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www.ildialogo.org Domenica 8a del tempo ordinario – A - 27 febbraio 2011,di Paolo Farinella, prete

Domenica 8a del tempo ordinario – A - 27 febbraio 2011

di Paolo Farinella, prete

In questa domenica 8a del tempo ordinario-A, su invito del salmista «versiamo il nostro cuore davanti a lui» (cf Sal 62/61,9)[1]1Cr 29,10; Is 63,16[2x]; 64,7), vissuto appunto a Babilonia al tempo dell’editto di liberazione di Ciro. Il motivo è semplice: Dio è immaginato come una autorità terrena ingigantita alla quale si deve rispetto (timore e tremore: cf Sal 2,11; 55/54,6). : testo ebraico) per realizzare il sogno di Paolo: conoscere intimamente e amministrare «il mistero di Dio» (1Cor 4,1) che non segnala qualcosa di segreto, ma la natura stessa del Dio che in Gesù Cristo ha manifestato tutto di sé, presentandosi come «Padre nostro» (cf Mt 6,9). C’è una sottile tessitura tra tutti i testi che la liturgia oggi propone al nostro ascolto orante e alla nostra riflessione interiore. Nell’AT, l’idea di Dio Padre è tardiva, di epoca esilica e la troviamo nelle Cronache e nel Secondo-Isaia (
Lo stesso profeta, il Secondo-Isaia già nel sec. VI a.C., si spinge oltre ogni immaginazione e osa paragonare Dio ad «una madre». Tanta strada è stata fatta dal tempo dell’esodo, quando il popolo doveva stare lontano addirittura dalle falde della montagna da cui parlava Dio, pena la morte (cf Es 19,12-13). In seguito il profeta Osea si spinse un poco oltre e arrivò a paragonare Dio ad un marito geloso della sua sposa, Israele, che tenta in ogni modo di recuperarla all’amore delle origini (cf Os 2,4; 3,1). Paragonare Dio ad «una madre» è fuori di ogni logica religiosa del tempo, sia perché la donna non ha alcun valore ed è mera proprietà dell’uomo, sia perché giuridicamente è un paragone inconsistente, dal momento che la donna non può nemmeno testimoniare in tribunale.
Il paragone è un azzardo, anche se è fatto in forma indiretta: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Nonostante ciò è un messaggio travolgente che dà un volto al Dio che invece la religione nasconde dietro i riti anonimi alienanti. Si intravede un Dio «con il grembo», che tesse la vita e si commuove con e per essa. Il profeta per esprimere il concetto di «commozione» utilizzato impropriamente dalla traduzione, usa il termine «rachàm/rèchem – scuotersi nell’utero/utero», che richiama il travaglio della partoriente e quindi quel legame insuperabile tra madre e figlio che nulla potrà mai spezzare o infrangere.
Il profeta parla al suo popolo oppresso e per non farsi scoprire dagli oppressori parla in codice, usando immagini comuni che apparentemente non destano sospetto: nemmeno il più feroce assassino potrà mai pensare che una madre possa abbandonare il suo figlio. Per gli Ebrei schiavi in terra straniera però arrivava un messaggio di speranza e di attesa: anche in terra pagana, nella terra del dolore e dell’espiazione Dio era fedele non perché il popolo è diventato più buono o si è impegnato, ma perché Dio è fedele a se stesso: l’amore unico di Dio per Israele poggia sulla natura stessa di Dio che è un padre/madre a perdere a prescindere dalle risposte dei figli.
Il Secondo Isaia si inserisce in questa tradizione profetica e riprende il tema dell’amore fedele che recupera sempre la moglie prostituita o il figlio degenere[2]. Guardando l’agire di Dio nei tempi passati, noi possiamo prevedere quale sarà il comportamento suo nel futuro: padre e di madre ieri, oggi e per sempre.
Paolo nella 2a lettura deve rintuzzare l’atteggiamento dei Corinzi, la comunità molto cara all’apostolo, ma anche quella che lo ha fatto soffrire più di ogni altra. I Corinzi avevano la tendenza a ridurre il vangelo in «progetti culturali», quasi fosse una filosofia da valutare a confronto con altre. Essi erano ferrati nel ragionamento e nei discorsi dialettici: non erano forse Greci figli del grande pensiero che aveva segnato in modo impressionante il mondo di allora per secoli e secoli. I Corinzi correvano un rischio: trasformare il messaggio di Paolo che è una Persona viva, cioè il Signore Gesù crocifisso e risorto, in «un sistema di valori» religiosi con cui competere con altre «sapienze» del mondo.
Il vangelo, che dal punto di vista esegetico esamineremo nell’omelia, ci offre materia per riflettere sul tema, ieri come oggi, determinate della fede come scelta. In termini teologici si parla di «opzione di fede» perché si intende non un modo di essere religiosi, ma un impegno ad essere e vivere da persone che hanno incontrato e sperimentato Dio. E’ evidente che il paradosso di non angustiarsi per le necessità di sopravvivenza, ma di impegnarsi nella ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia (cf vangelo odierno e Mc 2,18-22) è uno scossone alla tranquillo andazzo di una religione del «dovere» che si esaurisce nel momento stesso in cui si compie.
Di fronte ad affermazioni dure e aspre come quelle che la liturgia di queste domeniche ci propone, siamo spesso tentati di dire che «sono esagerazioni»: come si fa a porgere l’altra guancia, oggi? come è possibile non preoccuparsi di mangiare e bere e vestire e guardare gli uccelli del cielo? Non bisogna prendere l’insegnamento di Gesù alla lettera (salvo quando fa comodo) perché altrimenti diventa un vangelo sovversivo e pericoloso. E’ questo l’atteggiamento di molti che vogliono un vangelo «contestualizzato» nella cultura e nel perbenismo del proprio tempo; essi esigono una religione da pratica, magari non troppo, non una fede esigente in chiave etica e sociale: una fede incarnata come l’autore stesso che l’ha portata.
Quelli che si vogliono chiamare paradossi evangelici, sono invece inviti a leggere la realtà in modo più profondo e meno superficiale; e anche la spinta ad andare oltre l’ovvio in cui ci trattiene la nostra natura pigra. L’invito a cercare il Regno di Dio e la sua giustizia prima di essere una serie di regole e di comportamenti è un orizzonte che sfugge ad ogni calcolo. Si potrebbe dire che Gesù con queste parole invita potentemente ad «osare» l’Utopia, ad uscire dagli schemi di ordinaria vita per entrare in una prospettiva che si intuisce e di cui non si consoce lo sviluppo e l’esito. Cercare il Regno e la giustizia significa fare un salto nel buio luminoso affidandosi alle ali della Parola senza calcoli e senza distinguo.
L’uomo primitivo che si sente schiacciato dalle forze della natura, istintivamente di apre al soprannaturale per la paura della sua impotenza; nasce la religione della dipendenza e del ricatto: l’uomo «compra» la divinità in cambio di un culto «consacrato» in spazi e tempi sacri. Le offerte di ciò che l’uomo produce è lo strumento del contratto: fatta l’offerta l’uomo entra in un sistema protettivo di sicurezza perché ora è Dio che si fa garante. In una fase successiva l’uomo scopre le regole della convivenza che si traducono in norme di vita morale come fedeltà alla propria storia e ai propri antenati: si mantiene la memoria di essi attraverso le regole e le norme etiche che tendono a rimare sempre le stesse come i riti cultuali. Per porre una sicurezza ancora maggiore, il passaggio dalla storia alla teologia è facile: Dio è presupposto come fondamento dell’agire etico dell’uomo. In questo modo attraverso le proprie scelte morali che diventano norme di vita che si innestano in ordine universale e anche cosmico, l’uomo/l’umanità si sentono e si sperimentano come parte di un tutto, come segmenti di una «creazione» più grande e che contiene ogni singolo «particolare». Uscire da questo ordine è il male e il peccato, restare dentro i confini del sistema è essere felici e avere una prospettiva di prosperità. La caratteristica che si esige è naturalmente la fedeltà: a se stessi, al gruppo, alla natura, a Dio.
Con l’avvento di Israele nello scenario del Medio Oriente s’innesca un processo di interiorizzazione che trasforma quella che abbiamo chiamato «opzione di fede». Un dato distingue Israele da tutti gli altri popoli: questi hanno paura degli avvenimenti da cui chiedono di essere salvati attraverso riti e offerte; Israele ha vissuto gli eventi della sua esistenza come «luogo» privilegiato della sollecitudine del Dio dei padri. Yhwh è intervenuto «nella» schiavitù d’Egitto; era in mezzo al Mare Rosso a smistare il traffico tra Ebrei ed Egiziani: salvezza per gli uni, morte per gli altri. Israele sa che la sua sicurezza non sta nel rito, ma nella relazione con Dio che previene sempre le richieste del suo popolo. Dio però non vuole che il popolo eletto si adagi in una passività attendista perché «Dio può e fa tutto»: egli esige la presenza e l’impegno dell’uomo che si formalizzano nel «Patto dell’alleanza» che sancisce la reciprocità affettiva e vitale, fondata sulla fedeltà alla parola data. Questa fedeltà costruita sulla parola esige sempre di più una interiorizzazione del rapporto di fede che si compirà solo con l’avvento di Cristo, il solo che è diventato «Parola egli stesso» (cf Gv 1,14: «Il Lògos carne fu fatto»).
La fede come scelta e come opzione di vita ha segnato la vita di Gesù che si snoda dal «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49) all’abbandono totale nella volontà del Padre: «Padre … si compia la tua volontà … nelle tue mani consegno il mio spirito» (Mt 26,42; Lc 23,46). Tra questi due pilastri la vita di Gesù è una continua ricerca del volto del Padre, un crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52). «Cresceva» significa che non si può credere una volta per sempre, ma che la scelta di fede è un esercizio quotidiano che chiama all’appello l’amore come criterio fondante della ricerca che a sua volta impegna la responsabilità di ciascuno sul versante della missione di testimonianza di trasformazione della creazione perché diventi per davvero la casa di tutti e non solo il palazzo di qualcuno.
Celebrare l’Eucaristia non è pertanto, alla luce di quanto sopra abbiamo detto, un rito con cui compriamo un pezzo di divinità, ma l’avvenimento chiave dove Dio impegna la sua Parola, cioè se stesso ed esige che anche noi diventiamo il pane che presentiamo per spezzare con l’umanità intera la promessa della speranza del Regno. Se abbiamo in comune l’esito finale che è il Regno di Dio, non possiamo non condividere gli strumenti materiali che ci aiutano a raggiungere l’obiettivo come il sapere, la cultura, il pane, il lavoro, la terra, il benessere, le gioie e i dolori, le aspirazioni e anche i fallimenti. Celebrare l’Eucaristia è immergersi nella storia che diventa il luogo privilegiato in cui sprofonda per farci emergere risorti e degni della «nuova alleanza». Entriamo dunque nel cuore di Dio, facendo nostre le parole del salmista nell’antifona d’ingresso (Sal 17, 19-20):Il Signore fu il mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene.
 
Spirito Santo, tu sei il Consolatore del Padre che non abbandona mai i suoi figli,     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il sigillo della paternità di Dio che si commuove per la Chiesa,             Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la tenerezza della maternità di Dio che non ci abbandona mai, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il santo Riposo di Dio dove troviamo rifugio, difesa e salvezza,           Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la rupe della salvezza e la roccia della difesa che non fa vacillare,       Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu che abiti in noi riversi i nostri cuori nel cuore santo della Trinità,  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la Fortezza di Dio che ci genera nella fedeltà al Signore Gesù, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’Amministratore fedele che custodisce in noi il mistero di Dio,            Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei ci prepari nell’attesa fino a quando il Signore verrà come giudice,        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la Verità del Padre che svela i segreti e le intenzioni del cuore,             Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il Maestro che ci insegna come obbedire a Dio e non Mammona,         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sconfiggi le nostre preoccupazioni perché sei nostro nutrimento,  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu nutri gli uccelli del cielo che non mietono né ammassano nei granai,         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu vesti i gigli del campo di bellezza più che Salomone nella sua reggia,        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il nostro oggi e il nostro domani: ci basta la tua Presenza amabile,        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il centuplo del Padre e del Figlio per chi cerca il Regno di Dio,             Veni, Sancte Spiritus!
 
«Nessuno può servire due padroni» (Mt 6,24). Sembra un’affermazione banale, invece è rivoluzionaria, specialmente in un tempo cui molti non si accontentano di un solo padrone, ma si prostituiscono come schiavi di molti tiranni. Si direbbe che oggi dentro e fuori la Chiesa abbondino gli schiavi e scarseggino i padroni. Si cerca un protettore per fare carriera, nella Chiesa e nel mondo, negli affari e in politica. Il prezzo da pagare è alto: rinunciare al proprio pensiero libero, alla propria dignità e, in ultimo, alla propria coscienza. Gesù ha annunciato il regno di Dio, «regno di verità e di libertà, di giustizia e di pace» (cf Canone V/c), mentre molti uomini e molte donne si affannano a costruire prigioni di schiavitù, luoghi di ingiustizia e sistemi di sfruttamento. Non possiamo abdicare alla nostra coscienza che non è sul mercato perché chi crede in Dio non «può servire due padroni». Siamo nati liberi e da figli liberi vogliamo vivere, a testa alta e con la schiena dritta. Segnandoci con il segno trinitario della croce, noi affermiamo, anzi professiamo che il Signore è l’unico Signore davanti al quale vogliamo inginocchiarci per essere nutriti della dignità di figli di Dio. Lo facciamo invocando la Trinità:
 

(greco)[3]
Èis to ònoma
toû Patròs
kài Hiuiû
kài toû Hagìu Pnèumatos
Amèn.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e del Santo Spirito

 
Esaminiamo la nostra coscienza e verifichiamo la profondità della nostra libertà, consapevoli della Parola dell’apostolo Paolo che «Cristo ci ha liberati per la libertà!» e ci ha donato il suo Spirito per non lasciarci imporre di nuovo il giogo della schiavitù (cf Gal 5,1).  Se abbiamo fatto compromessi svendendo la nostra dignità, non abbiamo paura perché il perdono di Dio è la leva che ristabilisce la verità dentro di noi. Invochiamo la misericordia di Dio per noi, per la Chiesa e per tutti gli uomini e le donne del mondo.
 
[Esame di coscienza. Pausa prolungata per dare all’anima il tempo di riflettersi
 
Signore, ci hai creati e redenti per la tua gloria, a volte ci svendiamo per vanità,                  Kyrie, elèison!
Cristo, hai resistito alla tentazione della ricchezza, preferendo la volontà del Padre,            Christe, elèison!
Signore            , per tutte le volte che abbiamo accettato di essere schiavi di qualche padrone,        Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente, creatore dell’uomo e della donna invece dell’obbedienza filiale hanno cercato l’appariscenza della schiavitù del serpente; che ci chiama amici e non servi; che si fa nostro servo per lavarci i piedi affinché impariamo ad essere liberi nel cuore e nelle intenzioni; Dio che ci ha liberato dalla schiavitù del faraone per donarci la libertà della Legge; per i meriti del Signore Gesù, dei profeti e dei santi apostoli, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente [breve pausa 1-2-3]
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo:  [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta).
Padre santo, che vedi e provvedi a tutte le creature, sostienici con la forza del tuo Spirito, perché in mezzo alle fatiche e alle preoccupazioni di ogni giorno non ci lasciamo dominare dall’avidità e dall’egoismo, ma operiamo con piena fiducia per la libertà e la giustizia del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Amen.


MENSA DELLA PAROLA
Prima lettura Is 49,14-15. Il brano della1a lettura appartiene al «Secondo Isaia», un discepolo del grande profeta, vissuto nel sec. VIII, e di cui sviluppa il messaggio, due secoli dopo, in esilio a Babilonia. L’anno di riferimento potrebbe essere il 550ca. a.C. Gli eventi fanno presagire la fine dell’impero babilonese e nell’aria si respira aria di libertà, come di fatto avverrà con l’editto del 538 con cui Ciro rilascia gli esiliati che così possono ritornare a Gerusalemme. Il profeta si rivolge ai suoi connazionali esiliati in termini simbolici per non destare sospetti nei Babilonesi che potrebbero ancora ricredersi. Paragonare Dio ad una madre che non può abbandonare il proprio bambino è una immagine talmente universale che nessuno degli oppressori potrebbe leggervi un invito a sperare nella liberazione vicina e quindi l’incoraggiamento a tenersi pronti. Chi non conosce la Scrittura non può immaginare che dietro questa immagine c’è la cura di Dio che viene di nuovo a prendere le difese del suo popolo come fece in Egitto contro il faraone. Dio-Madre porta in sé il vangelo di liberazione che prepara un nuovo esodo, forse ancora più strepitoso del primo. Noi non abbiamo più bisogno di un «Ciro» che ci liberi, perché siamo convocati alla mensa dell’Eucaristia a celebrare la liberazione di tutti i popoli e a proclamare che tutti i popoli e tutti gli individui hanno diritto di essere liberi.
 
Dal libro del profeta Isaia 49,14-15.
14Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. 15Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 62/61,2-3; 6.8. 9.12.13. Rashì[4] definisce questo salmo come inno degli Israeliti in esilio; in esso si esprime la fiducia cioè l’abbandono totale in Dio, cuore della spiritualità di Israele. Il salmo ha un andamento didattico che riflette sulla malizia degli uomini, sulla fragilità delle creature, sull’illusione delle ricchezze e su Dio giudice giusto e imparziale. Purtroppo la liturgia esclude i versetti più significativi. Al v. 4 (qui assente) l’autore si paragona al muro cadente su cui infieriscono i suoi nemici e a cui il salmista oppone l’immagine di Dio «roccia di difesa» (v. 3 e 7). L’invito del v. 9 «davanti a lui aprite il vostro cuore», in ebraico suona «versate il vostro cuore davanti al suo volto» (cf Lm 2,19) che è immagine più forte e più bella. Nell’Eucaristia noi versiamo il nostro cuore con le sue attese, desideri e angosce e raccogliamo la forza del perdono e dello Spirito che la Parola, il Pane e il Vino hanno in abbondanza. Nessuno può permettersi di disperare perché Dio non abbandona mai coloro che ha creato e redento[5].
 
Rit. In te, Signore, confido e mi rifugio.

1. 2Solo in Dio riposa l’anima mia;
da lui la mia salvezza.
3Lui solo è mia rupe e mia salvezza,
mia roccia di difesa: non potrò vacillare. Rit.
8 In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
il mio riparo sicuro,il mio rifugio e in Dio. Rit.
3. 9Confida in lui, o popolo, in ogni tempo;
davanti a lui aprite il vostro cuore:
2. 6Solo in Dio riposa l’anima mia:
da lui la mia speranza.
12La forza appartiene a Dio,
13tua è la fedeltà, Signore. Rit.

 
Seconda lettura 1Cor 4,1-5. La chiesa di Corinto si era aperta al vangelo, ma con esso si era anche imbevuta delle idee tra le più disparate dei predicatori fino al punto da frantumarsi in partiti e clan. Quando la Parola di Dio diventa pretesto per veicolare il proprio pensiero, la si usa senza lasciarsene penetrare. Il messaggio del vangelo cammina sulle parole e con le idee di chi lo proclama. Se questi è un servo fedele e ha coscienza di essere stato chiamato non per le sue qualità, ma il bene della comunità, lascerà passare il volto di Dio, impedendo che ci si fermi alla sua persona. Se invece ha mire personali e scopi reconditi, egli userà la Parola, l’addomesticherà fino a violentarla per piegarla alla propria ideologia. San Paolo afferma che gli apostoli sono solo garanti: «servi di Cristo e amministratori del mistero di Dio» (v. 1)[6] perché convocati a custodire il popolo di Dio in attesa del ritorno del Signore (cf Mt 24,45-51; 25,14-30; 20,24-28). Con parole moderne si potrebbe dire che chi annuncia il vangelo deve essere onesto e non deve contrabbandare idee proprie facendole passare per Parola di Dio e nello stesso tempo deve essere così libero e coerente da lasciarsi impregnare dalla Parola che annuncia perché proclamare il vangelo è adempire un compito profetico.
 
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 1Cor 4,1-5.
Fratelli e Sorelle, 1ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. 3A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, 4perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! 5Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode. - Parola di Dio.
 
Vangelo Mt 6,24-34Anche il brano che segue non pare bene collocata in questo punto del «discorso del monte», mentre potrebbe stare meglio a conclusione della parabola del ricco stolto che ammassa nei granai, ma muore nella stessa notte, come avviene in Lc (cf Lc 12,16-20) che mette in luce una antitesi tra «l’affanno» del ricco e la «libertà/distacco» degli uccelli del cielo. Mt inserisce le sentenze di Gesù sulla ricchezza e sugli uccelli alla impossibilità di servire «due padroni»: Dio è mammona (termine aramaico che significa ricchezza). Nel contesto delle beatitudini questa espressione acquista una durezza intransigente che certamente non era nelle intenzioni di Gesù. Due insegnamenti derivano da queste parole: non si può tenere il piede in due staffe (v. 24) e non si può vivere con affanno (vv. 25-33). L’Eucaristia che celebriamo ha questo compito: liberarci dalla doppiezza e dalle cause dell’ansia perché ci nutre con una Parola che diventa Pane che è quotidiano, giorno dopo giorno. Ritrovando all’altare la prospettiva della vita, torniamo alla vita liberi per noi e liberanti per gli altri che incontriamo.
 
Canto al Vangelo cf Gv 15,15
Alleluia.lo vi ho chiamato amici, dice il Signore, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Matteo 6,24-34.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «24Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Il brano del vangelo di oggi segue immediatamente le due sentenze della luce e del sale (cf Mt 6,19-23) che abbiamo esaminato domenica scorsa, quasi a volere fare una esemplificazione concreta di che cosa significhi essere luminosi ed essere salati. La nuova versione della Bibbia-Cei (2008) pone questi versetti sotto il titolo «Libertà dalle preoccupazioni materiali» (cf a. l.) riducendone l’effetto dirompente e antitetico. Nelle sezioni precedenti, le antitesi erano all’interno della tradizione giudaica, ora Gesù si sposta su una contrapposizione più generale, ma non per questo meno forte: da una parte c’è Dio dall’altra la ricchezza. L’evangelista usa un termine aramaico: «Mammona» che propriamente significa «proprietà» e quindi per derivazione «ricchezza». In tutto il brano l’autore usa per sei volte il verbo «merimnàō» - mi affanno/mi preoccupo» (cf Mt 6,25.27.28.31) per dire di porre molta attenzione perché l’insegnamento è decisivo.
L’invito ad essere liberi e ad avere fiducia in Dio che non abbandona mai alcuno al suo destino non si trova al suo posto qui dove lo colloca Mt, ma starebbe meglio alla fine della parabola del ricco che sogna di ingrandire i suoi granai e ammassare ricchezze senza alcun risvolto sociale, ma fa male i conti con il suo tempo, perché nella notte la morte giunge come un ladro e gli rapisce la vita, distruggendo ogni velleità di accumulo (cf Lc 12,16-21; Sir 11,18-19). A questa parabola, esclusiva di Lc, nel terzo vangelo segue l’invito al distacco dai beni materiali, illustrato con le metafore dei corvi/uccelli del cielo e degli anemoni/gigli del campo che non hanno merito né per la loro sussistenza né per la loro bellezza che supera anche quella regale di Salomon e (cf Lc 12,22-31). La versione di Lc è molto più vicina all’insegnamento di Gesù che probabilmente ha messo in contrapposizione (antitesi) l’affanno/preoccupazione del ricco e il distacco/ab-bandono vissuto dagli uccelli del cielo che mangiano anche se non seminano e dei gigli anche se non hanno sartorie personali.
Mt, come spesso è suo solito, si sposta su un piano morale e porta il distacco a livello di scelta etica a riguardo della sentenza generale che non si possono servire due padroni. Nella vita di fede come in quella etica non possono coesister compromessi e conflitti di interessi perché la via più semplice è sempre la linea retta, non quella curva o spezzata o tortuosa. E’ un principio geometrico: la distanza più breve tra due punti è sempre la linea retta. Spesso ad ogni livello di esistenza, gli uomini hanno davanti a sé le soluzioni meno costose e più lineari, ma sentono l’esigenza impellente di complicare la vita, aggrovigliandola come una matassa arrotolata a casaccio e ci riescono benissimo, consumando energie e sprecando tempo.
L’insegnamento sulla ricchezza come impedimento all’incontro con Dio, è messa da Mt qui senza un ordine preciso: al discorso della montagna fa seguire una serie di insegnamenti diversi con cui vuole sottolineare lo stesso insegnamento: nessun aspetto della vita può essere sottratto dalla prospettiva evangelica che nelle beatitudini trova la chiave di lettura.
Due sono gli insegnamenti che derivano da questo brano evangelico: da una parte l’impossibilità naturale di servire contemporaneamente due padroni (cf Mt 6,24) e l’atteggiamento del credente di fronte all’affanno/preoccupazioni che la vita comporta (cf Mt 6,25-33). Il primo insegnamento è rivolto ai ricchi che per loro natura sono portati al compromesso con chiunque in nome della ricchezza che spesso diventa un idolo difficile da controllare, come si evidenza da Lc che, come abbiamo visto, colloca l’insegnamento nel contesto di una logica da ricchi (cf Lc 16,1-9 e 13-15). Il secondo insegnamento invece è rivolto chiaramente ai poveri che devono affaticarsi per giungere al tramonto del sole preoccupandosi di trovare il necessario per la famiglia e i figli. Chi non arriva non solo alla fine del mese, ma anche alla fine della giornata è più esposto nella perdita della libertà interiore perché tutto dedito a risolvere la soddisfazione dei bisogni primari che ogni giorno pongono problemi sempre nuovi.
Già qui si può fare una prima applicazione generale che segna il nostro tempo e deve interessare sia le politiche governative sia la pastorale della Chiesa. Le nuove generazioni sempre di più sono condannate ad un lavoro precario che significa instabile perché nessun lavoro sembra più sicuro. Se la precarietà di lavoro è un momento temporaneo, può essere anche di stimolo a cercare condizioni sempre migliori affinché ciascuno possa realizzarsi in un lavoro corrispondente alle proprie qualità e aspirazioni. Se però la precarietà è una condizione stabile e permanete è un delitto contro l’umanità perché l’economia abdica alla sua natura sociale e crea nuovi schiavi, liberi di accettare condizioni inumane che impediscono di fatto e in diritto la dignità del lavoratore/impiegato e delle rispettive famiglie.
Può anche succedere che la precarietà lavorativa possa essere anche una scelta pregiudiziale e programmatica delle politiche governative non democratiche per costringere larghe masse di giovani lavoratori a impegnare la propria esistenza a cercare lavoro, sottraendo tutto il tempo per impedire di dedicarsi alla realizzazione della pienezza della vita che si esprime in cultura, volontariato, politica, tempo libero, relazioni, impegni sociali e spiritualità. In questo caso si compiono due delitti: uno di natura giuridica perché il lavoro è un diritto primario e non una pia concessione di chi governa, come prescrive e impegna l’art. 1 della Costituzione italiana: «L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro» e che significa che se viene meno il lavoro viene meno il fondamento stesso della repubblica e con essa della società. L’obiettivo primario di qualsiasi governo dovrebbe essere invece sempre quello di creare le condizioni perché tutti abbiano un lavoro, per quanto possibile, adeguato alle proprie aspirazioni e condizioni; un lavoro che a sua volta ponga le basi per uno sviluppo della personalità in vista della crescita armonica della comunità civile dove si è chiamati a vivere. Nessuno è chiuso in se stesso, o, come descrive il grande monaco Thomas Merton nella sua famosa opera dall’omonimo titolo «Nessun uomo è un’isola»[7]
Sia l’insegnamento rivolto ai ricchi sia quello rivolto ai poveri in questo brano di vangelo ha una matrice unitaria: tutti devono considerare come fondamentale l’aspirazione al regno di Dio che deve diventare la chiave di interpretazione e il criterio di valutazione sia della ricchezza che della preoccupazione. Se il regno di Dio è il loro criterio di vita, i ricchi vivranno la ricchezza che producono come uno strumento di collaborazione con Dio creatore e quindi daranno istintivamente una valenza sociale ai loro patrimoni e strumenti di produzione, dando così corpo, da un punto di vista della civiltà, al principio altamente spirituale tradotto in una norma giuridica fondamentale come è stabilito nell’art. 41 della Costituzione italiana:
 
«L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché‚ l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
 
Da parte loro i poveri, se hanno come criterio della loro vita il regno di Dio, non solo avranno sempre più coscienza di essere i «beati» del discorso della montagna, ma sapranno essere uno stimolo pungente all’interno della comunità credente perché il principio della condivisione in nome della fraternità e per conto della paternità sia realmente vissuto e praticato, altrimenti essere religiosi vuol dire soltanto avere una patina di vernice senza smalto e per giunta opaca. Una religiosità che s’immerge nella storia del proprio tempo e non si fa carico dei pesi reciproci (cf Ef 2,1) è una religione senza fede ripudiata da Dio e inutile per gli uomini:
«11”Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? - dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità.14 Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”» (cf Is 1,11-17).
 
            Credere in Dio non è un palliativo o una coreografia che si veste nel giorno di festa, ma è una prospettiva di vita realizzata attraverso scelte e dinamiche che coinvolgono tutti gli aspetti dell’esistenza: il credente non vive a compartimenti stagno, un po’ crede e un po’ non crede; in un ambiente è credente e nell’altro è non credente, come purtroppo avviene nel regime di religiosità. L’uomo religioso assume l’habitus proprio in luoghi e spazi sacri ben delimitati, all’interno dei quali al «dio» di riferimento si concede autorità; fuori di essi però l’uomo religioso, come ha bene descritto Isaia nel testo sopra riportato, si sente sciolto da qualsiasi obbligo etico. Tradotto in termini moderni: quando si è in chiesa siamo credente, quando siamo fuori, possiamo fare gli affari nostri, indipendentemente da Dio e dalla religione. Di fronte a scelte incompatibili con l’asserita religiosità «a parcella», non è rado sentire rispondere: «Cosa c’entra la religione con tutto questo?».
            Per evitare la sceneggiata della religiosità di facciata, avulsa dalla fede, bisogna partire dalla Scrittura che pone le condizioni per una rettitudine del credere. Tutto ha inizio con l’esodo, quando Dio interviene a liberare il popolo schiavo di un potere oppressivo: libera dalla schiavitù con la prospettiva del «servizio». Non si è più schiavi, ma si diventa «servi»: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). Il termine «servo» nella Bibbia è un termine onorifico, un titolo nobile che si dà al plenipotenziario che rappresenta il proprio re[8] con il quale il «servo» ha una intima comunione di vita e di impegno. Per questo «servire» Dio non ammette compromessi o divisioni: non si può essere allo stesso tempo ambasciatore di uno e contemporaneamente essere plenipotenziario di un altro che magari configgono. Solo gli opportunisti, le spie e gli avventori si vendono al primo offerente.
Il libro del Deuteronomio impone un «servizio» indivisibile a Dio: «Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,13; cf 10,20; 11,13) perché impegna anche il «Nome», cioè la natura stessa di Dio. Vivere questa dimensione significa acquisire una libertà interiore tale da fare giudicare e valutare insignificanti tutti gli attaccamenti che il mondo può sventolare come miraggio per distrarre da servizio e da Dio, come ben sa l’amante di «donna Sapienza»:
«9Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti. Anche questo è vanità. 10Con il crescere delle ricchezze aumentano i profittatori e quale soddisfazione ne riceve il padrone se non di vederle con gli occhi? 11Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire. 12Un altro brutto guaio ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a suo danno. 13Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. 14Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. 15Anche questo è un brutto guaio: che se ne vada proprio come è venuto. Quale profitto ricava dall'avere gettato le sue fatiche al vento? 16Tutti i giorni della sua vita li ha passati nell’oscurità, fra molti fastidi, malanni e crucci» (Qo 5,9-16; cf anche 1Tm 6,10).
 
E’ evidente che quando si parla di distacco in contesti simili, non si tratta di «rinunce», ma di scelte diverse che tengono conto di parametri differenti: se Dio veglia amorevolmente sugli uccelli del cielo e sui fiori spontanei dei campi, realtà vitali in se stesse abbastanza insignificanti, quanto più deve preoccuparsi – lui sì! – dei suoi figli che, tra l’altro aiutano la creazione a svilupparsi secondo il piano originario di Dio! Gesù invitando a guardare gli uccellini del cielo o la bellezza multiforme dei fiori campestri, non invita gli uomini alla spensieratezza perché non dice di essere «come gli uccelli», ma li aiuta a non essere oppressi dall’affanno e dalle preoccupazioni in vista di dedicarsi al «servizio» del Regno di Dio (cf Mt 6,31-33).
            Per dare forza al proprio invito, Gesù accenna a Dio «Padre», ponendo così sia la ricerca del Regno sia la libertà dagli affanni e dalle angosce di vivere in un clima di affettività reale: dove c’è un padre c’è anche un figlio. Non è però sufficiente attaccarsi alla «paternità» di Dio, perché bisogna anche cercare «la sua giustizia» (Mt 6,33; 5,6.10). L’inserzione del tema della giustizia che ricorre ben tre volte nel discorso della montagna serve per impedire che la fede diventi una religiosità di convenienza a buon mercato e nello stesso tempo garantisce che solo l’esercizio della «giustizia» è un antidoto all’affanno e alle preoccupazioni. «Cercare la giustizia» ha il senso profetico di condivisione con chi non ha mezzi di sussistenza: «imparate a fare il bene, cercate la giustizia» che significa concretamente e storicamente: «soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,17; v. testo completo sopra). D’altra parte, sempre in senso profetico,«cercare la giustizia» è sinonimo di «cercare il Signore» per cui troviamo qui l’assimilazione previa tra amare Dio e amare il prossimo che Gv metterà in evidenza con forza e senza equivoci: «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21)[9]
            Il capitolo 6 del vangelo di Mt è uno dei primi in cui compare il riferimento alla paternità di Dio e siccome è un messaggio importante nell’economia dell’intera rivelazione neotestamentaria, è decisivo capire qual è il senso che intendono sia Gesù che l’evangelista[10]. Su questo termine «padre» spesso si fa molta confusione fino a contrapporre il NT con l’AT, affermando che la caratteristica di affettività insita nella parola «padre» sia esclusiva del primo e quasi assente nel secondo, compiendo così un altro illecito indebito a danno della Bibbia ebraica[11]. Il tema della paternità non è primario nell’AT e nel Giudaismo (cf Es 4,22-23; Is 45,10; 63,16; Ger 4,22; Mt 1,21, ecc.). Mai l’AT si riferisce alla paternità di Dio come equivalente di Dio come creatore, e non si troverà mai una connessione tematica tra «creazione» e paternità» escludendo così una riflessione di natura salvifica che metta in rilievo le caratteristiche quindi di, di forza e autorità sollecite. Al contrario vi è una abbondante letteratura dove la «paternità» compare per descrivere i rapporti di natura personale ed etica tra Dio e il suo popolo, mettendo in evidenza la qualità di tenerezza e di sollecitudine del primo verso il secondo (cf Os 11,1; Dt 1,31; Ger 3,19-22; 31,9-20; Sal 68/67,6; 103/102, ecc.) e nella maggior parte dei casi questo richiamo si trova nei Salmi, cioè nell’afflato romantico e intimo della preghiera.
Anche Mt in generale si colloca si questo contesto etico-personalistico perché lega la paternità alla ricerca della perfezione del cristiano (cf Mt 6,1-6.16-18) oppure lo esprime all’interno di formule di preghiera (cf Mt 6,9; 7,7-11; 6,14-15). A differenza della sua linea generale, però nel brano del vangelo odierno, la prospettiva è diversa, cioè si colloca nel contesto della «creazione» e della sollecitudine per essa che ha Dio-creatore (concetto di Provvidenza). Questo idea era già apparsa nell’ultima antitesi del capitolo 5, quando afferma che «Dio fa sorgere il sole sui cattivi e suoi buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). E’ la visione della paternità di Dio collocata non tanto su una riflessione filosofica, quanto piuttosto nell’alveo della storia della salvezza, dove Dio ha manifestato ad Israele la sua sollecitudine nel liberarlo dall’oppressione con lo stesso impegno e potenza con cui ha liberato la vita dal vuoto e dall’informe (cf Gen 1,1-3).
Israele infatti non legge la creazione in chiave cosmologica come fanno i filosofi greci, ma vede le origini dell’universo come la preparazione dello scenario dove avrebbero vissuto i patriarchi per i meriti dei quali avrebbe gli avrebbe dato la Toràh sul monte Sinai. La teologia della creazione è una riflessione retrospettiva: dall’esperienza dell’esodo e dell’esilio si passa alla chiama di Abramo che a sua volta invoca come premessa Adamo. E’ anche lo schema che si trova nella genealogia secondo la versione del terzo evangelo (cf Lc 3,34-38). La creazione è una necessità perché deve nascere il popolo Israele, la sposa del Signore. Non a caso tutta la Scrittura, specialmente i salmi sono intrisi di lode ed esultanza della terra che partecipa alla gioia dell’elezione di Israele (un testo per tutti, cf Sal 103/102). La visione teologica dell’elezione è dominante:
-         Mt 6, 26: l’uomo è definito superiore all’uccello perché capace di servire Dio
-         Mt 6, 30: l’espressione «gente di poca fede» fa riferimento ai discepoli nel loro personale rapporto con Gesù (lo stesso atteggiamento si ha in Mt 8,26; 14,31; 16,8; 17,19).
-         Mt 6, 32: l’atteggiamento del cristiano verso l’affanno è messo in opposizione a quello dei pagani per cui mette in evidenza il criterio della fede e della non/fede.
Da tutte queste sottolineature ne deriva non si tratta ancora di una paternità universale, ma più ridotta e circoscritta nell’ambito della Chiesa nascente che prende coscienza dell’alleanza particolare che Dio ha scelto per dare a coloro che chiama per inviare nel mondo il suo amore e la sua identità. Solo chi ha coscienza della paternità di Dio, vissuta nella dinamica dell’alleanza, può sperare di guardare al mondo con gli occhi di Dio perché estenderà a tutti l’esperienza della figliolanza che ha vissuto nelle trame della storia sperimentata anche come salvezza che si fa storia.
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. [Pausa: 1-2-3]
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale [intenzioni libere]
MENSA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
 
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24),
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte).O Dio, da te provengono questi doni e tu li accetti in segno del nostro servizio sacerdotale: fa’ che l’offerta che ascrivi a nostro merito ci ottenga il premio della gioia eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
 
Il Signore sia con voi.             E con il tuo spirito.  In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.        E’ cosa buona e giusta.
 
E veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Padre santo, per Gesù Cristo, tuo dilettissimo Figlio.
Benedetto nel nome del Signore sei tu, o Cristo, Figlio benedetto e amato dal Padre dall’eternità.
 
Egli è la tua Parola vivente, per mezzo di lui hai creato tutte le cose e lo hai mandato a noi salvatore e redentore, fatto uomo per opera dello Spirito Santo e nato dalla vergine Maria.
Osanna nell’alto dei cieli e pace agli uomini che tu, o Padre, ami di generazione in generazione. Kyrie, elèison; Christe, elèison; Pnèuma, elèison!
 
Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce, morendo distrusse la morte e proclamò la risurrezione.
Santo, Santo, sei tu, Signore, Dio dell’universo: tutta la terra canta la tua gloria. Osanna nei cieli e sulla terra.
 
Per questo mistero di salvezza, uniti agli Angeli e ai Santi, proclamiamo a una sola voce la tua gloria :
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria, perché tu, Signore, sei nostro padre e da sempre ti chiami nostro redentore (cf Is 63,16).
 
Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
Tu, o Signore, Padre e Madre, non abbandoni mai il tuo popolo e non ti dimentichi di lui, perché ti commuovi sempre per Israele, figlio del tuo grembo (Cf Is 49,14-15).
 
Egli, offrendosi alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzo, lo diede ai suoi discepoli, e disse:  PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Pane spezzato per amore, insegnaci la giustizia della misericordia.
Solo in te, o Dio, riposa l’anima nostra; tu sei la nostra salvezza perché ci nutri col Pane disceso dal cielo (cf Sal 62/61,2).
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Tu solo, o Padre, sei la nostra rupe e salvezza, roccia di difesa: mai potremo vacillare perché ci rafforzi con il frutto della vite che esce dal costato del tuo Cristo e nostro Redentore (cf Sal 62/61,3;
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Solo in te, riposa l’anima nostra: tu sei la nostra speranza ( cf Sal 103/102,2.3).
 
MISTERO DELLA FEDE.
Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, attendiamo il tuo ritorno. Pace su Israele, pace sulla Chiesa.
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.
Tu, o Signore, sei nostro giudice e quando verrai svelerai i segreti dei cuori; allora riconosceremo e confessero che tu sei il Signore, nostro Dio, ora e sempre. (cf 1Cor 4, 4-5).
 
Ti preghiamo per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Perché tu hai detto che nessuno può servire due padroni e ci doni lo Spirito del tuo Figlio perché illumini la nostra scelta: O Dio o la ricchezza iniqua (cf Mt 6,24).
 
Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell’amore in unione con il Papa …, il Vescovo…, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare… e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.
Versiamo il nostro cuore nel tuo cuore e non ci preoccupiamo per la nostra vita, del cibo e del vestito, perché noi valiamo più di essi (cf Sal 62/61,9; Mt 6, 25).
 
Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.
Guardiamo gli uccelli del cielo: essi non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai perché tu, Padre materno, li nutri in abbondanza (cf Mt 6,26).
 
Di noi tutti abbi misericordia: donaci di avere parte alla vita eterna, con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.
Osserviamo i gigli del campo che crescono per la tua bontà e provvidenza; neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Tutta la terra ti loda, o Signore (cf Mt 6,28-29).
 
Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,  a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in greco (Mt 6,9-13)
Idealmente riuniti con gli Apostoli della Chiesa delle origini, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro, che sei nei cieli,
Pàter hēmôn, ho en tôis uranôis,
sia santificato il tuo nome,
haghiasthêto to onomàsu,
venga il tuo regno,
elthètō hē basilèiasu,
sia fatta la tua volontà,
genēthêtō to thelēmàsu,
come in cielo così in terra
hōs en uranô kài epì ghês.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
Ton àrton hēmôn tòn epiùsion dòs hēmîn sêmeron,
e rimetti a noi i nostri debiti,
kài àfes hēmîn tà ofeilêmata hēmôn,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
hōs kài hēmêis afêkamen tôis ofeilètais hēmôn
e non abbandonarci alla tentazione,
kài mê esinènkēs hēmâs eis peirasmòn,
ma liberaci dal male.
allà hriûsai hēmâs apò tû ponērû. Amên.

 
Antifona alla comunione Mt 6,33: «Cercate, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
 
Dopo la comunione
Da Gandhi, Antiche come le montagne: «Se amiamo coloro che ci amano, questa non è nonviolenza. Nonviolenza è amare coloro che ci odiano. So quanto sia difficile seguire questa sublime legge dell'amore. Ma le cose grandi e buone non sono tutte difficili? L'amore per il nemico è la più difficile di tutte. Ma con la grazia di Dio anche questa cosa difficilissima diventa facile a farsi, se lo vogliamo».
Dal vangelo di Mt: 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
 
Preghiamo (dopo la comunione). Padre misericordioso, il pane eucaristico che ci fa tuoi commensali in questo mondo, ci ottenga la perfetta comunione con te nella vita eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
 
Il Signore è con voi oggi e sempre                           E con il tuo spirito!
Dio che non abbandona mai né mai si dimentica, sia la vostra forza ora e sempre.
Dio che è padre commosso per  ciascuno di noi, sia anche nostra madre affettuosa.
Dio che è la roccia di difesa del suo popolo, vi sostenga perché non vacilliate nel cuore.
Dio che giudica con misericordia, ci giustifichi per i meriti del Signore Gesù Cristo.
Dio che vi chiama al ministero del servizio, vi dia la forza di servirlo senza divisione.
Dio che nutre gli uccelli del cielo e veste i fiori dei campi, ci nutra di Parola e ci rivesta di fede.
Dio che vi chiama al Regno dei cieli, vi consacri nella ricerca della sua giustizia.
Dio che ci nutre dell’Eucaristia, ci dia la gioia di condividere il nostro pane con i poveri.
 
L’Eucaristia termina come rito, l’Eucaristia inizia come vita.
Andiamo nel mondo e portiamo frutti di pace e di rinascita!
Rendiamo grazie a Cristo, il Figlio diletto del compiacimento del Padre.
 
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© Domenica 8a del tempo ordinario-A – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete – Genova
[L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica]
Paolo Farinella, prete – 27/02/2011 - San Torpete - Genova
 
AVVISI E APPUNTAMENTI
 
 
1.      Lunedì 28 febbraio 2011 alle ore 18,30 a Palermo presso il salone della Chiesa Valdese, Via dello Spezio 43 (dietro il Politeama), organizzato da «Voci di Cittadinanza Attiva», incontro su «Etica e Politica». Intervengono Don Paolo Farinella, Pastore Giuseppe Ficara , Prof. Salvo Vaccaro.
 
2.      Martedì 1 marzo 2011 alle ore 17,30 nella Chiesa di San Giovanni Decollato, Piazza omonima – Palermo (accanto alla Questura), incontro sul tema «La sfida del dialogo interreligioso». Intervengono: Stefano Di Mauro, Rabbino della comunità ebraica di Siracusa; Giuseppe Ficarra, Pastore della chiesa Valdese di Palermo, Giuseppe Dispoto, Resp. Comunità religiosa islamica italiana; don Paolo Farinella prete della Chiesa cattolica di Genova.
 
3.      Mercoledì 2 marzo 2011, ore 21,00 a Palermo presso il salone della Chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, organizzato dal prof. Augusto Cavadi, filosofo e teologo, incontro colloquio sul tema: «Ragionando di teologia e amenità».
 
4.      Sabato 5 marzo ore 16,00 in San Torpete: in seconda convocazione ASSEMBLEA DELL’ASSO-CIAZIONE «LUDOVICA ROBOTTI – SAN TORPETE» con all’odg: approvazione del bilancio e modifica allo statuto per diventare ONLUS. CHI PUO’ PARTECIPI, CHI NON PUO’ DELEGHI QUALCUNO DI SUA CONOSCENZA.
Potete visitare il sito dell’Associazione:     ludovicarobottisantorpete.jimdo.com
 
5.      Lunedì 7 marzo 2011 alle ore 17,30 in san Torpete: Messa di trigesima per Nanni, marito di Maria Pia.
 
 


[1] La Bibbia-Cei traduce: «Davanti a lui aprite il vostro cuore»; l’ebraico invece ha: «versiamo il nostro cuore davanti a lui». Il verbo è «shapàk –versare» da cui deriva il «luogo del versamento», lo «shèpek» che è «la discarica» (cf Lv 4,12). Si versa acqua (cf Es 4,9), sangue (cf Lv 4,7); lo spirito (cf Gl 3,1, la colelra (cf Ez 14,19. Il testo ebraico oltre che più poetico è più intenso e potente: «versare il cuore» come se fosse un liquido con cui riempire la vista di Dio. Si aprono prospettive molto belle sulla relazione affettiva con Dio e anche sulla preghiera che non è una contrattazione commerciale (io ti do, tu mi dài), ma uno svuotarsi davanti a Dio che raccoglie il nostro cuore liquido goccia a goccia perché nulla vada perduto.
[2] Cf Is 47,1-3; 48,9-11; 50,1; 51,17-52,2; 54,1-5; 49,17-22. La grandezza di questo comportamento sta nel fatto che giuridicamente quando un uomo ripudiava la moglie non poteva più riprenderla indietro. Allo stesso modo, una frattura tra padre e figlio era irreversibile e la maledizione sanzionata per l’occasione non si poteva più cancellare. Il Dio di Israele, e il profeta lo testimonia, rompe gli schemi e addirittura rincorre la moglie divenuta prostituta, risposandola (cf Os 2,1; 3,1) oppure riprende il figlio «perduto e ritrovato» (cf Lc 15,20-24).
[3] La traslitterazione in italiano non è scientifica, ma pratica: come si pronuncia.
[4] «Rashì» è l’acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi (1040-1105), uno dei più famosi commentatori medievali della Bibbia; fu rabbino di Troyes nel dipartimento dell’Aube nella regione di Champagne-Ardenne, a circa km 150 da Parigi.
[5] Il salmo 62/61,12 (assente dalla liturgia di oggi) dice testualmente: «Una cosa Dio ha detto, e due io ne ho udito», per dire che ogni parola di Dio non si esaurisce in un unico senso, ma è ricca di significati diversi. Il Talmud babilonese nel trattato Sanhedrìn – Sinedrii 34a riprende questo insegnamento e lo formalizza: «“Non è forse così la mia parola: come fuoco, oracolo di Yhwh, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger 23,29). Come il martello sprigiona molte scintille, così pure un solo passo della Scrittura dà luogo a molteplici significati».
[6] Il testo greco usa l’espressione «hypērètas Christoû kài oikonòmous mystērìōn toû theoû» (1Cor 4,1). Il primo termine, «hypērètas», con la preposizione «hypò- sotto», fa riferimento ai «rematori» che stanno «sotto» nella stiva, in catene a remare per fare camminare la nave; il secondo «oikonòmous» invece, parla di «economi», cioè di amministratori non proprietari che hanno il compito di mantenere e sviluppare il patrimonio. Dunque servi responsabili.
[7] Edito in Italia da Garzanti, Milano 1998
[8] Sono «servi»: Mosè ed Abramo (cf Sal 105/104, 26.42); Giacobbe (cf Ger 30,10; Ez 37,25); Davide (cf Sal 36/35,1; 89/87,4 Ez 37,25); Ez 34,23); Nabucodònosor (cf Ger 27,6; 43,10); il popolo d’Israele (cf Is 41,8); il misterioso personaggio con caratteristiche regali e profetiche, conosciuto come «Servo di Yhwh» e descritto mirabilmente nei quattro canti del profeta Isaia (cf Is 49,1-6; cfr. Is 50,4-11; cf Is 52,13-53,12) che il NT e la tradizione cristiana interpretano in chiave cristologica, affermando che Gesù Cristo, re e profeta, è il vero Servo del Signore (cf Is 42,1-4 e Mt 12,17-21). Nel NT, Paolo come un profeta antico si definisce con orgoglio «servo di Gesù Cristo» (Rm 1,1; Gal 1,10).
[9] Ecco i testi profetici a cui abbiamo fatto riferimento: «1Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore; guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti (Is 51,1). «3Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore (Sof 2,3). La Bibbia-Cei (2008) così commenta Sof 2,3: «poveri della terra: i deboli e gli oppressi, in favore dei quali spesso interviene il Signore. I poveri, per Sofonia, sono una categoria non tanto sociale ed economica, quanto piuttosto etica e religiosa. Poveri sono coloro che cercano la giustizia e il Signore».
[10] P. Schruers, «La Paternité divine dans Mt 5,45 et 6,26-32», in Eph. Th. Lov (1960) 293-624 ; G. Ravasi, La paternità divina nella Bibbia, Edizioni Dehoniane, Bologna 2000.
[11] Sul tema generale della paternità nella Bibbia cf J. Jeremias, Abba, supplemento al GLNT 1, Paideia, Brescia 1968, in cui l’autore sviluppa l’idea che il termine aramaico «Abbà» abbia in sé un connotato di tenerezza di particolare intimità. Oggi questa tesi è superata perché «Abbà» è il termine normalmente usato nell’ambiente neotestamentario per rivolgersi al proprio genitore senza alcuna particolare intensità.
[12] Detta di Ippolito, prete romano del sec. II: è stata reintrodotta nella liturgia dalla riforma di Paolo VI in attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.


Mercoledì 23 Febbraio,2011 Ore: 12:22
 
 
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