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www.ildialogo.org Domenica 5a di Pasqua – 06 maggio 2012,di Paolo Farinella, prete

Domenica 5a di Pasqua – 06 maggio 2012

di Paolo Farinella, prete

Introducendo l’Avvento, all’inizio dell’anno liturgico, abbiamo presentando la struttura del lezionario festivo, riformato dal Paolo VI in attuazione della riforma liturgia voluta dal concilio Vaticano II; abbiamo detto che il vangelo di Giovanni è letto prevalentemente nelle domeniche dopo Pasqua perché è il vangelo che «si ostina» ad interrogarsi sulla personalità prima di Gesù e dopo la risurrezione del Cristo1. Nello stesso tempo si leggono come 2a lettura gli «Atti degli Apostoli», che descrivono la continuità tra il Gesù terreno, il Cristo risorto e la chiesa nascente. Gli «Atti» sono il vangelo dei discepoli che rendono visibile il Signore che ora è «invisibile» agli occhi del corpo perché può «essere visto» solo quelli della fede: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29).

Oggi siamo giunti alla 5a domenica dopo Pasqua che ci propone un brano dei «discorsi di addio» del capitolo 15 del IV vangelo, mentre domenica scorsa avevamo letto un brano del capitolo 10. Cercheremo comunque di cogliere il filo rosso che unifica tutto il vangelo del discepolo che contempla la personalità di Gesù. Domenica scorsa Gesù si era auto-rivelato come il «pastore bello», non per indulgere ad una estetica narcisistica, ma per spingere ad andare oltre le apparenze e cogliere la «bellezza» di ciò che si vede e si sperimenta che di norma è nascosta nel segreto profondo dell’anima umana. La «bellezza» cristiana è l’esperienza della vita che si fa comunione di ricerca, di cammino, di fini, di ideali e di fede. Il «pastore bello» è amorevole, è accogliente, è custode delle pecore, trova i pascoli e le sorgenti perché la sua «bellezza» è il riflesso del benessere delle sue pecore che ama con tutte le fibre del suo animo.

Nella 5a domenica del tempo pasquale-B, Gesu si auto-presenta come vite innestata nel Padre: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e che diventa «la vite» su cui sono innestati i discepoli (cf Gv 15,8), creando così un circuito di linfa che non si ferma, ma si espande. Ancora una volta troviamo l’espressione pregnante «Io-Sono» che abbiamo presentato domenica scorsa. Il brano si divide chiaramente in due parti: nella prima (vv. 1-4) Gesù si relaziona al Padre che svolge un’opera di purificazione della vigna, mentre nella seconda parte (vv.5-8) Gesù si relazione con i suoi discepoli con i quali stabilisce un rapporto di intimità, espresso nel verbo «restare/dimorare» (vv. 5.6.7[2x]; cf anche v. 4 [3x]). Il parallelismo è ancora più profondo e comprende il rapporto del capitolo 15 con il capitolo 13 che si estendono anche nei capitoli 14 e 16 , di cui non possiamo occuparci qui, limitandoci solo all’enunciato e rimandando per altri accenni più congrui all’omelia.

La prima lettura ci offre la versione lucana del dramma dell’apostolo Paolo che vive una sistematica emarginazione all’interno della chiesa primitiva ad opera dei giudeo-cristiani, che non accettano l’apertura ai Greci. Essi diffidano della sua conversione e giudicano la sua teologia pericolosa, differente da quella del gruppo di Gerusalemme. LO stesso piano pastorale di Paolo che guarda all’universalità dell’«evento Cristo» è contrastato, ripudiato in nome delle tradizioni che è identificata con la grettezza del pensiero del gruppo forte del momento. Se vivesse oggi sarebbe considerato un pericoloso progressista, gli verrebbe affibbiata l’etichetta di «comunista» (quando non si hanno argomenti di merito, funziona sempre) e lo si accuserebbe di mettere in dubbio la tradizione e le fondamenta della Chiesa; farebbe la fine della maggior parte dei teologi della liberazione o non allineati alla «teologia romana». Egli sarebbe emarginato e forse relegato in qualche angolo insignificante, salvo poi beatificarlo da morto perché i morti non dànno fastidio2.

In un contesto di grave tensione, che lo accompagnerà per tutta la vita, è un laico a farsi carico di lui, Barnaba, che lo allontana da Gerusalemme, cioè dalla Chiesa ufficiale, e lo porta ad Antiochia di Siria, lontano dagli influssi «curiali». Qui Paolo sosta alcuni anni, riflettendo sulla sua vocazione apostolica e ponendo le basi della sua missione «ad Gentes». Il prezzo che pagherà sarà alto: per tutta la vita dovrà sopportare le spie che lo precedevano in ogni paese e città per screditarlo, dovrà giustificare di essere apostolo e dovrà dimostrare di essere un cristiano, oggetto di vocazione e soggetto di diritti.

E’ nell’ordine delle cose (la storia è muta e inefficace testimone da sempre) che nella Chiesa, l’autorità, preposta per grazia al discernimento, non sappia cogliere mai i segni dei tempi e le caratteristiche delle singole persone «fuori campo». Ciò è dovuto alla sua assuefazione istituzionale che porta la «struttura chiesa» ad essere conservativa, conservatrice e diffidente contro qualunque prospettiva di nuovo non sperimentato. La Chiesa è lenta, pesante e spesso perde i grandi e piccoli appuntamenti con la storia perché privilegia l’aspetto istituzionale su quello profetico/carismatico. Diffida delle personalità pensanti che sfuggono al controllo della sua cooptazione, facendo spazio a personalità fragili, quasi sempre banali, che esternamente sono sottomesse al «sistema», mentre interiormente obbediscono solo ai bisogni immaturi della loro apparenza e gratificazione. L’autorità del potere fine a se stesso ha bisogno di esecutori, non di collaboratori adulti e maturi. La stessa espressione «cristiani adulti» fa venire l’orticaria alla gerarchia cattolica, che non ha perso il vizio di allevare adulti-bambini, proni e pronti a fare da chierichetti ornamentali e ossequienti. Gli esecutori facilmente sono indotti a perseguire non il servizio, ma la carriera che diventa una delle cause dell’ateismo del personale ecclesiastico3. Un muro d’incenso e di omertà si frappone fra la gerarchia e la realtà vivente del popolo di Dio.

«Saliamo» sul monte dell’Eucaristia, per imparare il metodo di amore di Dio: si fa pane senza nemmeno la pretesa di essere mangiato, si fa bevanda senza nemmeno la certezza che sarà bevuta, si fa Parola fragile senza nemmeno la sicurezza di essere ascoltata. L’Eucaristia è solo una proposta e un progetto di amore aperto al mondo intero. E’ il modo di Dio, è il metodo dell’amore: si dona a perdere, senza chiedere nulla in cambio, ma solo per abbondanza e sovrabbondanza di amore. Dio non ama per essere ricambiato, ama perché ognuno di noi è importante per lui. Questo è «servire». Invochiamo lo Spirito, aiutati dal Salmista (Sal 98/97,1.2): «Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia».

Spirito Santo, tu ci liberi dalla paura degli altri quando sono portatori di novità, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu mandi sempre un Bàrnaba ad accoglierci senza condizioni, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei conforto alla Chiesa, specie nell’ora della persecuzione, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu disponi il tempo della pace e3 della crescita della Chiesa, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu luce e forza per quanti cercano il Signore con cuore sincero, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu convochi i confini del mondo perché tornino al Signore, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu alimenti in noi la coscienza che siamo «opera del Signore», Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu converti il nostro amore di parole in amore di verità, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci conduci alla fiducia in Dio, anche se il cuore ci rimprovera, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu ci ispiri a scegliere e a compiere quanto è gradito al Signore, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu alimenti in noi il comandamento dell’amore senza riserve, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei la linfa che ci tiene tralci fruttiferi innestati a Cristo Gesù, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu sei la forza che ci fa «rimanere» nella vigna del Padre, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu custodisci la Parola del Signore che in noi porta frutto, Veni, Sancte Spiritus!

Spirito Santo, tu disponi il nostro cuore ad essere la sede della gloria del Padre, Veni, Sancte Spiritus!

Veniamo a te, Signore, così come siamo: con i nostri limiti e le nostre paure, con i nostri frutti e i nostri fallimenti. A volte siamo tralci vitali e ne siamo coscienti, altre volte ci sentiamo tralci secchi e buoni solo per il fuoco. Oggi siamo qui, ancora una volta, per celebrare la Pasqua con te, la Pasqua della settimana condivisa con l’umanità intera, attraverso il sacramento di questa Assemblea, che tu curi come un tralcio della tua vigna. Non siamo soli e non abbiamo paura, se tu sei con noi, perché noi crediamo, noi sappiamo e nello Spirito del Risorto, speriamo. Siamo qui per respirare la tua novità e ricaricarci della universalità che sgorga da questo altare, sentendoci parte redenta di tutta l’umanità che tu ami, crei, redimi e consoli. Su tutto il mondo, tua vigna che solo tu puoi purificare, vogliamo invocare il tuo Nome tre volte santo.

(ebraico)

Beshèm

ha’av

vehaBèn

veRuàch

haKodèsh.

Amen.

(italiano)

Nel Nome

del Padre

e del Figlio

e dello Spirito

Santo.

Il nostro cuore è gonfio: di gioia e forse di dolore, di bellezza e forse di stanchezza, di speranza e forse di rassegnazione, eppure anche per noi, specialmente per noi, oggi risuona la parola consolatrice di Dio: «qualunque cosa [il cuore] ci rimproveri … Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3, 20). Nel suo perdono è la fonte della nostra libertà, nella sua misericordia è la sorgente della nostra dignità: riconoscersi peccatori davanti a Dio è «confessare» Lui come nostro Signore e nostro Dio. [Esame di coscienza con congruo tempo].

Signore, noi siamo i tralci che hanno bisogno di essere potati e purificati, Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei la Vigna su cui il Padre innesta il tralcio di ciascuno di noi, Christe, elèison!

Signore, perdona le nostre colpe contro il comandamento dell’amore, Pnèuma, elèison!

Cristo, quando non portiamo frutti di amore e di giustizia, perdona ancora, Christe, elèison!

Signore, quando no riconosciamo lo Spirito come frutto del tuo amore, Kyrie, elèison!

Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen!

GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI …

e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. [breve pausa 1-2-3]

Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]

Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]

Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.

Preghiamo (colletta). O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché amandoci gli uni agli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo che vive e eregna con te nell’unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Amen.

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  At 9, 26-31. E’ il resoconto del 1° viaggio di Paolo a Gerusalemme che Lc pone, per motivi teologici, subito dopo la conversione di Damasco (anno 36/37 circa per sottolineare la sua uguaglianza «apostolica con il gruppo dei «Dodici». Probabilmente il viaggio deve essere collocato tre anni dopo,come lo stesso Paolo sembra ammettere (Gal 1,17-20). La differenza non è storica, ma teologica. Paolo sottolinea la contemporaneità dell’evangelizzazione ai Giudei, sotto la responsabilità di Pietro e ai Pagani sotto la sua responsabilità. Lc invece sottolinea l’unitarietà della missione che parte da Gerusalemme su mandato del Signore Risorto (At 1,8) e cerca di avvicinare le figure di Pietro e Paolo più di quanto non lo siano state realmente. Paolo però non fu mai accolto come «apostolo», ma come un potenziale nemico e dopo un complotto a suo danno, deve anche fuggire da Gerusalemme (cf Gal 1,18-21), incarnando così nella sua vita l’imitazione di quel Signore Gesù che lo ha chiamato al ministero apostolico. Non è un caso che Paolo si fregia spesosd el titolo di «servo di Gesù Cristo» (Rm 1,1).

Dagli Atti degli Apostoli At 9, 26-31

In quei giorni, Saulo, 26 venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. 27 Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. 28 Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. 29 Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. 30 Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. 31 La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero. - Parola di Dio.

Salmo Responsoriale  22/21, 24ab.26b.27; 28.30ab; 30c-32. Il Salmo 22/21 è nettamente diviso in due parti: un lamento di un innocente perseguitato (vv. 1-22), il cui inizio Gesù usa sulla croce nell’ora dell’abbandono: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (v. 2). Con il v. 23 inizia il salmo pasquale come preghiera di ringraziamento del giusto per la liberazione ottenuta (vv. 23-32). In questo salmo gli evangelisti vi hanno intravisto come anticipati alcuni fatti vissuti da Gesù nella sua passione. Nel tempo pasquale si privilegia la seconda parte dove la lode, l’adorazione, =e la vita senza fine segneranno il raduno universale di tutti i popoli davanti al Signore (vv. 28.30).

Rit. A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea

 

1. 26 Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.

27 I poveri mangeranno e saranno saziati,

loderanno il Signore quanti lo cercano;

il vostro cuore viva per sempre! Rit.

2. 28 Ricorderanno e torneranno al Signore

tutti i confini della terra;

davanti a te si prostreranno

tutte le famiglie dei popoli. Rit.

3. 30 A lui solo si prostreranno

quanti dormono sotto terra,

davanti a lui si curveranno

quanti discendono nella polvere. Rit.

4. Ma io vivrò per lui,

31 lo servirà la mia discendenza.

Si parlerà del Signore alla generazione che viene;

32 annunceranno la sua giustizia;

al popolo che nascerà diranno:

«Ecco l’opera del Signore!». Rit.

 

Seconda Lettura  1 Gv 3, 18-24. Sulla terra possiamo vivere la comunione con Dio in modo limitato a motivo dei nostri condizionamenti, me nell’eternità vedremo Dio come egli è (v. 2a lettura B di domenica scorsa: 1Gv 3,2). Anche se in modo incompleto, però, sulla terra possiamo vivere una comunione reale. Il comandamento che abbiamo ricevuto è uno solo: credere nel Nome di Gesù e amarci gli uni gli altri (v. 23) come dimostrazione di questa fede che diventa testimonianza davanti agli uomini. In sostanza Gv ci dice che fede e carità sono sinonimi ed esprimono la verticalità e l’orizzontalità di un unico atteggiamento (cf Gv 13,34-36; 15,12-17). Figli di Dio per fede, diventiamo fratelli e sorelle per amore (cf 1Gv 2,3-11): è il mistero profondo che viviamo nell’Eucaristia.


Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
1 Gv 3, 18-24

18 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. 19In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, 20qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. 21 Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, 22 e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. 23Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. 24Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato. – Parola di Dio.


Vangelo 
Gv 15, 1-8. Durante l’ultima cena, nel vangelo di Gv, Gesù fa tre discorsi che la liturgia diluisce nei tre anni della 5a domenica: dopo 1° lungo discorso di addio (Gv 13,33-14,31/anno A), Gesù e i suoi «si alzano» per cui la cena è finita. Il 2° discorso (Gv 15-16/anno B) è un doppione del 1° che sviluppa in modo nuovo gli stessi temi. Il 3° discorso, infine, comprende tutta la grande preghiera sacerdotale di Gesù al Padre (Gv 17/anno C). Il brano di oggi appartiene al 2° discorso, in cui Gesù descrive i suoi legami con i discepoli (vv. 4.6.7.10), legami che saranno ancora più profondi con l’arrivo del Paràclito (Gv 16,7.13). Per meglio illustrare questi legami, Gesù come è suo costume, si serve di immagini della vita comune: qui dell’allegoria della vita e dei tralci che descrive magnificamente i legami di unità affettiva.

Canto al Vangelo  Cf Gv 15,4a.5b

Alleluia. Rimanete in me e io in voi, dice il Signore, / chi rimane in me porta molto frutto. Alleluia.  


Dal vangelo secondo Giovanni Gv 15, 1-8.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 1 «Io-Sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto [fa molto frutto], perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». - Parola del Signore.

Spunti di omelia

Il tema della vite con cui Gesù si identifica, è uno dei temi più interessanti proposti dalla Scrittura. La Didachê (dal greco: Insegnamento/Dottrina), documento cristiano tra i più antichi4, nel descrivere la celebrazione eucaristica, invita a prendere il calice del vino e a benedire così: «Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo» (Didachê 9,2). Il riferimento evidente è al vangelo di oggi dove Gesù si identica con la «vite », usando ancora una volta la formula forte di auto-rivelazione «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1)5. L’immagine della vite o della vigna che personifica Israele è ricorrente nell’AT (cf Is 5,7; Ger 2,21; 6,9; Ez 17,1-10; 19,10; Os 10,1; Na 2,3; Sal 80/79, 9-17) e anche nella letteratura giudaica6.

L’apocrifo dell’AT, Apocalisse di Baruc (sec. II d.C.) presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla memore della rovina del patriarca Adamo chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla con queste parole : «Lèvati, Noè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei [il vino] diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso» (Ap Bar 4,15). Un altro apocrifo Il libro di Enoc (sec. II a.C.), del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa, descritta come una inondazione di vino: «La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino [350 litri, ndr]7.

Identificandosi con la «vite», Gesù non fa un discorso nuovo, ma usa la letteratura comune del suo tempo e forse con l’intento di presentarsi come l’erede ufficiale del popolo d’Israele. Dio infatti aveva trapiantato dall’Egitto (Sal 80/79,9) il suo popolo, ma questa vigna scelta produsse uva acerba; ora al compimento dei giorni, il Figlio, «vite vera», vuole offrire al Padre il «vino buono» (Gv 2,10) della fedeltà e della obbedienza, il vino dell’alleanza nuova (cf Ger 31,31). Nell’intenzione dell’evangelista, però, Cristo si paragona alla vite anche per un altro motivo, espresso dalle due espressioni verbali «rimanere» e «portare frutto» che soltanto nel brano di oggi ricorrono rispettivamente 7x e 6x. Co esse Gv esprime l’idea di comunione tra la vite e i tralci, che in qualche modo sono personificati, sottolineando la comunicazione della vita divina che come linfa vitale passa dalla vite ai tralci in un processo di simbiosi vitale e interdipendente. Senza la vite i tralci sono inutili e senza i tralci la vite è sterile. Il tema del «rimanere» indica la natura della stabilità della relazione vite-tralci, mentre quello del «portare frutto» esprime meglio l’idea della prospettiva futura e quindi della missione/testimonianza.

In questa immagine Gesù s’ispira certamente al capitolo 24 del Siracide (sec. II a.C.), là dove la Sapienza loda se stessa e si auto-rivela come colei che nutre e disseta chi la desidera. La Sapienza è la «vite della vita»:

«17Io come vite ho prodotto splendidi germogli e i miei fiori, danno frutti di gloria e ricchezza. [18] 19Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, 20 perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele. 21 Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete» (Sir 24,17-21).

In Giovanni nulla è mai causale e, infatti, l’immagine della «vite di vita» del Siracide ci riporta al capitolo 6 del vangelo, dove Gesù si auto-rivela come «pane della vita» (Gv 6, 33.35.48.51), prima di presentarsi come «vite vera». Avremmo dunque una precisa e voluta corrispondenza tra Gv 15 e Gv 6, tra il pane e la vite. Due immagini per dire lo stesso concetto: la vita divina è comunicata in Gesù all’umanità nel simbolismo del banchetto (pane e vino). In Siracide la Sapienza, nutrendo e dissetando di se stessa, aumenta la fame e la sete di Sapienza; nel tempo della’alleanza nuova, chi mangia il pane della vita non avrà più fame (Gv 6,35). Il tema eucaristico di Gv 6 è ripreso da Gv 15, ma sviluppato sul tema della vigna/vite/vino.

Gv 6

Gv 15

v. 35

Io-Sono il pane della vita

v. 1

Io-Sono la vera vite

v. 39

E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato.

v. 5

Chi rimane in me, e io in lui, porta [fa] molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.

v. 56

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.

v. 4

Rimanete in me e io in voi (cf anche vv. 5.7.9.10. 16).

v. 3

Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli (cf anche vv. 2.8.12.16.22.24.40. 59.61.66)

v. 8

che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

v. 44

Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato.

v. 8

In questo è glorificato il Padre mio:

Il testo di oggi (come tutto il capitolo 15 di Gv ) dovrebbe essere messo in relazione al capitolo 13 che descrive la lavanda dei piedi che per Gv ha lo stesso valore dell’istituzione dell’Eucaristia riportata di vangeli Sinottici (Mc, Mt e Lc). Vi troviamo corrispondenze puntuali che accenniamo solo senza svilupparle:

Gv 13: Lavanda dei piedi

Gv 15: Discorso di addio

vv. 4-5: Gesù lava i piedi ai discepoli

vv. 1-2: il Padre-vignaiolo «pota/purifica» i tralci

v. 10: Gesù dichiara i discepoli «mondi, ma non tutti»

v. 3: Gesù dichiara i discepoli «mondi per la Parola»

v. 31: il Figliodell’uomo è glorificato

v. 8: Da Gesù «è glorificato il Padre mio»

v. 35: si è discepoli se si ha amore per gli altri

v. 8: divenire discepoli è sinonimo di portare molto frutto

Ci limitiamo a questi pochi accenni, relativi al brano liturgico di oggi, sapendo che il parallelismo è molto più profondo e si estende ai capitoli 13-15 e 14-16 che comprendono i primi due discorsi di addio di Gesù (v. qualche accenno in più nell’omelia). Queste corrispondenze confermano la fondatezza che Gv voglia esporre il tema eucaristico nel duplice tema del pane/vite, anche perché in tutte e due i discorsi, Gesù usa la formula cristologia di auto-rivelazione: «Io-Sono il pane» (6,35) e «Io-Sono la vite» (15,1).

Il tema eucaristico è presente anche nel capitolo 15 di Giovanni, ma osservato da un'altra prospettiva. I Sinottici raccontano l’Eucaristia come «memoriale storico» di ciò che Gesù ha fatto e che ora viene prolungato nella vita dei discepoli con il comando: «Fate questo in memoria di me». L’autore del IV vangelo, invece, descrive l’Eucaristia come «atteggiamento» di fondo e contenitivo dell’esistenza perché per Giovanni essa cessa di essere «memoriale storico» per diventare «profezia di alleanza». Questa dimensione è descritta con la ostinata ripetizione dei verbi «rimanere» e «portare frutto» che ci obbligano a prendere coscienza del tema di fondo dei discorsi di addio di Gesù: e cioè l’amore come relazione feconda di vita e come nutrimento della vita. Il «pane e il vino» esigono l’azione del mangiare, vivono cioè dentro un processo di «assimilazione» che si realizza in un contesto relazionale autentico e generante. L’amore, infatti, genera sempre chi ama, rendendolo anche fecondo nella generatività. Amare è lasciarsi generare all’amore e accettare di essere sorgente di amore e strumento di amore.

Non basta amare, bisogna anche nutrire l’amore perché sia fecondo e generativo. Amare non è facile se non si fa prima l’esperienza di essere amati o meglio dell’abbandono ad essere amati. Esistono forme di amore che sono altrettante trappole: amore goloso quando si pensa l’amore come proprietà; amore geloso, quando si ama nel dubbio e senza fiducia; amore possessivo, quando si ama in modo padronale; amore servile quando si ama senza dignità; amore egoistico quando si ama solo se stessi, magari attraverso l’altro/a considerandosi un assoluto. Per uscire da questa prigione è necessario lasciarsi amare dall’amore che libera da ogni condizionamento perché porta frutto e rimane sempre in relazione con gli altri. Chi ama non pone condizioni, ma vuole solo che l’altro sia felice, anche a costo della propria infelicità. Un amore contrattuale fondato sulla reciprocità è solo una forma nobile di prostituzione: un mercato di «tu devi». L’amore è autentico solo se è a perdere.

Amare gli altri! Facile a dirsi, ma molto difficile a praticarsi e spesso sono solo vuote parole che servono a fare i gargarismi con frasi evangeliche. «Amare gli altri» non significa rinunciare alla propria identità o assumere un atteggiamento dimesso se non succube, ma semplicemente riconoscere se stessi come non assoluti, ma come termine necessario all’amore dell’altro che ha bisogno di noi per compiersi, come noi abbiamo bisogno degli altri per essere e diventare noi stessi. Amare gli altri! significa accettarsi come «relativi» che fanno spazio agli altri «relativi» che vivono la stessa esperienza. In altre parole: «Amare gli altri!» significa imparare da dal comportamento di Dio che gli altri sono la «parte migliore di noi».

Il segreto è tutto qui: se abbiamo la coscienza di essere un tralcio che trae linfa e vita da Qualcuno che è sorgente di amore inesauribile, saremo capaci di amare noi stessi come proposta agli altri che sapremo riconoscere come parte essenziale della nostra relazione. Gli uni e gli altri tralci della stessa vite e insieme per portare frutto e portarlo abbondante in un mondo che abbonda di parole e gesti di amore, ma è povero di amore. Per questo abbiamo bisogno dell’Eucaristia, il sacramento-scuola che ci educa all’amore sull’esempio di Gesù che non esita ad amare fino al dono della vita sua per noi: Rimanere in lui e portare frutto è il nostro modo per riconoscerlo e annunciarlo. Lo Spirito Santo ci apra a questo mistero che unisce la terra al cielo, facendo di noi il luogo sponsale di questo incontro d’amore.

Professione di fede: promesse battesimali

Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra? Credo.

Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? Credo.

Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? Credo.

Questa è la fede della Chiesa. Questa è la fede nella quale siamo stati battezzati. Questa è la nostra fede che scegliamo e viviamo. E noi ci gloriamo di professarla, in Cristo Gesù nostro Signore. Amen.

Preghiera dei fedeli [Intenzioni libere]

LITURGIA EUCARISTIACA

Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24),

Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.

Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.

[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore.

Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.

Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.

Preghiamo (sulle offerte). O Dio, che in questo scambio di doni ci fai partecipare alla comunione con te, unico e sommo bene, concedi che la luce della tua verità sia testimoniata dalla nostra vita. Per Cristo nostro Signore. Amen.

PREGHIERA EUCARISTICA II (detta di Ippolito, prete romano del sec. II)

Prefazio Pasquale IV – La restaurazione dell'universo per mezzo del mistero pasquale

Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito. In alto i nostri cuori. Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. É cosa buona e giusta.


E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, proclamare sempre la tua gloria, o Signore, ma sopratutto esaltarti in questo tempo nel quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato.

Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli (Sal 22/21,28).

In lui, vincitore del peccato e della morte, l’universo risorge e si rinnova, e l’uomo ritorna alle sorgenti della vita.

Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto nel Nome del Signore colui che viene. Pnèuma, elèison! Christe, elèison!

Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale, l’umanità esulta su tutta la terra, e con l’assemblea degli angeli e dei santi canta l’inno della tua gloria:

Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Kyrie, elèison!

Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.

Osserviamo i tuoi comandamenti perché dimoriamo in te e tu in noi, Signore; e sappiamo che dimori in noi dallo Spirito che ci ha dato (cf 1Gv 3, 24)

Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzo, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.

Signore, tu hai detto: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4).

Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice, rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.

«Io-Sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5).

FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.

Quanto il Signore ha ordinato, noi faremo e ubbidiremo (cf Es 24,7)

MISTERO DELLA FEDE

Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta.

Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.
«Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (Gv 15,6).

Ti preghiamo: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
«Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (1Gv 3,20).

Memoria dei Volti e dei Nomi sulla terra

Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell’amore in unione con il nostro papa …, il vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare … e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.

«Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri» (Gv 15,19).

Memoria dei Volti e dei Nomi nella Gerusalemme celeste

Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza … ammettili a godere la luce del tuo volto.

Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, tu, o Signore, nostro Padre, sei più grande del nostro cuore e ci conosci nell’intimo» (cf 1Gv 3,20; cf Sal 118/117,1).

Memoria dei credenti di ogni tempo

Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.

In questo è glorificato il Padre nostro: che portiamo molto frutto e diventiamo discepoli del Signore Gesù (cf Gv 15,8).

Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]

Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Padre nostro in aramaico o in greco:

Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià

sia santificato il tuo nome,

itkaddàsh shemàch

venga il tuo regno,

tettè malkuttàch

sia fatta la tua volontà

tit‛abed re‛utach

come in cielo così in terra.

kedì bishmaià ken bear‛a.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh

e rimetti a noi i nostri debiti

ushevùk làna chobaienà

come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori

kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà

e non abbandonarci alla tentazione

veal ta‛alìna lenisiòn

ma liberaci dal male.

ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione (cf Gv 15,5): «Io sono la vite, voi i tralci», dice il Signore; «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto».

Dopo la comunione

Da Pinchas H. Peli, La Torah oggi

La propria gratificazione e preservazione è la tendenza naturale di ogni creatura vivente, esseri umani compresi. Chi mai sentì parlare dell’amore degli uni per gli altri per ragioni diverse da quelle egoistiche finché la Bibbia degli ebrei non comandò l’amore di Dio, del prossimo e dell’estraneo per fini non utilitaristici? L’amore altruista è una “invenzione” della Torah. La ragione per cui dobbiamo amare i nostri simili non è per essere amati, ma perché “Io sono il Signore!”. Dio stesso è amore e gli esseri umani meritano di essere amati perché sono stati creati a Sua immagine; perché ogni altro essere umano è komòkha/(proprio)come te. Una persona e non un numero. L’originale, non la copia. L’amore può essere comandato? Molti commentatori, nell’interpretare il passo biblico, rifiutano ogni riferimento alle emozioni. Fanno notare che quando si parla dell’amore per il prossimo la forma grammaticale usata non è we ’ahavtà ’et (“tu lo amerai”), com’è dell’amore per Dio, ma we-ahavtà le-ra‘akhà, (hw"hy> ynIa] ^AmK' ^[]rel. T'b.h;a'w>) che può essere tradotto con “sarai amorevole verso i tuoi simili”, ponendo l’accento sulle azioni e la condotta piuttosto che sui sentimenti.

Da Elisa Kidanè, Rwanda: dieci anni dopo

Erano verdi / le mille colline / del Rwanda / ma nel giro / di cento giorni / fradici di sangue / hanno cambiato colore / e dieci anni dopo / odorano ancora di morte. / L’Africa geme / ma è il mondo intero / che piange / il suo fallimento: / quando l’uomo uccide / sistematicamente / un altro uomo / l’umanità regredisce. / Per questo / le nostre notti / abitate da incubi / ci tengono svegli / e dieci anni dopo / siamo ancora tesi / paurosi, spaventati / come selvaggina in pericolo. / Le mille colline / ieri ammantate di verde / dieci anni dopo / trasudano ancora sangue / e odorano di morte. / Gli anniversari / i mea culpa planetari / i silenzi imbarazzati / non bastano / per acquietare coscienze / o allontanare paure. / Sanare l’anima / bisogna. / Forse / dovranno passare / mille anni / per prosciugare / sangue e lacrime / dei sopravvissuti, / per rimarginare / il cuore ferito / dell’umanità complice, / perché spettatrice. / Per restituire / il verde colore della speranza / alle colline del Rwanda.

Preghiamo. Assisti, Signore, il tuo popolo, che hai colmato della grazia di questi santi misteri, e fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato alla pienezza della vita nuova. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Benedizione e saluto finale

Sia Benedetto colui che è Benedetto in cielo e in terra.

Ci benedica l’Alfa e l’Omega, il Principio e il Fine.

Sia benedetto il Nome del Signore invocato su di voi.

Rivolga il Signore il suo Nome su di noi e ci doni il suo Spirito.

Rivolga il Signore il suo Volto su di voi e vi doni la sua Pace.

Sia sempre il Signore davanti a noi per guidarci.

Sia sempre il Signore dietro di voi per difendervi dal male.

Sia sempre il Signore accanto a noi per confortarci e consolarci.

E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio

e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen!

La Messa finisce come rito, comincia la Pasqua della nostra settimana nella testimonianza della vita:

Andiamo in pace. Rendiamo grazie a Dio.

Antifona del Tempo pasquale

Regina dei cieli, rallegrati, alleluia; / Cristo, che hai portato nel grembo, alleluia, È risorto, come aveva promesso, alleluia. / Prega il Signore per noi, alleluia. Rallegrati, Vergine Maria, alleluia. / Il Signore è veramente risorto, alleluia. Preghiamo. O Dio, che nella gloriosa risurrezione del tuo Figlio hai ridato la gioia al mondo intero, per intercessione di Maria Vergine concedi a noi di godere la gioia della vita senza fine. Per Cristo nostro Signore. Amen.

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Domenica 5a di Pasqua – B – Genova 06-05-2012 – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete

© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica – Paolo Farinella, prete – Genova

NOTE

1 Purtroppo la Liturgia non sceglie come per i Sinottici una lettura quasi continua, ma si salta da una parte all’altra, privilegiando le esigenze liturgiche, cioè tematiche, più che la lettura organica e continua del Vangelo. Viene il sospetto che il liturgista usi la Parola di Dio in modo strumentale, in funzione della brevità del rito e della comprensione edificante dei brani, non della loro natura nel loro contesto, con il rischio di vanificarne il messaggio salvifico, a vantaggio di una visione moralistica della liturgia. Ci auguriamo che una prossima riforma del lezionario possa ripensare la distribuzione dei testi tenendo conto delle esigenze dell’esegesi e della struttura del testo nel suo contesto, prossimo e remoto.

2 La storia della Chiesa abbonda di casi simili, anzi essi ne costituiscono la trama: in vita i profeti sono martoriati, tartassati, vilipesi, denigrati, emarginati e fatti morire. Poi il tempo si assume l’onere di fare vedere le loro idee e le loro proposte, fatte proprie dal magistero, che le fa sue senza fare una piega, come se niente fosse avvenuto. Anzi, dopo qualche tempo dalla morte di coloro che sono stati condannati (forse per essere sicuri che siano veramente morti), comincia subito la corsa della chiesa istituzionale all’annessione sia delle persone che del pensiero, magari stravolgendone l’interpretazione storica: don Primo Mazzolari o don Lorenzo Milani, per fare due soli nome, da disobbediente, eretico e predicatore pericoloso, oggi è presentato dalla gerarchia ufficiale come un modello di prete obbediente.

3 Nell’omelia sul vangelo del «pastore bello» (Gv 10,1-8) della 4a domenica dopo Pasqua dell’anno B (2006), in occasione dell’ordinazione di alcuni sacerdoti in San Pietro, papa Benedetto XVI ha avuto parole dure contro il carrierismo ecclesiastico, molto diffuso e praticato: «“Chi … sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” (Gv 10, 1). La parola “sale” evoca l’immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. “Salire” – si può qui vedere anche l’immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare “in alto”, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l’immagine dell’uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l’immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l’umile servizio di Gesù Cristo» (L’Osservatore Romano n. 107 [8-9 maggio 2006], 1.4-5).

4 Lo scritto, il più antico catechismo cristiano, è databile intorno alla metà del sec. I d.C., ed è quindi uno tra i primi scritti cristiani. La Lettera di Barnaba (97 d.C., epoca del vangelo di Giovanni), infatti, la conosce e ne riporta interi brani.

5 Cf La liturgia della domenica 4a del tempo pasquale-B, in cui abbiamo presentato tutte le formule «Io-Sono».

6 Anche la comunità di Qumran, contemporanea di Gesù, usa l’allegoria botanica: «il consiglio della comunità sarà stabilito… come una pianta eterna» (1QS, VIII,5). Nelle solennità che si svolgevano nel Tempio di Gerusalemme (escluso il giorno di Yom Kippur/Giorno dell’Espiazione, che prevede vestimenti semplificati e di lino), il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi con paramenti sacerdotali altamente simbolici: sul turbante bianco portava una vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele, sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d’Israele e sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti in forma alternata un melograno e un campanello [in tutto 72], simbolo dei popoli che abitavano la terra (Es 28,1-43; Sir 45,7-14). La liturgia nel Tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). La Bibbia CEI (2008) circa i campanelli annota: «Traccia di una concezione primitiva largamente diffusa, secondo la quale il tintinnio dei campanelli allontanava i demòni» (nota a Es 28,35).

7 Il Testo così continua: «E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. I venti infatti usciranno davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli tornerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un'unica assemblea di un'unica intelligenza, e le prime gioiranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3-XXX,5, traduzione di P. Bettiolo, in P. Sacchi, a cura di, Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).



Giovedě 03 Maggio,2012 Ore: 09:05
 
 
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