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www.ildialogo.org Domenica 11a per annum – B – 17 giugno 2012 –,di Paolo Farinella, prete

Domenica 11a per annum – B – 17 giugno 2012 –

di Paolo Farinella, prete

Con la domenica 11a del tempo ordinario dell’anno B, riprendiamo la lettura continua del vangelo di Mc che avevamo interrotto con la Quaresima. Da oggi fino all’Avvento, tranne pochissime eccezioni, ogni domenica seguiremo il lezionario che ci ha regalato Paolo VI come attuazione del concilio Vaticano II che ha imbandito la mensa della Parola, distribuendola in tre anni (A-B-C) in modo che chiunque partecipi all’Eucaristia domenicale, possa leggere e ascoltare quasi tutta la Bibbia. Questo dono del concilio non sia banalizzato perché nella Chiesa c’è il tentativo avanzato di togliere questa abbondanza, ritornando al Messale precedente che è poverissimo di Parola di Dio, ma carico di rubriche senza vita.

La 1a lettura è un brano del profeta Ezechiele, un sacerdote di Gerusalemme, deportato in esilio a Babilonia insieme al re Ioachin dopo la disfatta del regno di Giuda ad opera di Nabucodònosor nel sec. VI a.C. Il profeta, uomo dalla fervente ed esuberante fantasia, si dedica a consolare il suo popolo oppresso e depresso, attento a quanto sta accadendo sullo scacchiere delle grandi potenze. Si profila all’orizzonte un nuovo impero, la Persia di Ciro (555-530 a.C.) che minaccia la stabilità di Babilonia che sconfiggerà una quarantina d’anni dopo, aprendo così uno spiraglio di speranza per i popoli esiliati. Il profeta s’inserisce in queste coordinate storiche per preannunciare un possibile ritorno e per mantenere alto il morale del popolo ebreo, parla per immagini, non fidandosi dell’ambiente che lo circonda.

Babilonia è equiparata ad un aquila che «venne sul Libano e strappò la cima del cedro» (Ez 17,3), cioè la tribù di Giuda1. Ora nella nuova condizione storica, un’altra aquila si profila all’orizzonte e Israele può ben sperare di mettere fine al suo esilio in terra straniera. Il nuovo re, Ciro, che il profeta Isaia non esita per lo stesso motivo a definire «il Cristo» del Signore (cf Is 45,1) nel 538 con un editto concederà la libertà ai popoli sottomessi da Babilonia, compreso Israele che viene autorizzato a ricostruire Gerusalemme e il suo tempio. Il popolo oppresso nell’oracolo del profeta diventa un «ramoscello» che il Signore prenderà «cima del cedro» (Ez 17,22) per piantarlo nuovamente nella terra promessa, rinnovando così una immagine antica che richiama il primo esodo: «una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata (Sal 80/79,9) e ripreso dal profeta Isaia come garanzia per il casato di Davide: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1).

Il tema dell’albero è ricorrente nella Bibbia, da quello della vita nel giardino di Eden (cf Gen 2,9) che non è più un albero mitico, ma il «segno» dell’obbedienza alla parola del Signore (cf Gen 3,22) a quello dell’Apocalisse che porta frutto di eternità (cf Ap 2,7; 22,1-2.14.19). Sullo sfondo di questo sviluppo si svilupperà la riflessione del sapiente che privilegia la prospettiva morale come appello alla coscienza e quindi usando l’immagine dell’albero in chiave desacralizzata (cf Pr 3,18; 11,30; 13,12; 15,4). Il tema dell’albero cambia prospettiva con i profeti che la usano in chiave storica: l’albero è Israele che porta i frutti dell’alleanza (Is 5,1-7; Ger 2,21; Ez 15; 17,22; 19,10-14; Sal 80/79,9-20). L’esilio in Assiria o in Babilonia è espresso con l’immagine della recisione dell’albero che non porta frutto e viene gettato via (cf Gv 15,2.4.6), ma Dio non può venire meno alla sua fedeltà e allora interviene ancora e ripianta Israele nuovamente nella terra dei Padri (cf Ez 17,20-24).

Accanto a questa corrente profetica si sviluppa anche un secondo pensiero profetico che paragona il Re e di conseguenza anche il Messia ad un albero (cf Gdc 9,7-21; Dn 4,7-9; Ez 31,8-9); questo pensiero è comune in oriente perché espone l’idea della salvezza dei molti che trae origine dalla vita di uno solo: è la sostituzione vicaria per cui il re è la personificazione di tutto il suo popolo e ciò che vive lui, appartiene anche al popolo di diritto. I due destini sono connessi vitalmente. La riflessione d’Israele però non si ferma per cui anche il giusto, cioè colui che vive di e in Dio, è equiparato ad un albero rigoglioso e fruttifero: «È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo» (Sal 1,3; 92/93,13-14; Ct 2,1-3; Sir 24,12-22) perché è un albero che nell’econmia escatologica, Dio stesso irrigherà e renderà fecondo come mai (cf Ez 47,1-12).

Anche Gesù si riferisce all’immagine dell’albero, prendendo atto che Israele non ha dato frutti (cf Mt 3,8-10; 21,18-19), per cui propone se stesso come l’albero della vita che dà frutto (cf Gv 15,1-6) pronto a ricevere gli innesti di chiunque voglia a sua volta essere fruttifero come lui. E’ lui, il Cristo, l’albero definitivo della vita che l’Apocalisse trapianta nella Gerusalemme celeste che sperimenta una nuova riedizione del giardino di Eden popolato da alberi che danno frutti di eternità (cf Ap 2,7; 22,1-2.14.19). In questa corrente s’innesta anche San Paolo quando parla di «frutto dello Spirito» (Gal 5,22) che sono le opere della vita nuova come pegno e garanzia per la nuova umanità.

La 2a lettura è tratta dalla seconda lettera di Paolo ai Corinzi nella parte iniziale in cui l’apostolo celebra la riconciliazione dopo la crisi vissuta con la comunità di Corinto che è sempre stata conflittuale con il suo fondatore. Il brano riportato dalla liturgia odierna si può capire solo si legge anche il primo versetto del capitolo: «Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2Co 5,1), da cui rileviamo che il pensiero di Paolo espone la teologia diffusa nel NT della spiritualizzazione del tempio. I Giudei che riconoscevano Gesù come Messia e ne diventavano discepoli facevano fatica a ritrovarsi nel tempio e in sinagoga per cui ben presto lo sostituirono spiritualizzandolo nell’umanità dello stesso Gesù, che così diventava il «Luogo»2 dell’incontro con Dio (cf 2Co 5,1; Mt 14,58; Gv 2,19).3

Non è più necessario «salire a Gerusalemme» per andare nel tempio del Signore, nel tempo della nuova alleanza, Dio è nel cuore stesso dell’umanità, perché in essa il Figlio ha posto la sua tenda «non fatta da mani d’uomo» (2Co 5,1). Non è però un dato scontato una volta per tutte: ogni credente vive ancora lontano dall’intima unione con il Cristo di Dio, per cui in qualche modo sperimenta l’esilio come i suoi progenitori, il popolo d’Israele visse a Babilonia e in Assiria (cf 2Co 5,6). Questo esilio però è meno tragico e drammatico di quello degli Ebrei, perché, partecipando alla resurrezione del Signore e avendo ricevuto lo Spirito suo, ogni battezzato nel suo Nome è «la tenda» dell’alleanza ( cf 2Co 5,4; 1Co 3,16) nella quale si celebra il Patto quotidiano dell’intimità nella parola e nella testimonianza.

Spiritualizzando il tempio e trasferendo le sue caratteristiche sulla persona di Cristo, Paolo offre anche la chiave per superare il passaggio più doloroso della vita che è la morte perché innesca il desiderio di andare incontro al Signore, non più come «salita a Gerusalemme», ma come aspirazione di vedere e godere il volto di Dio che abbiamo già sperimentato nel volto umano di Gesù. Se Mosè ha desiderato ardentemente «vedere» il volto di Dio e non ha potuto essere esaudito pienamente se non di riflesso, (cf Es 23,15; 34,23-24; Dt 16,16), ora nel tempo messianico della Chiesa, squarciato il velo del tempio (Mc 15,38; Lc 23,45; Mt 27,51), Dio è accessibile in tutto il suo splendore insieme a tutti i popoli della terra che convergono verso il monte del Signore (cf Is 2,2-5) per abitare sempre con lui (cf 2Co 5,6-9)4.

L’altare è per noi il tempio della rivelazione e della visione perché sperimentiamo il Pane e il Vino, i segni poveri della impotenza di Dio che si lega a noi, adeguandosi alla nostra misura. Non abbiamo più bisogno di scalare il cielo, ora basta sedersi a mensa perché è Dio stesso che viene ad imbandire il banchetto (cf Is 25,6) attorno al quale mangiamo il pane e il vino preparati da «donna Sapienza» per i suoi figli di tutti i tempi: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,5).

Il Vangelo riporta due parabole tratte dal capitolo 4 che riporta tre parabole e molte sentenze, non ben armonizzate tra loro, per cui concludiamo che è un capitolo «sommario», una raccolta di materiale diverso. Dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, dopo la chiamata dei primi discepoli come testimoni qualificati del suo ministero itinerante, dopo molte guarigioni e i primi scontri con i farisei, rappresentanti della religione ufficiale e la sua famiglia di sangue, nel capitolo 4 Mc raccoglie tre parabole, di cui quella del seminatore spiegata ai discepoli (cf Mc 4,1-20) e alcuni insegnamenti sotto forma di due parabole-sentenze: la lampada sul candeliere (cf Mc 4,21-23) e il metro di compensazione per cui si sarà misurati allo stesso modo con cui ciascuno misura gli altri (cf Mc 4,24-25). Seguono due parabole più sviluppate (vangelo) e il racconto della tempesta sedata (cf Mc 4,35-41).

Le due parabole odierne (il seme che nasce da solo e l’albero di senape che si fa riparo degli uccelli del cielo) possiamo definirle come parabole di contrasto. I primi cristiani si domandano come mai Gesù abbia fallito la sua missione dal momento che pochi lo hanno riconosciuto come Messia, ma principalmente per la fine ingloriosa che fatto: crocifisso come un malfattore, domandandosi se c’era un senso in tutto questo. A queste dubbi e a questi interrogativi, risponde l’evangelista, invitando ad andare oltre le apparenze perché agli occhi di Dio dalla sua prospettiva, ciò che sembra fallimento può essere un metodo e ciò che appare senza senso, può avere una dinamica nascosta che deve essere scoperta e vissuta. Troviamo qui la teologia paolina del capovolgimento che attua la logica delle beatitudini e fa vedere la storia alla luce di un’altra angolatura: «27quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 28quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Co 1,27-28). Questa è logica della croce e del Dio che ha inchiodato su di essa la propria onnipotenza per indicarci la via, la sola che conduce alla risurrezione: nessun fallimento può avere il sopravvento su di noi, se impariamo il metodo di Dio che non esita a svuotare se stesso (cf Fil 2,7) e permettere a noi di accedere alla sua parola, al suo Pane, e al suo Vino. Entriamo nella casa della sapienza che è Cristo e impariamo da lui che «mite ed umile di cuore» (cf Mt 11,29), la «speranza di Israele» (Ger 14,8; 17,13; At 28,20). Varchiamo la soglia del tempio dell’Eucaristia con le parole del salmista (Sal 27/26,6.9): «Ascolta, Signore, la mia voce. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza».

Spirito Santo, tu sei la cima del cedro piantata nel cuore di ogni persona, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu pianti in noi il germoglio della Parola nel cuore d’Israele, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu coltivi l’albero della fede con i frutti della testimonianza, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei il cedro rigoglioso che dà sostegno e riposo ai poveri, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la dimora eterna di Dio non costruita da mani d’uomo, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la speranza e desiderio di quanti sono ancora in esilio, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu alimenti la fiducia di chi vive la fede con fatica e sofferenza, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu ci accompagni nel cammino verso il tribunale di Cristo, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei la ricompensa per le nostre opere di bene e di amore, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei l’amore e la fedeltà di Dio che annunciamo ogni giorno, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu fai fiorire il giusto come palma, come cedro del Libano, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei l’atrio di Dio dove raduni i santi e i giusti di ogni tempo, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu vegli sul seme del Regno che germoglia di giorno e di notte, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei il frutto maturo per la mietitura della fede della Chiesa, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei il granello di senape che diventa albero ospitale, Veni, Sancte Spiritus.

Spirito Santo, tu sei l’ombra di Dio che prende possesso di ogni figlio di Dio, Veni, Sancte Spiritus.

Ognuno di noi può essere paragonato ad un albero perché abbiamo le radici della nostra storia, il tronco della nostra personalità, i rami e le foglie dei nostri sentimenti e i frutti delle nostre azioni. Un albero non vive per se stesso, ma solo in funzione di chi se ne serve, prendendo i frutti o sfruttando l’ombra. Mai un albero si è chiuso in se stesso e ha detto: io vivo per me stesso. Neppure noi possiamo vivere ripiegati su di noi. Chi lo facesse, sarebbe un derelitto perché avrebbe come misura la grettezza, l’avarizia e l’egoismo che sono i frutti dell’isolamento spirituale e dell’accidia sociale. L’albero al contrario estende i suoi rami in alto e in orizzontale, è espansivo per natura e per vocazione, come la croce che è l’albero nuovo della vita che spalanca i rami sull’umanità e s’innalza verso Dio, offrendo a tutti il frutto maturo di Cristo morto e risorto che annuncia a noi la verità su Dio, comunione di persone, Trinità di relazione. Entriamo dunque in questa grande avventura eucaristica,

(ebraico)

Beshèm

ha’av

vehaBèn

veRuàch

haKodèsh.

Amen.

(italiano)

Nel Nome

del Padre

e del Figlio

e dello Spirito

Santo.

Siamo stati trapiantati nel cuore di Dio e anche quando ci sentiamo in esilio e abbandonati, smarriti e paurosi, Dio in silenzio preserva il germoglio che custodisce dentro di noi, in attesa del tempo della crescita perché diventi un albero rigoglioso, sorgente di ombra accogliente e generoso di frutti ristoratori. Ai piedi del monte di Dio, che è l’altare dell’Eucaristia piantiamo l’albero della Parola che genera per noi il frutto del Pane e del Vino, gli alimenti della nostra libertà e del nostro bisogno di comunione. Sostiamo all’ombra dello Spirito e impariamo cosa vuol dire «essere liberi» alla luce del vangelo che ci libera da ogni superfluo per renderci idonei all’essenziale. Visitiamo senza paura la casa del nostro cuore e lasciamoci incontrare dal Dio di Gesù Cristo che ci pervade con il suo Spirito perché possiamo sempre più essere noi stessi, liberi da noi e liberanti per gli altri.

[Breve esame di coscienza: la pausa sia vera non simbolica]

Signore, veniamo nel tuo tempio perché tu purifichi il nostro cuore che anela a te, Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei il germoglio che il Padre ha piantato perché portassimo frutti di vita, Christe, elèison!

Signore, tu ci doni lo Spirito, la linfa che alimenta l’albero della nostra fede, Pnèuma, elèison!

Cristo, tu ci convochi all’ombra dell’albero della vita che è la croce di risurrezione, Christe, elèison!

Dio onnipotente che consola il suo popolo in esilio, custodendo il germoglio da trapiantare nella terra della vita perché porti testimonianza e frutti di condivisione; che si prende cura dei giusti per farli germogliare come palme e cedri del Libano; per i meriti di tutti i giusti d’Israele e della Chiesa santa e peccatrice, per i meriti del Signore Gesù, l’albero della vita che porta il frutto eterno della risurrezione attraverso lo Spirito di consolazione, abbia pietà di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente [breve pausa 1-2-3].

Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3].

Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]

Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.

Preghiamo (colletta). O Padre, che a piene mani semini nel nostro cuore il germe della verità e della grazia, fa’ che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica, ben sapendo che c’è più amore e giustizia ogni volta che la tua parola fruttifica nella nostra vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen. 

MENSA DELLA PAROLA

Prima lettura Ez 17,22-24. Nel 597 Nabucodònosor aveva deportato il re Ioachin, re per cento giorni, ponendo fine per sempre al Regno di Giuda. Al suo posto lasciò lo zio Sedecia (587-586) come re vicario del potente re babilonese. Su questa situazione riflette il profeta Ezechiele, anch’egli deportato a Babilonia. Egli usa immagini poetiche per non farsi capire dai Babilonesi: l’aquila di Nabucodònosor ha decapitato la cima dell’albero, cioè il re Ioakin sostituito con un germoglio che è Sedecia (cf Ez 17,1-21). All’improvviso nel cielo spunta una seconda aquila che è l’Assiria che circa una trentina di anni dopo sconfiggerà Babilonia sottomettendola. Una speranza si apre per il profeta che aggiunge il brano riportato oggi dalla liturgia (cf Ez 17,22-24) come oracolo di salvezza: il ramoscello di cedro apre allì’idea del Messia come discendente di Davide che porterà ancora la salvezza alla tribù di Giuda (cf Is 11,1; Ger 23,5-6). Anche nella disperazione più nera, Dio offre sempre uno spiraglio di luce e una prospettiva di vita. Si sviluppa sempre più il tema del «Resto» d’Israele che percorre tutta la storia d’Israele (Is 10,21.22;28,5; 37,32;Ger 40,11; Mic 4,7; Sof 2,9; Zac 8,6: 9,7; Sir 44,17; 47,22; 1Macc 3,35; Rm 9,2). Nell’Eucaristia è davanti a noi il Resto del Resto nel segno povero del pane che diventa il germoglio del Regno come speranza dell’umanità.

Dal libro del profeta Ezechiele Ez 17,22-24

22Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; 23lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. 24Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».- Parola di Dio.

Salmo responsoriale 92/91, 2-3;13-16. Salmo didattico, espone la dottrina tradizionale d’Israele: felicità per i giusti e disgrazie per gli ingiusti (cf Sal 37/36; 49/48; ecc.). Il salmo è cantato dai Leviti per il servizio in giorno di Shabàt nel tempio, eppure il santo giorno del Signore – il Sabato – non è mai citato. Il motivo è semplice: il salmo canta non lo Shabàt della settimana, ma quello del mondo futuro, quando tutto il tempo sarà un solo Shabàt che celebrerà la perfezione di tutta la creazione. Nel fare nostro questo salmo che anche Gesù ha pregato, noi ci ricordiamo che ogni giorno, specialmente quelli feriali sono giorni di Dio in cui con la forza dello Spirito fioriamo «come palma piantata nella casa del Signore» che è il cuore del mondo che «Dio ha tanto amato da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16).

Rit. Fa’ crescere in noi, Signore, il seme della tua parola

1. 2È bello rendere grazie al Signore

e cantare al tuo nome, o Altissimo,

3annunciare al mattino il tuo amore,

la tua fedeltà lungo la notte. Rit.

14 piantati nella casa del Signore,

fioriranno negli atri del nostro Dio. Rit.

3. 15 Nella vecchiaia daranno ancora frutti,

saranno verdi e rigogliosi,

2. 13Il giusto fiorirà come palma,

crescerà come cedro del Libano;

16 per annunciare quanto è retto il Signore,

mia roccia: in lui non c’è malvagità.

Seconda lettura 2Cor 5,6-10. Nell’anno 55/56, una grave crisi della comunità costrinse l’apostolo a ritornare a Corinto, interrompendo il suo viaggio apostolico (2Cor 1,23-2,1). Egli promise che sarebbe ritornato presto con più calma (2Cor 1,15-17), ma poi per «non fare da padrone» (2Cor 1,24) decise di non andare, attirandosi l’accusa di non essere uomo di parola, ma tra il «sì e il no» (2Cor 1,17-18). Il brano odierno, che appartiene alla prima parte della lettera in cui l’apostolo descrive la «celebrazione della riconciliazione» (cc. 1-9), non può essere capito senza ricordare il primo versetto del capitolo: «Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un'abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2Cor 5,1). Egli espone la dottrina della spiritualizzazione del tempio di Gerusalemme che si compie nell’umanità di Gesù Cristo e, di conseguenza, in ogni cristiano che nella propria carne rinnova e ripete l’esperienza del Figlio unigenito (cf v. 1 e Mc 14,48) su cui si sente l’influsso del discorso di Stefano, al cui martirio Paolo ha assistito, approvando la sua lapidazione ( cf At 8,1; anno 36 ca.). I Giudei divenuti cristiani sono scacciati dalla sinagoga per cui trasferiscono tutte le prerogative del tempio di Gerusalemme sull’umanità del Signore Gesù (cf 2,19) che diventa il vero e l’unico «luogo» di mediazione con Dio Padre.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 5,6-10

Sorelle e Fratelli, 6sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo - 7camminiamo infatti nella fede e non nella visione -, 8siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. 9Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. 10Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.- Parola di Dio.

Vangelo Mc 4,26-34. Non si può dire che la predicazione di Gesù abbia avuto successo. Da un punto di vista del risultato e della logica del mondo, al contrario, è stata un fallimento, con pochi seguaci. Egli stesso è stato condannato a morte come un malfattore. Come porsi di fronte a questi «fatti»? Come spiegarli alla luce della «logica» di Dio? Mc ci prova con tre parabole: con quella del seminatore che getta la semente in diversi tipi di terreno, rischiando (cf Mc 4,3-8), con la parabola del contadino paziente (cf Mc 4,26-29) e quella del granellino di senapa (cf Mc 4,30-32). Mt di suo aggiunge anche la parabola del lievito che fermenta la pasta (cf Mt 13,33). Tutte queste parabole hanno come obiettivo la giustificazione di Gesù di fronte all’insuccesso. E’ possibile anche che queste parabole abbiano di mira due apostoli, Giuda Iscariota, il traditore, e Simone lo Zelote (Lc 6, 15) o il cananeo (Mt 10, 4; Mc 3,18), forse perché avevano militato nel gruppo insurrezionalista degli «Zeloti» che volevano ribellarsi ai Romani con una guerra santa di liberazione per instaurare il Regno di Dio. Gesù opera con la non-violenza e l’Eucaristia che celebriamo è la scuola del fallimento di Dio che non esita a diventare pane, vino e parola affinché noi portiamo frutto di vita e di condivisione.

Canto al Vangelo cf. Gv 17,17

Alleluia. Apri, Signore, il nostro cuore / e comprenderemo le parole del Figlio tuo. Alleluia.

Dal Vangelo secondo Marco 4,26-34

In quel tempo, Gesù 26diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». 30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». 33 Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa. – Parola del Signore.

Spunti di omelia

Il capitolo quarto di Mc è il capitolo delle parabole in seguito, ripreso e sviluppato da Mt 13 con ben sette parabole; Mc ne riporta solo tre: quella del seminatore e relativa spiegazione (cf Mc 4,1-9 e 13-20) come commento allo Shemà Israèl, e le due riportate nel vangelo di oggi: una centrata sulla figura del contadino che è presente, ma ininfluente sulla crescita del seme (cf Mc 4,26-29) e l’altra centrata sul granello di senape che ha un risultato inversamente proporzionale alla sua consistenza iniziale (cf Mc 4,30-32). La prima parabola intende essere una illustrazione non tanto del regno di Dio (traduzione abituale della Bibbia-Cei), ma della «signoria» di Dio esercitata sull’uomo nuovo che vive l’attesa del regno che viene; la seconda invece descrive lo sviluppo della nuova comunità umana o regno di Dio come si estende nel mondo5.

Gesù si rivolge alla folla, che in Mc 4,11 è definita con l’espressione «quelli che sono fuori», destinataria delle parabole. In altre parole Gesù parla a tutti con le immagini vive e vitali desunte dalla vita agricola e campestre e poi ognuno deve rileggerle attraverso la propria esperienza che può essere religiosa o culturale; ai discepoli invece le parabole vengono spiegate, perché devono avere la chiave di lettura autentica e non possono improvvisare perché saranno tentati di parlare a nome di Dio e non devono correre il rischio di confonderlo con le proprie convinzioni. E’ questa la tentazione perenne del personale religioso: confondere Dio con il proprio pensiero, e, a volte con le proprie manie.

Le due parabole sono legate insieme perché hanno un andamento omogeneo: c’è un uomo senza qualifica e di cui non si dice nemmeno che è un contadino, per cui ha il valore indefinito di «chiunque» che quindi può essere ciascuno che legge. Costui svolge una attività getta il seme sulla terra (greco: epì tês ghês), non semplicemente «sul terreno»: è la terra intera l’obiettivo del seme perché ogni uomo è figlio della terra, cioè è parte del tutto. Il seme da parte sua mette in moto un processo di sviluppo, ma in modo indipendente dall’attività dell’uomo che pertanto resta presente, ma è ininfluente e anche passivo: di fronte al processo di crescita del seme che si sviluppa secondo un ordine intrinseco (stelo, spiga, chicco), l’uomo può solo attendere e l’attesa diventa l’attività più intensa perché mette in moto un altro processo interiore che non è visibile e spesso è silenzioso. Chi aspetta attiva la speranza del risultato, ma anche il fallimento di esso; l’ansia di vedere e l’impossibilità di prevedere; il desiderio di anticipare i tempi e la lentezza di dovere rispettare i tempi di crescita; l’aspettativa della riuscita e anche e la paura della delusione. Nell’attesa tutti i sentimenti umani sono messi in movimento e rendono irrequieti, pur dovendo restare solo ad attendere il momento propizio.

Durante il tempo dell’attesa la caratteristica dell’uomo è l’ignoranza: sa che sta avvenendo un processo di vita, ma non sa come accade; vorrebbe gestirlo, ma deve solo subirlo; può essere presente, ma non può intervenire: sia che stia sveglio, sia che dorma, il seme procede da solo, cresce e si realizza in forza della sua natura e della terra che lo ha accolto. La terra infatti vive il processo di crescita e mette in atto le condizioni perché esso si svolga pienamente, non trattiene il seme, ma lo accompagna, lo sostiene e lo lascia andare: lo accoglie per lasciarlo libero, non per imprigionarlo. E’ la dinamica della crescita verso la maturità che ogni educatore dovrebbe mettere in atto: accogliere creando le condizioni della libertà e spingendo verso la libertà nel cuore della quale soltanto può svilupparsi la coscienza della responsabilità.

L’evangelista ci dice di fatto che l’uomo, in fondo, non è proprio «chiunque/uno qualsiasi», ma Dio stesso6 che ha preso il seme dalla sua Parola che è il Figlio suo e l’ha sparsa sulla terra intera, sul mondo, restando a contemplare in silenzio e paziente che ogni cosa faccia il suo corso. Guardiamo la nostra vita: Dio ci sembra assente perché agisce e non si presenta secondo i nostri schemi e le nostre categorie, mentre in realtà non è mai andato via, perché resta lì ad occhi chiusi ad aspettare che la terra spinga il seme e questi cresca e germogli fino a portare frutto. La caratteristica di questa parabola è il superamento del particolarismo d’Israele con l’annuncio di Gesù che è rivolto «a tutti»; si mette in evidenza l’universalità del messaggio esposto a tutta l’umanità. Il testo infatti dice che «un uomo ha gettato il seme sulla terra» (Mc 4,26) e il sostantivo «terra» porta l’articolo determinativo, cioè individuante: non è il terreno circoscritto della seminagione; non è il contadino che si occupa del suo pezzo di terra; al contrario qui si tratta di tutta quanta «la terra», intesa come abitazione dell’umanità. Lo stesso avviene nel racconto del paralitico (cf Mc 2,1-13 e in modo esplicito in Mc 13.10 e 14,9). Sta qui la novità della «signoria di Dio»: il messaggio del vangelo è indirizzato a tutta l’umanità per cui chi segue il Cristo, accetta di accettare tutti come suoi consanguinei e familiare. Al seguito di Gesù si diventa discepoli di un Dio che abolisce i confini del tuo e mio, le definizioni di cittadinanza e di nazionalità per costituire una «nuova umanità» che si chiama regno di Dio a cui tutti, nessuno escluso, può essere escluso: «Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt 18,14).

Pietro lo dice espressamente mettendoci in guardia da una fretta inconcludente: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Noi sperimentiamo la vita odierna dominata dalla fretta, come se la velocità fosse un criterio di verità in sé: la velocità dipende da variabili imponderabili; se è veloce un asino, arriva prima l’asineria; se un corrotto la corruzione; se un giusto, la giustizia. Oggi si è così veloci da rimanere superficiali e lontani dai sentimenti delle cose e degli eventi. Velocità non vuol dire progresso o profondità, né può essere un metodo o una condizione. Essa è solo una occasione e dipende da chi la usa e come la usa.

La crescita di ciò che conta ha la caratteristica della lentezza, così come il dolore esige tempo per acquietarsi, come l’amicizia ha bisogno di tempo per «accudirsi», come l’amore e la preghiera che hanno bisogno di tempo per esistere ed esprimersi perché si realizzano solo nel «perdere tempo per la persona amata». In questa dinamica l’attività dell’uomo o del contadino, o del genitore, o dell’educatore può essere l’inattività, anche lunga, ma proiettata nella prospettiva della mietitura, la stagione della raccolta dei frutti. E’ evidente che l’accenno alla falce e alla mietitura è un richiamo al profeta Gioele che annuncia il giudizio finale, descrivendolo alla maniera profetica, come raduno universale di tutti i popoli:

12Si affrettino e salgano le nazioni alla valle di Giòsafat, poiché lì sederò per giudicare tutte le nazioni dei dintorni. 13Date mano alla falce, perché la messe è matura; venite, pigiate, perché il torchio è pieno e i tini traboccano, poiché grande è la loro malvagità! 14Folle immense nella valle della Decisione, poiché il giorno del Signore è vicino nella valle della Decisione (Gl 4,12-14).

Anche l’Apocalisse descrive la fine della storia come una mietitura per opera della falce: «Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura» (Ap 14,14-16). La mietitura nella Bibbia è l’immagine del giudizio di Dio che inaugura il regno definitivo perché opera il discernimento, anzi la verità tra ciò che è consistente (il frutto) e ciò che invece è superfluo e passeggero (la paglia, la pula, la zizzania). In attesa della mietitura finale, cosa avviene nel cuore degli eventi? Cristo appare come abbandonato a se stesso: è venuto per portare un vangelo di alleanza e di novità e invece è rifiutato e combattuto proprio da coloro che avevano gli strumenti per riconoscerlo. E’ il tempo del silenzio di Dio che solo chi ha uno sguardo complessivo della storia legge in vista della mietitura finale, come l’inettitudine e l’inattività del contadino ha senso se vista in funzione del raccolto finale. Alla richiesta dei segni particolari perché dimostri di essere il Messia, Gesù si rifiuta e si abbandona alla dimensione dei tempi di crescita, aspettando che il seme della sua parola faccia il suo frutto, cioè scenda nel profondo del cuore.

Le due parabole7 quindi, di oggi vogliono rispondere a questo interrogativo: se Cristo è venuto per inaugurare il Regno perché ha permesso che fosse combattuto ed egli stesso sperimentasse insuccesso e fallimento? Perché la sua predicazione non ha avuto l’effetto dirompente che avrebbe dovuto avere, come è accaduto in Egitto, a Pasqua, al Sinai per l’alleanza? Perché Dio non impone la verità con la sua onnipotenza? Anche tra i discepoli c’è chi vuole la maniera forte e dirompente:

«Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. 55Si voltò e li rimproverò. 56E si misero in cammino verso un altro villaggio».

L’atteggiamento dei discepoli è imporre la presenza del Signore con la forza, l’atteggiamento di Cristo invece si rivolge ad un altro villaggio accettando l’insuccesso immediato, lasciando il tempo necessario per la crescita e la scoperta della sua personalità. La pazienza e il senso di inutilità apparente portano i loro frutti come spiega bene la seconda parabola del seme di senape. A vederlo sembra insignificante, tanto è piccolo e microscopico, ma quando cresce diventa riparo di tutti gli uccelli del cielo. Tra le due parabole vi è corrispondenza: nella prima si parla di terra, intesa come abitazione dell’umanità; nella seconda si parla di cielo come luogo proprio degli uccelli. Abbiamo qui dunque l’espressione semitica «terra e cielo» che ci riporta ancora una volta al tema della universalità, perché indica la totalità, il tutto, racchiuso tra gli estremi (cielo e terra).

L’evangelista non dice che gli uccelli fanno il nido sui rami, ma più esattamente «che gli uccelli del cielo possano accamparsi alla sua ombra» (Mc 4,32). Il verbo greco «kataskēnoûn» richiama l’atto del nomade che «pianta la tenda» (skēnê) per riparasi dal sole o nella notte ed è un verbo inverosimile applicato agli uccelli che a quanto pare non sono soliti piantare e arrotolare la tenda. Il verbo quindi è un richiamo forte all’attività umana per cui mette in rapporto la sproporzione tra la piccolezza dell’inizio, anzi del «principio» e il risultato dello sviluppo: chi avrebbe mai pensato che da un semino piccolo piccolo potesse nascere un albero che diventa rifugio, spazio di riposo per gli uccelli del cielo? Fuori di metafora: l’umanità può aspirare a ristorarsi all’ombra dell’albero del vangelo, lo stesso che sembrava avere fallito perché rifiutato dalla maggioranza di coloro che lo hanno appena sentito, ma non ascoltato.

Alla luce di questa parabola si può leggere la strategia che il vangelo esige per instaurare il regno di Dio. Oggi la Chiesa possiede mezzi ricchi e potenti, possiede banche e latifondi, è potenza immobiliare e, di solito, si giustifica tutto dicendo che servono per la diffusione del regno di Dio. In nome di Dio si commettono anche omicidi e si attuano delinquenze, si pianificano corruzioni, si fanno alleanza con uomini e poteri nefasti senza più arrossire dalla vergogna. Gli uomini di potere che contano sono contagiati dallo spirito e dalla logica del mondo e vestono di seta e di porpora come si usa nei salotti mondani; si parla di diplomazia e si declassa la profezia a ostacolo del buon senso. Il vangelo del granello di senape ci insegna che i mezzi del regno devono essere adeguato alla natura di esso e al fine che si prefigge che non è quello di dominare, ma di servire, non quello di sfruttare, ma di unire nella solidarietà di comunione.

Un regno, la cui Carta Costituente annuncia le «Beatitudini», il «Magnificat» e la politica del «Padre nostro» deve necessariamente usare mezzi poveri e la povertà deve essere visibile sia nelle strutture che nelle persone impegnate nel ministero. Non possono esistere mezzi ricchi per annunciare «Beati i poveri … guai ai ricchi»: sarebbe, anzi è una contraddizione insanabile. Per questo oggi la Chiesa non è credibile e impedisce di credere a Dio perché si è mondanizzata, rinunciando al fine per fermarsi ai mezzi.

O prendiamo Dio sul serio e siamo coerenti fino in fondo, fino allo spasimo, o è meglio vivere come se Dio non ci fosse, perché con la nostra vita inquinata noi lo rendiamo invisibile e inavvicinabile; anzi, vivendo lontani dal vangelo, nonostante i gargarismi con esso, noi impediamo a chi lo cerca con cuore sincero di incontrarlo e innamorarsene. La chiesa del granellino di senape deve essere povera e deve anche apparire povera perché non può vivere nel lusso dell’apparenza che non s’identifica con la realtà. Nella logica del vangelo essere ed apparire sono sinonimi identici e specchio dello stesso volto credibile di Dio.

Credo o Simbolo degli Apostoli8

Io Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra. [Pausa: 1-2-3]

E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, [Pausa: 1-2-3]

nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitato da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti. [Pausa: 1-2-3]

Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati,

la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen.

Preghiera universale [intenzioni libere]

MENSA EUCARISTIACA

Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24),

Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.

Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.

[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore.

Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.

Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.

Preghiamo (sulle offerte). O Dio, che nel pane e nel vino doni all’uomo il cibo che lo alimenta e il sacramento che lo rinnova, fa’ che non ci venga mai a mancare questo sostegno del corpo e dello spirito. Per Cristo nostro Signore. Amen!

PREGHIERA EUCARISTICA III9

Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito. In alto i nostri cuori. Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. É cosa buona e giusta.
 

É veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno.

Santo, Santo, Santo, sei tu, Signore, Dio dell’universo che pianti Israele nella terra dell’Alleanza (cf Is 11,1)

Nell’albero della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto, per Cristo Signore nostro.

Hai preso il ramoscello dalla cima del cedro che è il Cristo è lo hai piantato sul monte dell’Eucaristia che è il suo copro dato per noi (cf Ez 17,22).

Per mezzo di Lui gli angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le potenze ti venerano con tremore.

Benedetto è il tuo Nome che la nostra testimonianza ha piantato tra i popoli del mondo (cf At 1,8).

A te inneggiano i cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci, nell’inno di lode:

Osanna nell’alto dei cieli. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Kyrie, elèison. Christe, elèison. Pnèuma, elèison, santa Trinità, unico Dio.

Padre veramente santo, a te la lode da ogni creatura.

Il tuo Spirito effuso su «ogni carne» produce frutti abbondanti di giustizia e di verità (cf Ez 17,23).

Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, nella potenza dello Spirito Santo fai vivere e santifichi l’universo, e continui a radunare intorno a te un popolo, che da un confine all'altro della terra offra al tuo nome il sacrificio perfetto.

E’ bello renderti grazie, o Padre, e cantare al tuo Nome, o Altissimo, per il dono del Cristo, fedeltà d’amore a questa Assemblea (cf Sal 92/91,2).

Ora ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri.

Egli è il Giusto fiorito come palma sul legno della croce, principio della vita senza fine (cf Sal 92/91,13).

Nella notte in cui fu tradito, egli prese il pane, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.

Il suo corpo è la tenda della nuova alleanza che hai piantato in mezzo a noi (cf Gv 1,14)

Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.

Nel suo sangue siamo stati lavati per essere santi e immacolati negli atri della casa del Signore (cf 1Co 6,11).

FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.

Quanto il Signore ha ordinato, noi faremo e ubbidiremo (cf Es 24,7)

Mistero della fede.

Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte, Signore, nell'attesa della tua venuta.

Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo.

Guidati dal suo Spirito, camminiamo verso il tribunale di Cristo, per ricevere la ricompensa delle opere compiute (cf 2Cor 5,10).

Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito.

Santa è l’Assemblea dell’Eucaristia perché è il tempio della dimora dello Spirito del Risorto (Cf 1Cor 3,16).

Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri, e tutti i santi, nostri intercessori presso di te.

Tui vegli su di noi, di giorno e di notte perché il seme che è Cristo germogli e cresca (cf Mc 4,26).

Per questo sacrificio di riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero. Conferma nella fede e nell’amore la tua Chiesa pellegrina sulla terra: il tuo servo e nostro Papa …, il Vescovo …, il collegio episcopale, il clero, le persone che vogliamo ricordare … e il popolo che tu hai redento.

Il tuo regno si estende sulla terra in ogni cultura e nazione come un albero di vita eterna (cf Mc 4,27-28).

Ascolta la preghiera di questa famiglia, che hai convocato alla tua presenza nel giorno in cui il Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale. Ricongiungi a te, Padre misericordioso, tutti i tuoi figli ovunque dispersi.

Hai seminato il tuo regno, chicco di senape, e lo hai affidato alla cura della nostra testimonianza (cf Mc 4,30).

Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo; ricordiamo tutti i defunti … concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria, in Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene.

All’ombra dell’albero di senape che è il Cristo risorto, tu raduni il popolo dei vivi e dei morti nell’unico tempio della santa Gerusalemme che è il corpo del Signore risorto (cf Mc 4,32).

Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]

Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell'unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

 

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià

sia santificato il tuo nome

itkaddàsh shemàch

venga il tuo regno

tettè malkuttàch

sia fatta la tua volontà

tit‛abed re‛utach

come in cielo così in terra.

kedì bishmaià ken bear‛a.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh

e rimetti a noi i nostri debiti

ushevùk làna chobaienà

come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori

kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà

e non abbandonarci alla tentazione

veal ta‛alìna lenisiòn

ma liberaci dal male.

ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione Mc 4,31-32: Il regno di Dio è come un granello di senape che si fa albero e ofre riparo agli uccelli del cielo.

Dopo la comunione

Da Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2000

[Fonte: «Giorno per giorno» della Comunità Evangelho è Vida del Bairro Rio Vermelho di Goiás (Brasile) del 6 giugno 2012].

In una predicazione pronunciata all’apertura del Giorno dell’Espiazione, il Rabbi di Gher usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli é dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti nel fango, il fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: ‘Allontanati dal male e fa’ il bene’ (Sal 37, 27), volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”.

Ma l’insegnamento del nostro racconto va oltre: chi si fustiga incessantemente per non aver fatto sufficiente penitenza si preoccupa essenzialmente della salvezza della propria anima e quindi della propria sorte personale nell’eternità. Rifiutando questo obiettivo, il chassidismo non fa altro che trarre una conseguenza dell’insegnamento dell’ebraismo in generale. Uno dei principali punti su cui un certo cristianesimo si è distaccato dall’ebraismo consiste proprio nel fatto che quel cristianesimo assegna a ogni uomo come scopo supremo la salvezza della propria anima. Agli occhi dell’ebraismo, invece, ogni anima umana è un elemento al servizio della creazione di Dio chiamata a diventare, in virtù dell’azione dell’uomo, il regno di Dio; così a nessun’anima è fissato un fine interno a se stessa, nella propria salvezza individuale. È vero che ciascuno deve conoscersi, purificarsi, giungere alla pienezza, ma non a vantaggio di se stesso, non a beneficio della sua felicità terrena o della sua beatitudine celeste, ma in vista dell’opera che deve compiere sul mondo di Dio. Bisogna dimenticare se stessi e pensare al mondo. Il fatto di fissare come scopo la salvezza della propria anima è considerato qui solo come la forma più sublime di egocentrismo.

Preghiamo. Signore, la partecipazione a questo sacramento, segno della nostra unione con te, edifichi la tua chiesa nell’unità e nella pace. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Il Signore è con voi. E con il tuo Spirito.

Il Signore sia sempre davanti a voi per guidarvi.

Il Signore sia sempre dietro di noi per difenderci dal male.

Il Signore sia sempre accanto a voi per consolarvi e confortarvi. Amen.

Vi benedica l’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ora e sempre. Amen!

La messa finisce come rito, continua nella testimonianza. Andiamo incontro al Signore che viene.

Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.

_________________________

Domenica 11a per annum-B – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete

© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica

Paolo Farinella, prete – 17-06-2012 – San Torpete – Genova

NOTE

1  Al ritorno dall’esilio, si prese l’abitudine di chiamare il tempio di Gerusalemme anche con il nome di «Libano» perché tutto il suo rivestimento esterno ed interno era fatto con il cedro, legno prezioso che cresceva nella terra di Libano. Per costruire il tempio, il re Salomone stipulò un accordo commerciale con Hiram re di Tiro, in base al quale maestranze competenti avrebbero lavorato alla sua edificazione (cf 1Re 5,20-25), facendo venire il prezioso legno appositamente. Nella liturgia sinagogale e nella letteratura midrashica «Libano» diventa sinonimo del tempio stesso. Poiché «Libano» significa anche «bianco», il tempio viene detto anche «Casa Bianca» perché in essa sono purificati i peccati del popolo (cf F. Manns, La prière d’Israël à l’heure de Jésus, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1986, 94-95).

2  «Luogo» in ebraico «Maqòm» era uno dei nomi con cui si chiamava Dio in sostituzione del Nome, il santo tetragramma, impronunciabile «Yhwh».

3  A. Feuillet, «Demeure céleste et Destinée des chrétiens, in Rech. Sc. Rel. (1956), 161-192 ; 360-402.

4  Sul tema biblico del «vedere il Signore», cf P. Farinella, «Vogliamo vedere Gesù» (Gv,12,21), in F. Taccone, et alii., edd., La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso [Atti del Seminario di ricerca interdisciplinare sul tema: «La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso», Pontificia Università Lateranense, Cattedra Gloria Crucis, Roma giovedì 23 aprile 2007] Edizioni OCD, Roma Morena 2008, 47-73.

5  Per gli aspetti filologici cf. J. Mateos – F. Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. I, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 382-386.

6  Cf J. Dupont, «La Parabole de la semence qui pousse tout seul», in Rech. Sc. Rel. (1967), 367-392.

7  J. Jeremias, Jésus et le païens, Neuchâtel 1956.

8 Il Simbolo degli Apostoli, forse è la prima formula di canone della fede, così chiamato perché riassume fedelmente la fede degli Apostoli. Nella chiesa di Roma era usato come simbolo battesimale, come testimonia Sant’Ambrogio: «È il Simbolo accolto dalla Chiesa di Roma, dove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, e dove egli portò l'espressione della fede comune» (Explanatio Symboli, 7: CSEL 73, 10 [PL 17, 1196]; v. commento in Catechismo della Chiesa Cattolica, 194).

9 La Preghiera eucaristica III è stata composta ex novo su richiesta di Paolo VI in attuazione alla riforma liturgica voluta dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Non ha un prefazio proprio, ma mobile e per questo, forse, ha finito per essere scelta, nella pratica, come la preghiera eucaristica della domenica.



Giovedμ 14 Giugno,2012 Ore: 14:30
 
 
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