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www.ildialogo.org Domenica 13a per annum – B – 01 luglio 2012 –,di Paolo Farinella, Prete

Domenica 13a per annum – B – 01 luglio 2012 –

di Paolo Farinella, Prete

 Domenica 13a per annum – B– 01 luglio 2012 –

La domenica 13a del tempo ordinario – B prosegue la lettura semicontinua del Vangelo di Marco, che è un catechismo scritto per coloro che si affacciano per la prima volta alla fede e alla conoscenza di Gesù: i catecumeni. L’intento dell’evangelista è semplice: attraverso gli avvenimenti vissuti da Gesù vuole fare «vedere» la sua personalità nascosta, quella che la sua umanità non riesce ad esprimere appieno. Marco ci dice che non si può separare l’umanità dalla divinità: ogni volta che si tenta questa operazione per accentuarne un aspetto, si finisce sempre per perdere di vista la persona stessa di Gesù.  Per conoscere Gesù abbiamo una via obbligata che è l’intimità con la sua umana esperienza. Chi con la scusa di difendere la «divinità» di Gesù mette tra parentesi o sminuisce l’umanità di Gesù, è sul filo dell’eresia perché arriverà  a conoscere solo l’idea che loro si sono fatti di Dio e quindi di Gesù Cristo. Molti cristiani e preti e anche vescovi oggi sono su questo filo: sono tanti «spiritualisti» da smarrirsi nelle praterie delle nubi alla ricerca di un «dio» che non esiste. Di solito costoro non condividono mai con alcuno chi sono e cosa pensano, sanno solo imporre perché logicamente si ritengono depositari della «verità assoluta» che Dio personalmente ha affidato loro.  Essi sono vittima uno spiritualismo vuoto ed effimero, disincarnato, capace solo di nascondere immaturità e carenze di ogni genere. L’idea che hanno di Dio è solo un paravento delle loro debolezze.

E’ facile essere «spiritualisti» senza riferimento alla storia perché non si è obbligati a vivere la fatica della fede che si nutre di dubbi e di incertezze. Lo spiritualista che non è «l’uomo spirituale» (1Cor 2,15) si aliena da sé e usa la «religione» come strumento di dominio o schermo di fragilità, spesso anche morali. Non si può avere paura del «Dio incarnato» perché è una scelta e un metodo che non abbiamo né potevamo inventare noi. L’uomo Gesù precede il Cristo della fede, lo precede sempre, anche dopo la risurrezione: senza l’uomo non possiamo nemmeno immaginare di incontrare Dio. Gesù stesso «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52). Qui si colloca quella caratteristica teologica che si chiama «singolarità» di Gesù Cristo: egli manifesta tutto lo splendore della sua divinità nella pienezza della sua umanità. Non esiste altra strada per incontrarlo. Per incontrare il Dio, bisogna attraversare tutto il cammino dell’uomo Gesù che arrivò a «svuotarsi – ekènosen» (Fil 2,7).

Oggi c’è la tendenza ad uniformare tutte le religioni, in nome di un «panreligionismo» all’acqua di rosa, per cui si negano le differenze per uniformare al basso, evitando così la fatica del dialogo, della ricerca, della sintesi. Eliminare le differenze significa strumentalizzare se stessi e  gli altri, perché alla prima occasione, il più furbo o il più lesto prende il sopravvento. Rispettare le differenze invece significa considerare l’altro come un baluardo invalicabile, un limite da rispettare, la parte migliore di sé perché nell’altro, a qualunque cultura o nazione o popolo appartenga c’è il segno dell’immagine di Dio (Gen 1,27). Chi ama il dialogo, sa ascoltare, ma si rifiuta di semplificare che spesso significa fare diventare tutto semplicistico.

 In un contesto di multi religiosità che oggi coinvolge il mondo intero, a qualsiasi latitudine, il cristianesimo, insieme all’ebraismo, non può essere assimilato a nessuna religione esistente. Le religioni esistenti infatti sono il tentativo di raggiungere Dio attraverso sforzi ascetici e liturgie di separazione dalla materia e dal mondo, considerati il male  e il limite assoluto. Esse quindi vivono il processo di «divinizzazione»: più ci si libera dalla materia e più si si avvicina a Dio, tanto più si diventa perfetti. Il cristianesimo è esattamente l’opposto: Dio è venuto a cercare l’uomo nell’unico ambiente dove l’uomo poteva incontrarlo: nella storia e in mezzo agli avvenimenti. Non è l’uomo che diventa Dio, ma è Dio che si fa uomo perché tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, potessero incontrare, conoscere e amare Dio. Conoscere il volto «fisico» di questo Dio è la fede. Conoscere Dio non è un processo diretto perché l’uomo Gesù è morto e noi oggi non possiamo raggiungerlo: andando a ritroso nel tempo, siamo obbligati a fermarci ai bordi di un sepolcro vuoto. Noi però possiamo conoscerlo in ogni tempo e spazio attraverso la mediazione apostolica, cioè la testimonianza di coloro che hanno mangiato, bevuto, camminato, dormito con lui (1Gv 1,1-5).

Il Vangelo (il NT in genere) è questa mediazione perché in esso troviamo le testimonianze credibili di coloro che ci garantiscono l’autenticità del nostro incontro con lui. Non possiamo credere come vogliamo, non esistono modi personali di credere, esiste al contrario un solo modo di credere: la fede apostolica. O la nostra fede è apostolica come quella della prima generazione dei cristiani o semplicemente non è. Coloro che dicono «credo in Dio, ma non nella Chiesa» oppure «credo, ma a modo mio», dicono solo stupidaggini frutto di ignoranza, nel senso etimologico del termine. In questo contesto termini come «tradizionalista» o «progressista» sono un non-senso perché possiamo essere solo «apostolici». Rigorosamente parlando, noi non possiamo nemmeno dire: «Io credo in Gesù Cristo» perché è una affermazione astratta. Noi possiamo solo dire correttamente: «Credo nel Gesù annunciato dagli apostoli». Questo è il compito dell’autorità nella Chiesa: affermare solennemente la fede degli apostoli e confermare i credenti nell’autenticità del loro percorso. Ciò esige che l’autorità sia «credente» e libera da altri interessi che non siano il Vangelo e la Chiesa, come progetto non definitivo, ma proiettato verso il Regno del compimento della Storia. Quando l’autorità ascolta solo se stessa e ha paura del domani, perde la sua autorevolezza e diventa come il tralcio secco, buono solo per essere buttato nel fuoco (cf Gv 15,6). L’autorità non nasce da sé, ma è generata dalla testimonianza e dalla sua credibilità. E’ autorevole chi parla con la propria vita, spesso senza parole morte.  Questo è il nostro impegno e la nostra apertura: il futuro è veramente dietro di noi e ci obbliga a vivere il nostro presente.

«Chi è Gesù?». Domenica scorsa Mc ci ha fatto scoprire che Gesù è il «ri»-creatore, l’uomo che assume in sé la caratteristiche di Yhwh: domina le acque e le paure, le opposizioni alla missione che per statuto deve andare «sempre oltre», sempre all’altra riva. Oggi con due racconti incatenati l’uno dentro l’altro ci accompagna a scoprire che Gesù domina la morte e imprigiona il male che tiene schiave le persone: due donne, due emarginate dalla cultura imperante del tempo.  Sullo sfondo del Vangelo fa da risonanza la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza che riflette sulla morte e la vita, attribuendo la prima ad un intervento esterno e non alla volontà di Dio che invece convoca l’uomo e la donna alla mensa della sua immortalità (Sap 2,23). Spesso noi siamo così presi dai nostri piccoli minuti che non ci accorgiamo di smarrire il senso di eterno che urla dentro di noi, restando affannati in una trappola di provvisorietà. Ci lasciamo accompagnare da Marco per scoprire questa dimensione di eternità, invocando lo Spirito Santo che ci liberi e purifichi da ogni marginalità, facendo nostre le parole del (Sal 47/46,2): «Popoli tutti, battete le mani!Acclamate Dio con grida di gioia».

Spirito Santo, tu sei la Sapienza che accompagna la creazione della vita,    Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu hai dato forma e vita all’uomo/donna immagine di Dio,    Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei il sigillo dell’immortalità nel nostro cuore di carne,           Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei il grido di quanti soffrono nella malattia,                   Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei la guarigione del cuore e balsamo dell’anima,         Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu trasformi il lutto in danza a lode del Padre,              Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu predisponi i figli di Dio alla condivisione di uguaglianza,   Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci inviti a spiritualizzare il denaro come segno di amore,   Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu insegni che c’è più gioia nel dare che nel ricevere,        Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu alimenti la nostra fede perché sappiamo riconoscere Gesù,       Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei la potenza di Dio con cui Gesù libera i figli di Dio,           Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu abiti la fede imperfetta di chi è schiacciato nel bisogno,    Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei la Vita che Gesù ha restituito alla figlioletta di Giàiro,   Veni, Sancte Spiritus!

«Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Questa è la fotografia del Dio di Gesù Cristo scattata intorno alla metà del sec. I a.C. ed è un imperativo di purificazione per l’idea che una certa forma di spiritualità pagana ci ha trasmesso di Dio. La sofferenza, il dolore e la malattia sono state spesse volte presentate come «volontà di Dio» anzi come strumenti di elezione o come rassegnazione impotente ad una volontà carnefice: «se Dio ha voluto così…». Il Dio della Scrittura ama i suoi figli e non vuole per loro né la sofferenza, né il dolore, né la morte. Quale padre per dimostrare il suo affetto al figlio, gli amputa  un braccio o gli inietta un virus per farlo ammalare? (cf Lc 11,11-13). Sofferenza, malattia e morte appartengono alla fragilità della condizione umana: esse sono estranee a Dio e alla sua logica che vuole la felicità per i suoi figli. Una certezza ci accompagna in questo cammino di fragilità: quando la vita ci visita con la malattia, la sofferenza e la morte che sono elementi ordinari dell’umana condizione, noi non siamo soli, perché Dio è «già» lì ad aspettarci per farsi nostro cireneo e compagno di viaggio. Con questi sentimenti affidiamoci alla tenerezza della Trinità Beata.

(ebraico)

Beshèm

ha’av

vehaBèn

veRuàch

haKodèsh.

Amen.

(italiano)

Nel Nome

del Padre

e del Figlio

e dello Spirito

Santo.

 

Chiediamo perdono per tutte le volte che abbiamo fatto di Dio un «mostro» di sevizia e di perversione, quasi che egli potesse alimentare la sua divinità con le disgrazie dei suoi figli. Lasciamoci rapire dalla misericordia di Dio che purificando il nostro cuore purifica anche la immagine che abbiamo di lui e ci introduce nel pozzo della sua tenerezza

[Esame di coscienza congruo]

Signore, tu sei Dio della vita e non della morte, abbi pietà di noi,          Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei la vita del Padre sparsa su tutta l’umanità, abbi pietà di noi,    Christe, elèison!

Signore, tu sei venuto a liberare le donne da ogni schiavitù, abbi pietà di noi,      Pnèuma, elèison!

Dio onnipotente che ha inviato Gesù a rendere giustizia ai poveri, a liberare le donne dalla loro sudditanza senza onore e senza dignità, che ama la vita e dona la sua per salvare i suoi figli, per i meriti dei Santi Apostoli, per i meriti dei santi Patriarchi e delle sante Matriarche d’Israele, per i meriti della santa Madre del Signore, per i meriti dei Santi e delle Sante che attraversano la storia, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente [breve pausa 1-2-3]

Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo,  Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi.  [breve pausa 1-2-3]

Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo:  [breve pausa 1-2-3]

Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.

Preghiamo (colletta). O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fà che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive con te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

MENSA DELLA PAROLA

Prima lettura Sap 1,13-15; 2,23-24. L’autore della «Sapienza-Sophìa» è un giudeo che vive intorno alla metà del sec. I a. C. ad Alessandria di Egitto dove risiedono circa 200.000 Ebrei che parlano solo greco e non conoscono l’ebraico. L’autore s’ispira alla filosofia platonico- stoica e definisce la «Sapienza» con gli stessi titoli con cui i Greci parlavano del «Lògos». Il libro si compone di tre parti che personalizzano «Donna/Signora Sapienza» come presente e attiva in tre contesti: nella vita dell’uomo (1,1-6,21), nella vita di Dio di cui «donna Sapienza» è espressione ed emanazione (6,22-9,18) e nella storia della salvezza (10-19). Il brano di oggi appartiene alla prima parte descrivendo il «senso» della morte che l’autore considera estranea al destino dell’umanità.

Dal libro della Sapienza  Sap 1,13-15; 2,23-24

13Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. 14Egli infatti ha creato tutte le cose perché  esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. 15La giustizia infatti è immortale.  2,23Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità; lo ha fatto immagine della propria natura. 24Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono. - Parola di Dio.

Salmo responsoriale 30/29,2.4; 5-6; 11-12a.13b. Salmo individuale di ringraziamento di una persona guarita dopo la malattia (vv.1-6). Il salmista racconta la sua esperienza (vv.7-9), esprimendo i sentimenti della sofferenza vissuta e della gratitudine a Dio che guarisce (vv.11-13). San Paolo direbbe: «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rom 14,8). Bella l’immagine del v. 12 di Dio che tramuta «il lamento in danza». Oggi non ringraziamo perché abbiamo superato un pericolo, ma perché abbiamo ricevuto la fede che celebriamo «nel giorno del Signore» all’altare dell’Agnello che è il Cristo Signore. Egli in ogni pericolo, malattia, angoscia non ci lascia mai soli, ma diventa il nostro «cireneo» e la nostra consolazione.

Rit. Ti esalterò Signore, perché mi hai risollevato

1. 2Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
4Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi

nella fossa. Rit.

2. 5Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
6perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia. Rit.

3. 11Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
12Hai mutato il mio lamento in danza,
13Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre. Rit.

Seconda lettura 2Cor 8,7.9.13-15. Le lettere ai Corinzi hanno avuto una storia redazionale travagliata. Probabilmente in origine il cap. 8 della 2Cor era la conclusione della 1Cor successivamente premesso ad un biglietto autonomo (2Cor 9) e a ciò che restava di una lettera precedente (cc. 10-13). Il tema è la «colletta» che Paolo organizza nelle chiese greche per venire incontro alla povertà della chiesa madre di Gerusalemme. Paolo annette molta importanza a questa raccolta di denaro e la pone sullo stesso piano della condivisione della fede, della parola, della scienza, dell’impegno, dell’agàpe. Il criterio della giustizia sociale è l’uguaglianza: non ricchi o poveri, ma uomini e donne liberi da ogni indigenza.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 2Cor 8,7.9.13-15

Fratelli e Sorelle, 7come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. 9Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 13Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15«Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno». - Parola di Dio.

Vangelo Mc 5,21-43 (lett. breve 5,21-24.35-43). Ci troviamo di fronte ad un racconto di risurrezione che al suo interno contiene un altro racconto autonomo di guarigione. Questo intreccio è molto antico e sembra che Mc riporti la tradizione più vicina ai fatti. Forse, l’accostamento è dovuto solo al fatto che le beneficiarie siano «donne» o anche all’espressione «dodici anni» che ha una duplice simbologia. Il n. 12  indica la totalità d’Israele e l’anno in cui le ragazze possono andare spose. Qui la sposa muore prima che possa sognare il matrimonio. In Mc l’atteggiamento dell’emorroissa è più «magico» che di fede (vv. 27-28: toccare il mantello) ed esprime la mentalità corrente di incomprensione nei confronti di Gesù, di cui bisogna approfittare finché è possibile. Lo stesso atteggiamento anche nell’episodio della fanciulla, ha la folla che deride Gesù (v. 40) perché non sa vedere oltre il proprio limite. I due racconti sono un anticipo, una profezia della nuova alleanza che si consuma attraverso la morte e la risurrezione. Giovanni Battista verrà ucciso di lì a poco (6,17-29) e all’orizzonte si profila la passione (cc. 14-15). Solo pochi, tre discepoli e i genitori della ragazza, sono messi a conoscenza del mistero della personalità di Gesù (vv. 37 e 40) che prima ancora di morire condivide la sua risurrezione come premessa delle nozze definitive:i genitori conducono la sposa allo sposo e i discepoli svolgono il ruolo di testimoni delle nozze.

Canto al Vangelo Cf 2Tm 1,10

Alleluia. Il salvatore nostro Gesù Cristo ha vinto la morte / e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

Dal Vangelo secondo Marco Mc 5,21-43 (lett. breve 5,21-24.35-43)

In quel tempo, 21essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.

[25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27 udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: 28«Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”. 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».]

35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto continua ad avere fede!». 37E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: «Talità Kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, àlzati!».. 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare. - Parola del Signore.

Spunti di omelia

       L’autore del libro della Sapienza è un giudeo formato in ambiente greco. Egli si pone il problema del destino del genere umano, ma riesce ad impostare questa ricerca razionale più facilmente con le categorie del pensiero greco che non con quelle della tradizione giudaica. D’altra parte egli vive ad Alessandria di Egitto, dove anche gli Ebrei non parlano più  l’ebraico, ma solo il greco e si sono dotati anche della Bibbia greca, meglio conosciuta come la «Bibbia della Lxx», in cui l’unica parola ebraica scritta è il «sacro tetragramma», il nome impronunciabile di «YHWH». Nel brano della liturgia di oggi, egli s’interroga sul senso della morte. L’autore deve essere abbastanza giovane perché sa esprimere un entusiasmo e una carica emotiva ricca di sentimenti: ama la vita e la valuta in tutta la sua estensione, dall’origine alla fine. Per lui la vita è incorruttibile perché è partecipazione del Creatore: tutta la creazione è vitale ed esiste per la vita perché la «giustizia è immortale – dikaiosýne gàr athànatós estin» (Sap 1,15). E’ interessante questo termine che deve essere recuperato anche da noi, superando lo sconforto di una giustizia umana o al servizio dei potenti o lenta fino al punto di uccidere l’anelito di verità dei poveri.  

Per il Sapiente biblico «giustizia» ha il significato di corrispondenza al disegno creatore. E’ la verifica dell’adeguamento della realtà al progetto ideato dal suo Autore. La vita è tale se corrisponde al dinamismo che le ha impresso Dio per cui non è mai una vita «vissuta», una vita che passa lentamente  nella noia e nella desolazione, ma una esistenza in cammino che si perfeziona sempre più, di superamento in superamento. Si potrebbe usare l’immagine della macchina fotografica che, per riprendere un immagine, un gesto, una scena, deve mettersi a fuoco, altrimenti l’immagine, anche se c’è, è inutilizzata.

La giustizia come la fede è mettere a fuoco la realizzazione che noi facciamo della nostra immagine misurata sul volto e il cuore di Dio, mediati da Gesù Cristo, che diventa così la misura, il prototipo, il modello. E’ lo stesso discorso di Giovanni quando parla di «Lògos» (Gv 1). San Paolo dedicherà la lettera ai Gàlati e quella ai Romani al tema della «giustizia/giustificazione – dikaiosýne» che è l’atto gratuito e libero con Dio ci restituisce al progetto originario dell’alleanza con Abramo. Nella Bibbia per dire che un uomo corrisponde  alla volontà di Dio si dice che un «uomo giusto» (cf Noè in Gen 6,9; Giovanni Battista in Mr 6,20; il vecchio Simeone in  Lc 2,25; lo stesso Gesù per il centurione che assiste alla sua morte in  Lc 23,47). Essere giusti significa non millantare  chi non si è e non apparire diversi da chi si è nell’intimo e nella verità della propria coscienza che è il pozzo dove di solito Dio cerca riposo.

D’altro canto, però, l’esperienza insegna che la morte esiste nel mondo e costruisce vuoti attorni a noi, che, essendo limitati e mortali, viviamo con angoscia e lacerazione. La morte c’è. Come elaborarla, senza esserne schiacciati?  L’autore ha una risposta biblica e anche originale per risolvere l’interrogativo della morte: la morte non è parte del progetto di Dio, ma è il risultato di una concomitanza di circostanze che l’hanno introdotta dall’esterno iniettandola in un contesto esclusivo di vita. La morte è la conseguenza del peccato dell’uomo: Adam non vuole più adeguare il suo progetto a quello del Creatore. Adam nel giardino di Eden si rifiuta di somigliare al Lògos che presiede la creazione (cd Gv 1,1; 17,5). Il paradigma di Adam ed Eva è stato banalizzato anche da un catechismo insulso e banale in una semplice disobbedienza ad un ordine  capriccioso di Dio, mettendo così in sordina la vera tragedia: essi rifiutano di essere l’immagine del Cristo-Lògos «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose» (Col 1,15-16). Vogliono essere loro «i primogeniti» e aspirano ad essere «come Dio» (Gen 3,5), al contrario del Lògos-Gesù che, invece, vive tutta al sua vita all’insegna della volontà del Padre suo e del suo progetto di alleanza eterna (cf Mt 26,42; Fil 2,8). L’uomo è immortale per natura, ma quando decide di essere immortale contro Dio, al di fuori del progetto personificato in Gesù-Lògos, diventa mortale e vittima della morte.

L’associazione peccato-morte è un concetto classico nel contesto biblico. Se vivesse oggi l’autore entrerebbe nel pieno della problematica sulla bioetica e direbbe qualcosa alla scienza che presume di dire l’ultima parola sull’esistenza umana. Eppure lascerebbe piena libertà alla scienza come estensione della «signoria» che Dio ha affidato all’uomo perché dominasse tutto il creato (cf Gen 1,28).  C’è una dimensione che supera l’aspetto biologico dell’esistenza perché esiste anche l’aspetto progettuale che in parte dipende dall’uomo individuo/gruppo e dall’altra dipenda anche da una volontà creatrice che sta all’origine e che è in dialogo d’amore con ciascuno. Non c’è concorrenza tra le due volontà, ma convergenza.

La vita non può ridursi alla sperimentazione che si vede perché sarebbe una vita da obitorio, ma lo diventa realmente quando la prospettiva esistenziale abbraccia l’orizzonte dell’aldiquà senza nemmeno la possibilità che possa confinare in un aldilà. La vita isolata nell’agiatezza, nella pienezza del benessere fisico, vissuto per altro per se stessi in forma esclusiva e ossessiva, è una vita prigioniera e senza slancio: una vita morta prima di morire. Tutto questo spiega perché il senso della vita in termini assoluti può venire solo chi sa sprigionare la vita, liberandola anche dalla tentazione della morte, conseguenza del peccato che è la presunzione dell’autosufficienza. Chi ci libera da questo fardello per essere credibile nel suo anelito di immortalità deve essere personalmente incorruttibile e non soggetto alla morte anche se questa è un accidente della vita, cioè un momento essenziale di essa. Quest’uomo non può essere che Dio stesso, il Creatore che scioglie la morte e libera la vita nella risurrezione del Figlio che è il progetto di vocazione definitiva dell’umanità. E’ l’uomo Gesù, il volto umano e visibile di Dio.

Meno di due secoli separano l’autore della sapienza da Gesù di Nàzaret, per cui è facile intuire come fosse questo l’ambiente vitale degli Ebrei del sec. I d. C. e della primitiva comunità cristiana. E’ questo, infatti, il contesto in cui si muove il Vangelo che propone due racconti di liberazione, di cui il secondo è incastonato dentro al primo. Il racconto della figliola di Giàiro e riportato da tutti e tre i Sinottici (Mr, 5, 21-43; Mt, 9, 18-26; Lc, 8, 40-56), segno che vi è una tradizione orale e scritta precedente unanime. Mt però ne fa un breve riassunto di otto versetti e Lc un racconto di sedici versetti. Dal canto suo, Mc che di solito è il più breve tra i Sinottici, qui riporta un duplice racconto di ben ventitré versetti. L’inserzione del racconto della donna malata all’interno di quello della fanciulla morente è con ogni probabilità molto antico: esso potrebbe già appartenere alla tradizione orale se Mc sente il bisogno di lasciarlo così come è, dimostrando in questo modo che la prima comunità vi attribuiva molta importanza. Forse il collegamento sta nella duplice menzione del numero dodici: 12 anni di malattia per la donna adulta e 12 anni di vita per la bambina morente (vv. 25 e 42).

Vi sono due donne, tutte e due ebree, ma una impura per flusso di sangue (Lv 15,19-24) e l’altra morente, sorgente di impurità secondo la Toràh (Nm 19,11.13). Tutte e due sono inabili al culto, impure e da evitare. Nel racconto di Mc esse sono simbolo d’Israele perché il numero dodici è il numero che racchiude la totalità delle differenze del popolo in tutte le sue componenti: le dodici tribù. Israele è malato e morente perché i medici non hanno saputo curarlo, ma hanno solo dato palliativi e proibizioni. Se da un lato il numero 12 indica la totalità d’Israele, ripetuto due volte indica che in Israele è inclusa anche la nuova prospettiva del mondo pagano che gli Ebrei consideravano come morti, perché esclusi dalla salvezza. Essi ora accedono alla Chiesa per mezzo dei «dodici» apostoli che aprono così Israele alla sua missione, quella del «Servo sofferente» che deve raduna i popoli dispersi (cf Is 42,1).

Nel caso dell’emorroissa, anche l’ambiente dei discepoli è «ostile» tanto che arrivano a rimproverare Gesù di non essere pratico: non si rende conto della situazione (v. 31). La donna vuole «toccare» il mantello di Gesù (Mr 5,27-28.30), forse con intento magico e Gesù si sente «toccato» perché ha coscienza di avere instaurato una relazione profonda che la ressa della folla non riesce a sopraffare. La Toràh (Lv 15,19-24) stabilisce che la donna affetta da flusso di sangue è impura e chiunque la tocca partecipa della sua impurità. A rigore di legge, Gesù diventa impuro e avrebbe dovuto andare al Tempio a purificarsi. Sia la donna che Gesù disattendono la Legge e diventano «impuri» pur di accedere alla libertà dalla malattia. La vita precede sempre il rito e questo è solo il segno della gratuità di quella. L’obbedienza deve essere discernimento e valutazione di priorità in base al principio, questo sì! «non negoziabile»: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

Davanti a Gesù che la cerca, la donna sta «impaurita e tremante», lo stesso atteggiamento che si ha davanti a Yhwh (cf Es 15,16; Sal 2,11; 55/54,6). Questo atteggiamento ella lo vive davanti a Gesù che le restituisce la dignità della vita. In segno di riconoscenza, la donna e si prostra davanti alla Maestà di Dio rivelata in Gesù (Mc 5,33; cf Es. 15,16; Dt 2,25; 11,2). Gesù da parte sua non solo non la rimprovera per avere trasgredito la Legge, ma disattende lui stesso la Legge e la libera definitivamente invitandola a ritornare a quella comunità dei credenti da cui era espulsa per il rigore della Legge stessa: «Va’ verso [la] pace» (traduzione letterale dal greco)[1] che potrebbe essere letto come «vai a [lla] pace» sinonimo di «torna a casa tua»: rientra nella tua casa pacificata che è la tua comunità. Tornare a casa significa riprendere possesso della propria vita e della propria quotidianità.

La dimensione comunitaria si comprende ancora di più nel racconto della fanciulla vittima di una malattia che la conduce alla morte. Qui il contesto giudaico è «ostile» fino all’inverosimile: i presenti «lo deridevano» (Mc 5,40) e Gesù non perde tempo con coloro che credono di sapere tutto su Dio: egli non ci pensa due volte: (letteralmente dal greco) «dopo averli sbattuti tutti fuori – ekbalôn pàntas» (Mc 5,40), si dedica alla ragazza che ha compiuto dodici anni e quindi è all’inizio del suo tredicesimo anno di vita che gli Ebrei celebrano con il rito della Bar/Bat-Mishvàh o Figlio/Figlia del comandamento. Fino al 12° anno le figlie devono ubbidire ai genitori, ma alla fine del compimento del 12°, cioè all’inizio del 13° anno sono responsabili delle loro azioni e delle loro scelte, rispondendo alla Toràh e alla comunità[2]. Per la tradizione ebraica a questa età avviene il passaggio alla maggiore età che per le ragazze significa anche la possibilità di sposarsi. C’è dunque in questo accenno all’età della ragazza, un tenue riferimento alla nuzialità d’Israele che sta morendo infeconda senza potere celebrare le nozze della nuova alleanza.

La folla che piange e fa chiasso rinuncia alla speranza perché è schiava della morte e «deride» la speranza stessa della vita. La folla piangente non è addolorata, ma il simbolo vivente di un fallimento generale che tutto degrada a spettacolo, a impotenza e a rassegnazione, ma Gesù con la risurrezione ristabilisce di nuovo il tempo della fecondità nuziale e rimanda tutti alle loro responsabilità. Gesù non opera in privato, ma davanti a testimoni come prescrive la Legge (Dt 17,6; 19,15; Mt 18,16; Mc 1,16-20; 2Cor 13,1; 1Tm 5,19), affinché il fatto abbia valore giuridico. Egli però non manda le due donne al Tempio per il riconoscimento ufficiale della guarigione (cf Lc 17,14), ma un a la manda a casa, cioè alla sua dignità e alle sue relazioni; l’altra, la bambina, l’affida alla vita, mentre suggerisce ai genitori di darle da mangiare, cioè di mettersi a servizio della sua crescita. Il comportamento e il modo di pensare di Gesù è totalmente e straordinariamente «laico». La donna che soffre di perdite di sangue ha una concezione magica della religione: considera Gesù un taumaturgo e pensa che solo il toccare le vesti la guarirà; Gesù senza fare prediche la libera anche dalla religione del bisogno e la rimanda alla libertà della fede: «la tua fede ti ha salvata» (Mr 5,34). La fede non è la religione.

Anche nel caso della bambina morente, Gesù disobbedisce  alla Legge e tocca la moribonda/morta perché il testo non dice espressamente che la ragazza era morta, ma che solo Gesù ha la certezza che la ragazza stia dormendo (Mr 5,39), mentre tutti i presenti hanno già iniziato il lamento funebre. La Legge proibiva il contatto con i morti, pena l’impurità di sette giorni e chi non si purifica contamina la dimora di Dio e deve essere espulso dalla comunità (Nm 19,11.13). Ancora una volta per Gesù come per la donna (Mc 5, 27), come per il lebbroso (Mc 1,40) la persona umana è un assoluto che viene prima della morale. L’unico criterio che guida Gesù è il bene delle due donne (cf Mc 3,4), che la Legge e la cultura escludeva dalla vita sociale autonoma, dalla preghiera al tempio, ma obbligava alla sottomissione dell’uomo. San Paolo può ben dire che ora nel tempo di Cristo «non c’è Giudeo o Greco; non c’ schiavo né libero; non c’è maschio o femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

Un altro elemento che ci richiama alla dimensione nuziale sono la presenza del padre e della madre e dei tre discepoli. All’inizio del racconto, quando Gesù ritorna dal territorio pagano e rientra in terra d’Israele, lungo il mare si presenta a lui «uno dei capi della sinagoga» (Mc 5,22). A conclusione del racconto egli diventa «il padre» che sta insieme alla «madre della fanciulla» (Mc 5,40). Di fronte alla vita che prende il posto della morte si ristabiliscono le relazioni «vitali» non quelle d’autorità. Padre, madre e figlia sono i testimoni viventi della relazione d’amore feconda che diventano immediatamente segni di profezia perché Gesù va via, ma essi restano per essere la parola viva e silente dell’azione di Dio che ha fatto irruzione nella loro vita, dominata dalla morte. Gesù è attento a queste sfumature che segnano la condizione umana nel suo risvolto più profondo. «Il padre e la madre» che avevano dato la vita destinata alla morte ora ricevono la vita dal Dio della vita, come Abramo ricevette Isacco per la seconda volta dalle mani di Dio (Gen 22,1-19). La scena della risurrezione della fanciulla ha un profondo significato nuziale perché contiene tutti gli elementi prescritti dalla tradizione giudaica:

-   I genitori che per legge devono consegnare la loro figlia allo sposo;

-   Gesù che in Mc 2,19 si era presentato come lo sposo atteso, lo «sposo alternativo»[3].

-   La sposa dodicenne, simbolo d’Israele, che Gesù chiama espressamente con il termine «koràsion» che è un diminutivo di «kòre» riservato alle ragazze non sposate (cf Mc 5,41.42; 6,22.28)

-   Infine i tre discepoli che fungono da amici dello sposo (cf Mc 2,19 e anche Is 5,1) e garanti della legittimità delle nozze[4].

Poiché tutto si svolge nella casa materna è immediato e diretto il richiamo a Ct 3,4 dove la sposa conduce lo sposo ritrovato «nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha generato». La guarigione non è solo un modesto e striminzito miracolo di risurrezione, ma un piccolo midràsh sull’alleanza nuziale che Gesù annuncia con le parole e le opere. Fermarsi all’aspetto miracolistico è impoverire il testo che invece si presenta a noi come una vera catechesi sull’iniziazione della fede: per incontrare Gesù bisogna avere la mentalità della relazione vitale e feconda che genera alla vita e che trova nel rapporto uomo-donna-figlia l’espressione più alta e più dinamica dell’immagine di Dio. Questo è il tempo dei figli perché è iniziato il tempo delle nozze.

Il tempo di Gesù è il tempo della nuove nozze a cui si accede tramite la risurrezione. Rivolgendosi alla sposa che «non è morta, ma sta dormendo» (Mc 5,39) Gesù le dice in aramaico: «Talità kum – Ragazza, svegliati/risorgi»[5] e la ragazza obbedisce: l’evangelista, infatti, usa il verbo aramaico «kum» a cui Mc associa il verbo greco «anìstemi-io risorgo/mi sollevo» con cui indica la risurrezione di Gesù stesso (cf Mc 9,31 e 10,34). Il profeta Ezechiele aveva predetto che quando Dio avrebbe riaperto i sepolcri con la chiave della vita[6], avrebbe ridato di nuovo il suo spirito vitale (Ez 37,12-14), ora con Gesù-sposo, l’Israele, che era morto, cammina e indossa la veste nuziale (Mc 5,42-43). La speranza è restaurata, il futuro spalanca le braccia e noi possiamo accedere al banchetto dell’Eucaristia che è il sacramento della risurrezione, dell’alleanza nuziale e della priorità della coscienza.

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra,  di tutte le cose visibili e invisibili.

[Pausa: 1-2-3]

Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. [Pausa: 1-2-3]

Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. [Pausa: 1-2-3]

Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

Preghiera universale [intenzioni libere]

MENSA EUCARISTICA

Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna  a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24),

Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.

Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.

[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite  e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.              Benedetto nei secoli il Signore.

Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.

Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.

Preghiamo (sulle offerte). O Dio, che per mezzo dei segni sacramentali compi l’opera della redenzione, fa’ che il nostro servizio sacerdotale sia degno del sacrificio che celebriamo. Per Cristo nostro Signore. Amen.

PREGHIERA EUCARISTICA V/c

«Gesù modello di Amore»

Il Signore sia con voi.        E con il tuo spirito.   In alto i nostri cuori.   Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.     E’ cosa buona e giusta.

E veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore.

Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell'universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Kyrie, elèison!

In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi.  Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli.

Tu, o Dio, non hai creato la morte e non godi per la rovina dei viventi. Tu hai creato tutto per l’esistenza con l’amore del tuo Spirito (cf Sap 1,13-14a).

Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli. Per questi segni della tua benevolenza noi ti lodiamo e ti benediciamo,  e uniti agli angeli e ai santi cantiamo l’inno della tua gloria:

Osanna nell'alto dei cieli. Benedetto nel nome del Signore colui che viene. Christe, elèison! Kyrie, elèison!

Ti glorifichiamo, Padre santo: tu ci sostieni sempre nel nostro cammino soprattutto in quest’ora in cui il Cristo, tuo Figlio, ci raduna per la santa cena. Egli, come ai discepoli di Emmaus, ci svela il senso delle Scritture e spezza il pane per noi.

Ci hai creati per l’immortalità e ci hai fatto a immagine e somiglianza del tuo Cristo, il Lògos (cf Sap 2, 23).

Ti preghiamo, Padre onnipotente, manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue.

Conosciamo la grazia del Signore nostro Gesù Cristo che da ricco si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della suo Spirito (cf 2Cor 8,9).

La vigilia della sua passione, mentre cenava con loro, prende il pane, e tenendolo alquanto sollevato sull’altare, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:  QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.

Non abbiamo bisogno di toccare il tuo mantello per essere guariti; ci basta la santa Eucaristia e che tu dica una parola e noi saremo guariti (Mc 5, 28).

Allo stesso modo, prese il calice del vino e rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI:  QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.

Ogni volta che partecipiamo alla santa Assemblea, avvertiamo la potenza dello Spirito del Signore risorto che tu, o Padre, mandi a noi con le parole di salvezza: Figlioli, la vostra fede vi ha salvati» (cf Mc 5,30.34).

Fate questo in memoria di me.

Cantiamo inni a te, Signore, e della tua santità celebriamo il ricordo (cf Sal 30/29,5).

Mistero della fede.

Tu ci hai redenti con la tua croce e la tua passione, salvaci, o redentore del mondo!

Celebrando il memoriale della nostra riconciliazione annunziamo, o Padre, l’opera del tuo amore. Con la passione e la croce hai fatto entrare nella gloria della risurrezione il Cristo, tuo Figlio, e lo hai chiamato alla tua destra, re immortale dei secoli e Signore dell’universo.

La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e noi ne facciamo esperienza perché essa è parte necessaria della nostra vita; ma tu ci liberi dall’angoscia perché noi siamo tuoi figli,  (Sap 2,24).

Guarda, Padre santo, questa offerta: e Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso di te. Dio, Padre di misericordia, donaci lo Spirito dell’amore, lo Spirito del tuo Figlio.

Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.

Fortifica il tuo popolo con il pane della vita e il calice della salvezza;  rendici perfetti nella fede e nell’amore in comunione con il nostro papa …, il vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare … e insieme a loro le persone che lottano per la sopravvivenza, per la dignità, per il lavoro e per un mondo giusto.

Il Signore rivolga su di loro il suo volto e conceda loro pace (Nm 6,26).

Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli;  infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi: fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti.

«Beati i poveri in spirito,  perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,3-5).

La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,6-7).

Ricordati anche dei nostri fratelli che sono morti nella pace del tuo Cristo, e di tutti i defunti dei quali tu solo hai conosciuto la fede:… N.N. … ammettili a godere la luce del tuo volto e la pienezza di vita nella risurrezione; concedi anche a noi, al termine di questo pellegrinaggio, di giungere alla dimora eterna, dove tu ci attendi.

Con gli occhi del cuore rivolti a te, o Padre, Gesù disse: «La Bambina non è morta, ma dorme». Le prese la mano e le disse: «Talità kum» che significa «Fanciulla, risorgi» (cf Mc 5,41).

In comunione con la beata Vergine Maria, con gli Apostoli e i martiri, e tutti i santi innalziamo a te la nostra lode nel Cristo, tuo Figlio e nostro Signore.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,8-9)

PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO,  A TE, DIO PADRE ONNIPOTENTE, NELL’UNITÀ DELLO SPIRITO SANTO, OGNI ONORE E GLORIA PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI. AMEN.

Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]

Per Cristo, con Cristo e in Cristo,  a te, Dio, Padre onnipotente,  nell'unita dello Spirito Santo,  ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

 

Padre nostro che sei nei cieli


Avunà di bishmaià

sia santificato il tuo nome

itkaddàsh shemàch

venga il tuo regno

tettè malkuttàch

sia fatta la tua volontà

tit?abed re?utach

come in cielo così in terra.

kedì bishmaià ken bear?a.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh

e rimetti a noi i  nostri debiti

ushevùk làna chobaienà

come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori

kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà

e non abbandonarci alla tentazione

veal ta?alìna lenisiòn

ma liberaci dal male.

ellà pezèna min beishià.  Amen!

Antifona alla comunione

«Io ti dico, àlzati!».  disse il Signore. E subito la fanciulla si alzò e camminava.

Dopo comunione

Da Kalil Gibran, Il Profeta, Edizioni Quanda, Milano 2004

Dissero: Parlaci della morte. E lui disse:
Voi vorreste conoscere il segreto della morte.
ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita ?
Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce.
Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita.
poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare.

Nella profondità dei vostri desideri e speranze, sta la vostra muta conoscenza di ciò che è oltre la vita;
E come i semi sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la primavera.
confidate nei sogni, poiché in essi si cela la porta dell'eternità.
La vostra paura della morte non è che il tremito del pastore

davanti al re che posa la mano su di lui in segno di onore.
In questo suo fremere, il pastore non è forse pieno di gioia poiché porterà l'impronta regale ?
E tuttavia non è forse maggiormente assillato dal suo tremito ?

Che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole ?
E che cos’è emettere l’estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire,

così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio ?

Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente.

Eugenio Montale, Satura, Xenia II, 5: «Ho sceso», scritta in morte della moglie Drusilla Tanzi

[da Montale. Tutte le poesie, ed. Giorgio Zampa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990, 309].

Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale

E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora. Né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattrocchi si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

Preghiamo. La divina Eucaristia che abbiamo offerto e ricevuto, Signore, sia per noi principio di vita nuova, perché, uniti a te nell’amore, portiamo frutti che rimangano per sempre. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Il Signore è con voi.  

Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci.

Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.

Il Signore sia sempre accanto a noi per consolarci e confortarci.       

Vi benedica l’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ora e sempre.    Amen!

La messa finisce come rito, continua nella testimonianza. Andiamo incontro al Signore che viene.

Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.

_________________________

© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica

Domenica 13a del Tempo Ordinario-B – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete Genova

Paolo Farinella, prete – 01-07-2012 –  San Torpete – Genova

Note

[1] Il testo greco dice hýpaghe eis eirênevai verso la pace che fa da parallelo con l’invito all’indemoniato guarito di Mc 5,19 che Gesù rimanda a casa sua  e di Mc 2,19 dove invita a tornare alla vita il paralitico guarito. In ambedue i casi l’espressione è:  hýpaghe eis ton òikón sou va’/torna a casa tua. E’ necessario mantenere la dinamicità di movimento del testo: «eis-a/verso» indica tensione, direzione e non una situazione statica, quasi a dare l’idea di un compito permanente.

[2] Ancora oggi in Israele, al compimento del 12° anno di età, il ragazzo o la ragazza vengono solennemente accompagnati al Muro occidentale del Tempio (vulgo: Muro del pianto), dove di fronte ai rotoli (meghillòt) della Toràh, il padre presenta a Dio il figlio/a con queste parole: «Ti ringrazio, o Dio, perché oggi mi togli la responsabilità di educare questo tuo figlio»: con la maggiore età, l’Ebreo è responsabile di se stesso davanti a Dio e al suo popolo.

[3] Cf J. D. M. Derrett, «Mark’s Technique: the Haemorrhaging Woman and Jairu’s Daughter», in Bib 63 (1982) 474-505, qui 485.

[4] In Mc 4,40 sono indicati come «quelli che erano con lui», ma noi conosciamo i loro nomi già da Mc 5,36. Essi sono: «Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo», il gruppo peculiare chiamato come testimone delle svolte significative della vita di Gesù: in Mc 9,2 sono i testimoni della trasfigurazione e in Mc 14,33 sono i testimoni sonnolenti della passione. Qui svolgono il ruolo degli «padrini delle nozze», quali garanti del contratto matrimoniale.

[5] Rivolgendosi ad una ragazza avrebbe dovuto usare la 2a persona singolare femminile e cioè «kùmi» e non il maschile «kum». La spiegazione è duplice: l’espressione potrebbe essere stata usata come una formula rituale di esorcismo per cui con l’uso si omise la desinenza femminile per mantenere solo quella generale; oppure l’espressione aramaica conservata in ambiente greco si è tramandata «a senso».

[6]Per il midràsh delle quattro chiavi cf domenica 12a per annum-B, Omelia.



Giovedμ 28 Giugno,2012 Ore: 12:23
 
 
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