nei comandamenti si rivolge al suo popolo con il pronome di 2a persona singolare: «[Tu] non avrai altri dèi di fronte a me… [Tu] non ti farai idolo… [Tu] ricordati del giorno di sabato … [Tu] onora tuo padre e tua madre … [Tu] non ucciderai …» (Es 20,2-17; Dt 5,6-21). L’imperativo non è un invito generico ad una religiosità generica, ma l’appello di una persona alla coscienza libera di un’altra persona, fondamento dell’agire morale.

3 L’atteggiamento drastico della prima comunità sulla povertà e ricchezza vengono prese nel contesto dell’opinione corrente che la fine del mondo sia vicina: i primi cristiani, formati nel Giudaismo post-esilico, infatti, ritenevano che con la venuta del Messia sarebbe coincisa con la fine del mondo. Per molti il segno dei segni di questo evento fu la distruzione del tempio da parte di Tito (70 d.C.), ritenuto inviolabile perché sede della gloria di Dio. Anche san Paolo aveva questo indirizzo (lettere ai Tessalonicesi: cf 1Ts 5,1-10), ma ben presto l’abbandona e lotterà contro questa opinione, proiettando l’attesa nell’escatologia la speranza della redenzione finale di tutto il mondo (cf 2Ts 3,10-12; Rm 8,18-27, spec. 19.23.25). Anche i vangeli risentono di questo travaglio (cf Mt 24,1-51, spec. 3.14.15.30.36.42.44; cf anche Mc 13; Lc 21).

4 Charles de Foucauld durante la sua permanenza nel deserto algerino del Sahara, prima a Beni Abbès, povero tra i più poveri, poi più a Sud a Tamanrasset con i Tuaregs dell’Hoggar (dal 1901 al 1916) non produsse alcuna iniziativa né fondò alcuna congregazione: visse imitando la vita di Gesù a Nàzaret, nel silenzio, pregando e perdendo tempo per quel popolo che amava. Cominciò a portare frutto solo dopo cinquant’anni dalla sua morte. Un monaco trappista straordinario, P. Filiberto Guala (1907-2000), primo amministratore delegato della rai al suo esordio, fattosi monaco a cinquant’anni soleva dire che «occorre mezzo secolo di vita monastica prima di entrare nello spirito della regola e cominciare il vero noviziato». Bisogna distinguere tra fallimento e fallimento. C’è il fallimento degli ignavi: se il mondo crolla, si spostano un poco più in là e nulla li tocca e riguarda anche il clero che si adagia sul criterio minimo garantito del «si è sempre fatto così». C’è poi il fallimento di chi ha investito personale, istituzioni, denaro, strutture per decenni e anche qualche secolo, ma non ha avuto sufficiente «discernimento» per valutare ciò che faceva e le conseguenze che sarebbero venute: è la logica di chi si accontenta di creare strutture, non solo materiali, ma anche spirituali, sperando che portino frutto da soli, come è avvenuto in Rwanda . C’è infine il fallimento della croce che è l’atteggiamento interiore di chi mette a disposizione la propria vita regalandola a Dio e al popolo a cui è mandato, disposto a lasciarsi maciullare per amore, consapevole che i frutti li determina solo Dio e la sua Provvidenza. Questo e solo questo fallimento è generativo e porta frutto per decenni e secoli.

5 Il testo greco suona così: «Egli quindi dopo essersi oscurato/incupito su quel discorso, se ne andò, essendosi addolorato: aveva infatti molte ricchezze». Il verbo «styghnàzō – mi oscuro /m’incupisco» contiene l’idea di oscurità, di buio di notte; mentre il secondo verbo «lypèō – rattristo/addoloro» contiene l’idea di un dolore invincibile che conduce alla tristezza esistenziale (= rat-tristo). L’uomo dunque crede di vivere, mentre è succube della notte e del buio; tutto quello che ha è diventato quello che è: non possiede molte ricchezza, ma sono queste che lo posseggono fino al punto di seppellirlo in un mare di tristezza esistenziale che lo porta all’infelicità. Se fosse felice non andrebbe in giro a cercare soluzioni di comodo.

6 Il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, che si atteggiava a «principe», aveva scelto come motto episcopale per il suo stemma la frase lapidaria: «Non nobis, Domine – Non a noi/per noi, Signore» (Sal 115/113B,1) e credeva che paramenti, berretti, cappelli, anelli e croci dorate che sfoggiava con noncuranza fossero veramente un inno alla grandezza di Dio. Tanto era sicuro che fosse per la «gloria di Dio» e non per la sua vanità che fece scolpire il versetto su tutti gli stipiti di marmo di tutte le porte della curia, ancora oggi visibile a testimoniare un culto di sé capace di condizionare anche i suoi successori che, per fortuna, non hanno avuto la pretesa di cambiare marmi.

7 L’iperbole (greco hyperbolêeccesso) è una figura retorica e consiste nell’esagerare la descrizione della realtà con espressioni che l’amplifichino per eccesso o per difetto come nelle espressione: «ti amo da morire – è grande come un armadio – aspetto da una vita, ecc.».

8 Il testo greco dice: «kàmēlon dià [tês] trymaliâs – un cammello attraverso la cruna». Alcuni sostengono, sulla base di tradizioni islamiche che il termine «kàmēlon – cammello» dovrebbe leggersi «kàmilon – corda/fune» per cui sarebbe più sensato dire: «E’ più facile che una fune/gòmena passi attraverso la cruna di un ago [impossibilità assoluta]». Questa interpretazione si basa su una variante di testo, abbastanza isolata ed è più di comodo che reale. Noi propendiamo per il suo senso letterale che non contraddice né la mentalità orientale, ricca di ipèrboli, né la letteratura giudaica che conosce il rapporto «elefante/cruna». Leggiamo nel Talmud: «R. Shemuèl bar Nahmàn (intorno al 260) ha detto che R. Jonatàn (intorno al 220) ha affermato: “(Dio) fa vedere agli uomini (nel sogno) solo i pensieri del suo cuore, secondo quanto fu detto “Tu, o re, i tuoi pensieri salgono sul giaciglio” (Dn 2,29) … Disse Rabbà (morto nel 352): Tu lo puoi riconoscere da questo, che a nessun uomo (nel sogno) si fa vedere una palma d’oro o un elefante, che passi attraverso la cruna di un ago» (Talmud babilonese, trattato Berakòt/Benedizioni 55b). Sempre nel Talmud babilonese leggiamo ancora a nome di R. Sheshèt (intorno al 260) che parla a R. Amram: «Sei tu di Pumbedìta [città babilonese sede di molti Ebrei esiliati] dove si fa passare un elefante per la cruna di un ago?» (Talmud babilonese, trattato B. M. [Baba Metzia – Porta mediana], 38b. Nel Midràsh a Cantico dei Cantici 5,2, invece commentando il versetto: «Aprimi, sorella mia!», R. Josè (introno 350 d. C.) dice: «Dio disse agli Israeliti: Fatemi un’apertura della penitenza grande quanto una cruna, ed io vi aprirò delle porte in cui possono entrare vetture e carri» (cf anche Talmud babilonese, Pesachìm – Pasque, 163 b). Sul termine «kàmēlos» e la sua storia cf Michel O., «kàmēlos», in Grande Lessico del Nuovo Testamento (GLNT), V,161-166).

9 De Nabuthe, c.12, n. 53: PL 14, 747. Cf. J.R. Palanque, Saint Ambroise et l'empire romain, De Boccard, Paris 1933, pp. 336ss. (cit. da Paolo VI, Lettera enciclica «Populorum Progressio» [26.03.1967] n. 23, nota 18). Nella stessa enciclica il papa continua: «La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, “il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi”. Ove intervenga un conflitto «tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali», spetta ai poteri pubblici “adoperarsi a risolverlo, con l’attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali”» (Paolo VI, Populorum Progressio, lettera enciclica, n. 23; le due citazioni nel testo, riportate dalla stessa enciclica, è tratta da Cardinalis a publicis Ecclesiae negotiis Epistola ad catholicos viros socialis vitae studia in urbe vulgo Brest celebrantes, in libro qui inscribitur L’homme et la révolution urbaine, Chronique sociale, Lyon 1965, pp. 8-9).

10 Il Simbolo degli Apostoli, forse è la prima formula di canone della fede, così chiamato perché riassume fedelmente la fede degli Apostoli. Nella chiesa di Roma era usato come simbolo battesimale, come testimonia Sant’Ambrogio: « È il Simbolo accolto dalla Chiesa di Roma, dove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, e dove egli portò l'espressione della fede comune» (Explanatio Symboli, 7: CSEL 73, 10 [PL 17, 1196]; v. commento in Catechismo della Chiesa Cattolica, 194).

 




Mercoledì 10 Ottobre,2012 Ore: 16:03
 
 
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