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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Domenica 7a del tempo ordinario – A - 20 febbraio 2011,di Paolo Farinella, prete

Domenica 7a del tempo ordinario – A - 20 febbraio 2011

di Paolo Farinella, prete

La domenica 7a del tempo ordinario-A conclude il capitolo 5 del vangelo di Matteo, riportando le ultime due antitesi tra la «nuova giustizia» (cf Mt 5,20) annunciata da Gesù e la tradizione ebraica che aveva caricato di prescrizioni minuziose la Toràh rendendola di fatto inaccessibile ai poveri e ai peccatori[1] Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità”» (Mc 1,27). Egli presenta il suo programma costituente con la stessa autorità con cui Yhwh aveva dato la Toràh sul Sinai (cf Es 19) e ha l’ardire di opporre il suo insegnamento a quello della tradizione orale che successivamente sarebbero state fissate nella Mishnàh e nel Talmud. In questo modo, Gesù si pone su un piano di autorità ancora superiore.. Presentandosi come colui che è in grado di dire: «Vi è stato detto dagli antichi … ma io vi dico», Gesù si stacca da una tradizione chiusa in se stessa che vuole perpetuarsi immutata, anzi deformata perché nessuna tradizione sarà mai «pura». Passando, infatti, da tempo in tempo e di generazione in generazione, inevitabilmente, essa si «sporca» e si contamina, nonostante tutte le precauzioni che si possono prendere. Nulla e nessuno è immune dal contagio generazionale, culturale, psicologico e sociale. Gesù parla «con autorità» come aveva rimarcato molto bene Marco: «
            La 1a lettura è tratta dal Levitico, il terzo dei cinque libri che formano la Toràh ebraica o il Pentateuco cristiano. Per il suo contenuto legislativo il Levitico interrompe la linea narrativa del racconto «storco» iniziato con Genesi e proseguito con Esodo; nello stesso tempo si situa all’interno della storia perché le leggi sono il punto di arrivo di un percorso formativo durato secoli. Anche il Levitico, come gli altri libri della Bibbia, non è scritto a tavolino, ma si è formato lentamente nel corso di secoli. Solo nel 444 a. C. con la riforma di Esdra e Neemia, dopo l’esilio babilonese, anche esso entra a fare parte del percorso religioso di Israele[2].
Il brano di oggi ha un orizzonte sociale che gli deriva dal Deuteronomio, l’altro libro legislativo e ultimo della Toràh/Pentateuco (cf Dt 24,7.14-15; 19,16-21). Questo risvolto colpisce perché un imperativo sociale è inserito all’interno di un «codice di santità» che regola la complessa partita della purità cultuale, dei sacrifici e degli adempimenti rituali. A noi piace vedervi già in germe l’idea che «l’amore fraterno per il prossimo» possa costituire anche per il legislatore levitico il cuore del culto e della religione. Farsi carico del prossimo (cf Lv 19,17-18) fino ad amarlo «come se stessi» (Lev 19,18), forse anche per il Levitico, vale tutti i sacrifici e i riti religiosi perché la Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio si manifesta nella relazione e non nel gesto rituale che è e deve restare solo un segno e non un fine.
E’ necessario sfatare un luogo comune, secondo il quale spesso si afferma superficialmente che Gesù ha portato una novità assoluta riducendo tutta la prassi religiosa di Israele ad un solo comandamento, quello dell’amore: «Da questi due comandamenti [amare Dio e amare il prossimo] dipendono tutta la Legge e i Profeti»[3] (Mt 22,40). Affermare questo significa dire che Gesù ha vissuto e si è formato in un altro mondo, che non è stato ebreo, ma un fungo fuori stagione, senza radici e senza popolo. Gesù è un ebreo inserito nel suo popolo, ha una formazione da ebreo secondo la dottrina dei farisei, frequenta la sinagoga, conosce le tradizioni scritte e orali e quando parla non parla un linguaggio astruso, ma usa la Toràh che ha appreso fin da bambino nella «Bet haSefer – casa del libro», che era la scuola primaria presso ogni sinagoga. Egli «porta a compimento» per sua stessa ammissione quello che nella Toràh è implicito; sprigiona la Parola e la incarna nel suo vangelo che di «nuovo» ha solo lo spirito con cui si guarda a Dio, partendo dai fratelli e dalla sorelle.
Nella 2a lettura, Paolo conclude il ragionamento con cui cerca di spiegare il suo comportamento nei confronti dei Corinzi avidi di conoscenza intellettuale e delusi del modo con cui Paolo ha presentato loro il vangelo del Crocifisso (cf 1 Cor 3,1). Nel brano di oggi, Paolo cita due testi dell’AT (cf 1Cor 3,19-20; Gb 5,13; Sal 94/93,11) per riaffermare il suo punto di vista e cioè che Dio non si trova alla fine di un ragionamento filosofico o di un’etica o di una teoria per quanto nobile. Dio sta semmai alla fine di una esperienza: se non lo si incontra si rischia di morire ragionando sull’«idea» di Dio. L’agire stesso di Dio ne è una prova: non ha spettato che i sapienti lo raggiungessero con i loro ragionamenti e speculazioni, ma è venuto direttamente per farsi toccare, sentire, amare (cf 1Gv 1,1-4). Il suo volto ora è accessibile a tutti e tutti possono contemplarlo nel volto di Gesù: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).
Cosa accade nella Chiesa di oggi? Quale volto di Dio è accreditato davanti al mondo? Quello del Dio di Paolo o quello di Apollo che cerca di farne un accessorio della sua eloquenza? Oppure quello di un «sistema» che si serve di Dio per contrabbandare cultura, economia, interessi più o meno leciti, attraverso alleanze spurie con «strutture» di potere, anche malavitoso e comunque immorale? La Chiesa oggi ha una enorme responsabilità perché la credibilità di Dio passa necessariamente attraverso la credibilità di coloro che affermano di credere in lui e in modo particolare di coloro che esercitano un ministero di autorità che deve essere esemplare, anche nelle apparenze. Non basta essere poveri «spiritualmente», bisogna esserlo realmente. Non basta affermare «i principi», ma è necessario che essi non vengano imposti con l’aiuto di leggi civili emanate da chi ha interesse a ricattare la gerarchia: nella morale cristiana, il fine non giustifica mai i mezzi, se questi sono disonesti.
Paolo ha un solo argomento da contrapporre ai «sapienti» Corinzi: il Crocifisso che non è un mito da custodire, ma il dono del fallimento di Dio da condividere. L’apostolo non si oppone alla ricerca anche intellettuale o artistica o filosofica perché il suo vangelo non è concorrenziale, ma pone il criterio per dare corpo alla verità che la ricerca persegue. Questo criterio è soltanto uno: nel parlare di Dio nessuno può appropriarsene e usarlo come strumento di potere sull’altro, perché Dio è libero e libera quanti lo conoscono. Chi cerca trova se il suo cuore è libero da prevenzioni e complessi ideologici perché Dio è sempre più grande di qualsiasi realizzazione che noi possiamo sperimentare.
Il vangelo conclude le antitesi di domenica scorsa e con esse il capitolo quinto del discorso del monte che si protrarrà ancora per due capitoli (il 6° e il 7°) a cui seguirà la sezione (cc. 8° e 9°) che descrive «quello che Gesù ha fatto»: interventi, guarigioni, incontri. Con le due ultime antitesi Gesù mette a fuoco il suo insegnamento: si situa sulla scia dei «Maestri» d’Israele, cioè le autorità rabbiniche della tradizione orale e nello stesso tempo se ne discosta. Non si estranea dall’ambito religioso e culturale del suo popolo, ma dall’interno lo svuota, anzi lo fa esplodere mettendo in evidenza l’ovvio della religione e del comportamento religioso abituale acritico. Egli fa emergere le esigenze interiori rimaste nascoste sotto una coltre di sedimentazione, quasi impenetrabile, di divieti e obblighi che hanno impedito l’accesso alla parola di Dio. L’evangelista Marco riporta il rimprovero di Gesù a farisei e scribi, troppo avidi e troppo abili a servirsi della religione per svuotare di significato la Parola di Dio: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).
La storia della salvezza è un cammino di purificazione che segue l’evoluzione non solo del pensiero e della cultura in generale, ma anche delle motivazioni e delle scelte concrete. Dio non violenta, ma si accompagna al passo dell’uomo per guidarlo ad una sempre maggiore «giustizia» per giungere ad una visione della storia e dell’uomo dal punto di vista di Dio: ogni uomo è immagine di Dio perché sua creatura; ciò significa che ogni uomo è fratello, consanguineo. Nessuno è estraneo ad alcuno, ma tutti si riconoscono «una cosa sola» nel cuore e nel pensiero di Dio, Padre universale. Se Dio è Padre, ogni uomo condivide con gli altri la vita, il sangue, la storia, il destino. Tutti si procede verso una mèta e lungo il cammino non c’è spazio per la violenza che è un dispendio inutile di energie e di vita.
Partecipare all’Eucaristia significa imparare il metodo della «non-violenza» perché gli unici strumenti sono la Parola, il Pane e il Vino, cioè tre elementi che nutrono la vita di relazione e la sopravvivenza per corroborarci in mezzo alle violenze del mondo per essere «sale e luce», cioè forza e coscienza, testimoniando una «giustizia superiore» che è l’imitazione di Dio: «Siate santi, perché Io-Sono santo …/ Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Lev 19,18; Mt 5,48). Invochiamo lo Spirito Santo, il garante della Parola e dell’Eucaristia che da maestro ci guida al «monte delle beatitudini» perché anche noi possiamo ascoltare la Parola antica e nuova del Signore Gesù; lo facciamo con le parole del salmista nell’antifona d’ingresso (Sal 13/12,6):Nella tua fedeltà ho confidato; esulterà il mio cuore nella tua salvezza, canterò al Signore, che mi ha beneficato.
 
Spirito Santo, tu parli alla comunità di Israele e alla Chiesa in ogni tempo e luogo, Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tu sei la santità del Padre e del Figlio sparsa sulla Chiesa di Cristo,     Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu ci rendi santi per onorare il volto di Dio, santo, santo, santo,                     Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tu ispiri le parole di sapienza con cui prenderci carico del prossimo, Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tualimenti l’amore di Dio perché in noi diventi amore del prossimo,             Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei il cuore dell’anima che benedice il Signore, Padre provvidente,           Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tu sei il balsamo del Padre e del figlio che lenisce le nostre infermità,            Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei la siepe di bontà e misericordia che ci circonda per proteggerci,           Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei la lentezza che frena l’ira dell’odio e libera l’amore rigenerante,           Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei la tenerezza del Padre verso coloro che lo temono con amore,              Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei la potenza di Dio che ci trasforma in tempio del suo amore,                 Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu abiti in noi e ci preservi da ogni distruzione e pericolo incombente,           Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tusei la stoltezza di Dio che confonde i sapienti e innalza gli umili,  Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tu vegli su di noi perché non cadiamo nel peccato di superficialità,    Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei l’antìtesi che contrasta le tradizioni che idolatrano se stesse,                 Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tu sei l’amore del Padre che insegna ad amare il prossimo come se stessi,      Veni, Sancte Spiritus!  
Spirito Santo, tusei l’amore del Padre che insegna ad amare i nemici in nome di Dio,         Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu sei il sole di giustizia che il Padre fa sorgere sui giusti e sugli ingiusti,        Veni, Sancte Spiritus! 
Spirito Santo, tu ci educhi alla giustizia del Figlio che ha dato se stesso per amore, Veni, Sancte Spiritus!
 
La prospettiva che la liturgia di oggi ci propone in tutte e tre le letture e nel salmo responsoriale costringe chi invoca Dio a fondamento della vita o dell’etica a ritornare «al principio», quando Dio creò l’umanità in Àdam ed Eva e tutto il genere umano era «uno in tutti». Da quando Àdam si è chiuso in sé, scaricando le proprie responsabilità sulla donna, escludendosi dal giardino di Eden, luogo di condivisione e di pace, l’umanità si è frantumata e ha alimentato la violenza in modo vertiginoso. Noi siamo parte di questa storia e siamo figli di violenza. Per ritornare «al principio» è necessario imparare alla scuola di Gesù di essere poveri, miti, costruttori di pace, assetati di giustizia al fine di riuscire a vedere anche quelli che consideriamo nemici come figli di Dio e carne della nostra carne. Proiettati nel cuore di Dio che visitiamo nella santa Eucaristia, guardiamo alla Trinità beata e invochiamo su di noi e sul mondo la Benedizione delle Benedizioni che è il Cristo Signore.
 
(greco)[4]
Èis to ònoma
toû Patròs
kài Hiuiû
kài toû Hagìu Pnèumatos
Amèn.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e del Santo Spirito
 
Amare è la nostra condizione e anche la nostra vocazione. Amare non è facile perché noi siamo soliti partire dal nostro bisogno di amore e quindi da un atto di egoismo. Eppure sappiamo che solo amando possiamo essere in grado di essere amati; ma solo se siamo amati abbiamo consapevolezza della nostra capacità di amare; noi sappiamo tutte queste cose, ma facciamo fatica a concretizzarle nella vita delle nostre relazioni. Gesù non dice che dobbiamo amare «tutti», ma che dobbiamo amare «i nemici». L’amore universale è argomento delicato perché è facile «amare tutti» senza amare alcuno; ma amare i nemici è un banco di prova che ci mette a nudo e svela chi siamo e come siamo e specialmente se amiamo. Esaminiamo la nostra coscienza, lasciando che lo Spirito la abiti con dovizia e ci aiuti a ritrovare noi stessi per essere in grado di scoprire gli altri come parte migliore di noi e Dio come il compimento del nostro progetto di amore e di vita.
 
[Esame di coscienza. Pausa prolungata per dare all’anima il tempo di riflettersi
 
Signore, spesso ci smarriamo nei sotterranei del nostro piccolo egoismo,                 Kyrie, elèison!
Cristo, ci hai insegnato ad amare senza pretendere alcun ritorno compensativo,                   Christe, elèison!
Signore, nel volto del Figlio hai svelato la tua natura di Dio a perdere per amore,    Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente, che ci comanda di amare il prossimo e i nemici come noi stessi, sull’esempio di Gesù che ha amato i suoi carnefici perdonandoli senza riserva, per i meriti di quanti vivono il comandamento dell’amore nella quotidianità feriale, per i meriti di quanti hanno dato la loro stessa vita come atto di amore, per i meriti dei genitori che amano i loro figli spesso senza ritorno, per i meriti di Gesù Cristo, Figlio amato dal Padre, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente     [breve pausa 1-2-3].
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo:          [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Dio, che nel tuo Figlio spogliato e umiliato sulla croce, hai rivelato la forza dell’amore, apri il nostro cuore al dono del tuo Spirito e spezza le catene della violenza e dell’odio, perché nella vittoria del bene sul male testimoniamo il tuo vangelo di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
MENSA DELLA PAROLA
Prima lettura Lv 19, 1-2.17-18. «Levitico» significa «Libro dei leviti» perché molte leggi di questo libro riguardano riti e decisioni che spettavano ai sacerdoti, membri della tribù di Levi[5]. In ebraico il libro è detto, dalla parola iniziale «Wajjiqrà – E Chiamò». Si compone di 27 capitoli che hanno il loro cuore nel «codice di santità» (cf Lv 17,1-26,46). Il tema di fondo del libro è la contaminazione del«popolo eletto» con la natura stessa di Dio: poiché Yhwh è santo, anche il suo popolo è contagiato dal suo stato di santità. La Legge, le norme e i riti servono a verificare il grado di coerenza di questa contaminazione. In una cultura ancora nomade e quindi esposta ad aggressioni e, maggiormente, al rischio di scomparire, si capisce che la maggior parte delle norme siano di natura rituale e sessuale per preservare l’identità omogenea del gruppo. E’ però singolare che in questo contesto legislativo si trovi il comandamento sulla fraternità sociale, il cui vertice è l’invito ad amare «il prossimo come te stesso» (v. 18). Gesù non dirà quindi una novità eclatante quando riprende l’invito per farne la chiave del suo vangelo (v. brano odierno), ma si colloca nel cuore stesso della storia di Israele e s’ispira al «codice di purità» per insegnare «una giustizia maggiore» che trova il compimento nel «siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lv 19,1. Mt tradurrà questo vertice teologico con l’imperativo: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), dando come misura non solo il prossimo, ma Dio stesso.
 
Dal libro del Levitico  19, 1-2.17-18
1Il Signore parlò a Mosè e disse: 2«Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo.17Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. 18Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 103/102,1-2; 3-4; 8.10; 12-13.Il salmo è un inno che sviluppa alcuni dei tredici attributi di Yhwh che sono descritti nel libro dell’Esodo (34,6-7), in modo particolare la misericordia e la bontà (vv. 3-4; cf anche i vv.17-18, qui non riportati, con Es 20,6). L’inno all’Amore di Dio è una proclamazione solenne che invita gli angeli e il creato (vv. 20-22, qui assenti) a partecipare alla «berakàh-benedizione» che l’anima eleva al suo Signore dall’inizio alla fine del salmo (v. 1 e v. 22, qui assente). L’Eucaristia è la grande «berakàh-benedizione» che il Padre riversa sul mondo perché essa non è che il Figlio suo benedetto nell’atto di dare se stesso per amore. L’affermazione esplicita che «Dio è Agàpe», che segna il vertice del NT (1Gv 4,8), è qui adombrata e anticipata. Noi che ascoltiamo ne siamo parte e beneficiari.
 
Rit.Il Signore è buono e grande nell’amore.
 


1 Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
2 Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tanti suoi benefici. Rit.
3 Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità;
4 salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e di misericordia. Rit.
8 Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
10 Non ci tratta secondo i nostri peccati,
non ci ripaga secondo le nostre colpe. Rit.
12 Quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
13 Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli lo temono. Rit.


 
Seconda lettura 1Cor 3,16-23.  La comunità di Corinto è segnata dalle divisioni e dai conflitti, tanto che Paolo deve intervenire autorevolmente anche da lontano con la lettera che stiamo leggendo in questo periodo liturgico. Nel brano di oggi che prosegue quello di domenica scorsa, i Corinzi rimproverano Paolo di avere fatto loro un annuncio del vangelo troppo semplice, non all’altezza della loro sapienza e cultura. In altre parole, il vangelo è troppo povero per i Corinzi che si ritengono menti elevate o quasi esclusive. Essi contrappongono il parlare di Paolo ai ragionamenti dei predicatori filosofi e intellettuali (v. 1). Il brano di oggi riporta la conclusione del ragionamento di Paolo che paragona l’evangelizzazione ad una costruzione: i costruttori saranno giudicati dalla qualità dell’opera e dal materiale usato, non dai discorsi appariscenti, ma vuoti di contenuto (cf 1Cor 3,10-15). Per Paolo rrave è la responsabilità di chi rovina la dimora di Dio («voi siete tempio di Dio», v.16), cioè vanifica il fondamento che è Gesù Cristo (cf 1 Cor 3,10-11), che a sua volta si traduce nel negare la croce di Gesù e la sua risurrezione (cf 1Cor 1,18;15) nelle scelte e nelle dinamiche della vita. In un tempo in cui si usa il «Crocifisso» come arma di «civiltà» (!?) per ridurlo ad un inoffensivo utensìle di religione civile, è bene per i credenti ritornare alla sorgente della Parola: alle parole non equivoche di Paolo e al cuore del «Vangelo che è il Cristo» (cf Mc 1,1)crocifisso e risorto, scandalo permanente per chi vive di fede (1Cor 1,23).
 
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 3,16-23
Fratelli e Sorelle, 16non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? 17Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. 18Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, 19perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia. 20E ancora: Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani. 21Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: 22Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! 23Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio. - Parola di Dio.
 
Vangelo Mt 5,38-48. Il brano del vangelo di oggi riporta le ultime due antitesi delle sei contenute in Mt 5 per descrivere la «nuova giustizia» (cf Mt 5,20) che si colloca al di fuori del quadro di riferimento delle comunità naturale come la famiglia, il gruppo, il popolo di appartenenza. Le prime quattro sono state proclamate domenica scorsa. Gesù comincia a svelarsi e apre coloro che lo seguono ad un respiro e ad una responsabilità universali, dove sono compresi anche eventuali nemici ed avversari. Gli Ebrei tendevano a chiudersi nell’esclusività del proprio popolo, il solo «eletto» (cf v. 46); i Greci dal canto loro intessevano rapporti all’interno dei propri conoscenti (cf v. 47). Gesù spezza l’isolamento in cui istintivamente l’individuo si rinserra per difendersi dagli estranei, liberando la religione e il cuore dall’attaccamento allo spazio sacro della nazionalità, della famiglia e della religione. La «Chiesa» di Cristo non ha mura e non ha tetto perché il suo orizzonte è a 360° in verticale e in orizzontale. Chi crede è invitato ad essere «giusto», cioè imitatore del Padre che vive la propria paternità senza frontiere e senza limiti: un padre a perdere per amore sconfinato.
 
Canto al Vangelo cf. Gv 6,63.68
Alleluia. Le tue parole, Signore, sono spirito e vita. Tu hai parole di vita eterna. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. 43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?
48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. Parola del Signore.
 
Spunti di Omelia.
Domenica scorsa abbiamo trattato l’introduzione e il contesto delle antitesi per cui no vi torniamo di nuovo, ma ci limitiamo solo alle due ultime, come sono riportate dalla liturgia. La quinta antitesi con cui inizia il brano del vangelo di oggi cita un testo ormai entrato nella sapienza popolare che lo usa in modo spregiativo e in senso peggiorativo: «occhio per occhio e dente per dente» (Mt 5,38; cf Es 21,24; Lv 24,20; Dt 19,21). La norma è  meglio conosciuta come «legge del taglione». Oggi con questa frase s’intende che al un danno subito si vuole fare corrispondere il massimo della severità, comminando una pena senza misericordia. Chi usa questo linguaggio, in genere, si considera «giusto» e non un essere spregevole incapace persino di vendicarsi. La vendetta è considerata come moneta corrente, il giusto prezzo. Questo atteggiamento dimostra che si è perso il significato dell’evoluzione dei sistemi culturali e religiosi da cui noi proveniamo per lasciare spazio solo alla belluinità presente nella nostra natura e mai sconfitta. Andiamo per ordine.
 
La legge del taglione era una delle leggi più importanti del XVII sec. a. C., codificata da Hammurabi perché in un tempo di anarchia, governata solo dal potere della forza, essa stabiliva «per legge» la proporzione tra il danno subito e la pena erogata. La legge mosaica del taglione è più antica della legislazione biblica[6] perché esisteva già nel «codice di Hammurabi», una tra le più antiche raccolte legislative di tutta l’umanità e attribuita al re babilonese Hammurabi o Hammu-Rapi (regno: 1792-1750 a.C.)[7]. Prima di queste legislazioni giuridiche «scritte», la vendetta era indiscriminata fino a raggiungere un rapporto sproporzionato tra danno e pena di «1 a 7» e addirittura di «1 a 70», come testimonia la storia dei patriarchi biblici, nel canto di Lamec:
 
«Lamec disse alle mogli: “Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette”» (Gen 4,23-24).
 
Con Hammurabi prima e circa 500 anni dopo con Mosè, la violenza che già era moltiplicata per sette e per settanta volte venne riportata ad un rapporto paritario e non più lasciato all’arbitrio. La legge del taglione, quindi è un passaggio di civiltà, una legislazione che cambia la storia e incide sui costumi di generazioni intere, per millenni. Sembra una eresia affermare oggi che la legge del taglione è stata una legge di civiltà. Eppure lo è perché nel momento in cui sancisce la corrispondenza di colpo su colpo, pone un argine alla violenza senza misura: una ferita vale solo una ferita e non un omicidio; se uno riceve uno schiaffo non può rivalersi con una strage. In altre parole si afferma in modo antico il principio della fisica moderna: ad ogni azione può corrispondere solo una azione uguale e contraria. Non di più. Forse di meno, ma non di più.
La legge del taglione afferma il principio etico e psicologico che ciascuno di noi agisce e vive dentro una rete di priorità e di proporzioni: nulla è lasciato all’arbitrio, ma con questa norma si definiscono i confini e si stabiliscono i limiti delle relazioni sociali e dell’azione penale. La legge in questo senso è un argine che connota i confini estremi. Uno può superare la legge, ma non può andare oltre di essa. La legalità prima di essere un concetto giuridico è un atteggiamento spirituale e psicologico perché è la coscienza del limite e la consapevolezza delle proporzioni. Da questo punto di vista la nozione di legalità fa comprendere anche l’importanza invalicabile dell’altro perché esprime contemperanza di esigenze, bisogni, diritti. Chi è senza Legge o si crede al di sopra di essa, è un uomo malato, senza consapevolezza di sé e crede di potere esistere solo nell’uso dell’arbitrio che egli vive come propria dimensione di affermazione. Per rispettare la Legge che genera la dimensione diffusa della legalità, bisogna rispettare se stessi, ma anche accettarsi e riconoscersi come parte di una realtà umana più ampia, pur mantenendo la propria individualità e coscienza libera.
Anche nella storia della salvezza vediamo applicato la legge del taglione. L’esodo narra la vicenda della schiavitù di Israele e l’irruzione di Dio che interviene con veemenza a liberalo dalla supremazia del faraone. E’ l’inizio della storia di Israele. Il popolo assediato dal faraone, nella notte della liberazione, ebbe la promessa che sarebbe stata applicata da Dio la legge del taglione: l’Egitto che perseguitò e cercò di uccidere i primogeniti di Israele (cf Es 1,22), sarà colpito nei suoi primogeniti (cf Es 12,29-30) e Israele in forza dei meriti dei Padri (cf Sap 18,9) sarebbe stato annoverato nel libro dei giusti. Dio non risponde al sopruso del faraone distruggendo l’Egitto, ma privandolo dei primogeniti, ristabilendo così le proporzioni di forza iniziali.
Bisogna aspettare Gesù per vedere capovolto il rapporto fino al punto supremo in cui l’innocente si carica della violenza che non ha generato e di cui non è responsabile per svuotare di forza e di contenuto il pensiero stesso che guida le scelte e le azioni violente. Per vanificare la morte in nome di Dio, Gesù non sfugge alla sua morte, ma le va incontro e pochi istanti prima di morire perdona i suoi assassini capovolgendo così la legge del taglione prescritta nella Toràh. Alla logica dell’«occhio per occhio e dente per dente» (Es 21,24) si sostituisce il perdono senza riserve e senza pretendere nulla in cambio, un amore a perdere: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24). In nome di Dio si può solo perdonare, cioè si rinuncia all’equilibrio tra danno e pena e la vittima si carica non solo del danno, ma anche della pena perché solo così può essere vinta la sproporzione generata dalla violenza. In nome di Dio si può solo essere uccisi dai propri assassini e mentre questi si identificano come tali, la vittima cambia la loro natura e li trasforma in fratelli (cf Gv 18,11). Gesù porta ancora più avanti l’esigenza di vita fraterna: occorre strappare dal cuore la radice stessa della vendetta, per giungere fino all’amore del nemico, imitando Dio. Se Lamec poteva vantarsi di vendicarsi settanta volte sette, cioè una vendetta senza fine, il discepolo di Gesù che accetta la Legge del vangelo, arriva perdonare «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), capovolgendo l’impianto giuridico del suo tempo: la vendetta cede il passo al perdono.
Il riferimento alla legge del taglione fatto da Gesù, però, si colloca in un contesto più ampio perché «la nuova giustizia» non si può esaurire in una serie di norme rituali e morali, chiuse in se stesse. Essa al contrario deve esprimere una nuova visione del mondo perché rivela un nuovo volto di Dio, libero dalle pastoie in cui la religione, di norma lo seppellisce. La religione infatti nutre se stessa e «usa» Dio per imporre il proprio dominio perché essa può prosperare solo se i suoi adepti sono sottomessi e succubi, incapaci di pensare. Dove c’è libertà la religione perde influenza perché non riesce ad imporre usi, rituali anonimi e immutabili e quello che più conta, non riesce a fare prevalere la superiorità della casta sacerdotale che spudoratamente usa Dio come strumento per la propria affermazione autoritaria. Dove invece c’è fede, regna sovrana la libertà basata sulla coscienza che alimenta la responsabilità e dà corpo alla relazione affettiva, nutrita di fiducia e reciprocità.
«La nuova giustizia» di Gesù, infatti, esige la fede che può esprimersi solo in un contesto di libertà e di amore. Il codice di Hammurabi era formulato in modo impersonale: «Se qualcuno, se il mercante, se l’agente, se l’architetto …», mentre il comandamento di Yhwh, consegnato a Mosè, è diretto e personale, indirizzato ad un «tu» con un comando al tempo imperativo presente: «Tu onorerai il padre e la madre … tu non ucciderai … tu non giurerai il falso … ecc.». Mentre nel codice di Hammurabi si formula l’ipotesi di reato e si individua la pena corrispondente, nel comandamento biblico, Dio si rivolge alla coscienza ed instaura un rapporto di affettività perché la Legge non può essere solo un argine esterno, inevitabilmente fondata sulla paura, ma deve essere un afflato interiore e spirituale che genera una visione della vita e comportamenti conseguenti:
 
«20Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo» (Mc 7,20-23).
 
Gesù non si attarda sulla legislazione mosaica che già prevedeva il limite della proporzione, ma scardina il concetto di«minimo legale/morale» per prospettare un nuovo ordine di giustizia, fondato sul primato della relazione che a sua volta affonda le radici su due pilastri: la persona in quanto tale e Dio in quanto garante della persona. Qui giocano due reciprocità: L’uomo è «immagine di Dio» (Gen 1,27) e quindi rende visibile l’Invisibile di cui è garantisce l’originale; Dio si affida all’uomo e quindi lo innalza alla sua natura. Tutto questo non si risolve a livello di religione, ma si innesta e si sviluppa solo a livello di fede che è un moto del cuore e dell’intelligenza, un «luogo» di relazioni affettive e spirituali.
Alla legge del taglione Gesù oppone la «non-violenza» che l’unico strumento in grado di sconfiggerla:
 
«39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle»(Mt 5,39).
 
Con queste parole, Gesù va oltre la stessa Legge ed esprime un passaggio radicale: la vendetta deve essere sradicata dal cuore stesso dell’uomo. Gesù non enuncia un comportamento, ma delinea un criterio che potremo codificare in termini moderni così: se vuoi cambiare un altro, cambia te stesso nei suoi confronti. Se ad una violenza rispondiamo con altra violenza, non si fa che aumentare la violenza. Se invece ad un atto di violenza si rispondiamo guardando in faccia la violenza, chiamandola per nome e accettandola in quanto male, consapevoli che è e resta violenza, ma non la alimentiamo, ma la svuotiamo dall’interno di tutto il suo potere di morte. Il gesto di violenza resta senza risposta e attende che l’autore se ne faccia carico, perché senza più significato. E’ questa la logica del porgere l’altra guancia o di lasciarsi togliere il mantello o di lasciarsi trascinare in tribunale. Il credente non subisce la violenza o il sopruso, ma li nomina, li riconosce e vi si oppone ponendosi come argine e assorbendo tutta la violenza che altrimenti senza quell’argine, rischia di molti più danni. E’ il solo modo per respingere la violenza dichiarandola «irricevibile» per non essere complici di una perversione di sistema. La violenza così espressa non ha obiettivo e non può risolversi senza ritornare al mittente che a sua volta deve decidere cosa farne e di conseguenza come regolarsi.
Nell’ultima antitesi Gesù lascia intatto il sistema mosaico, limitandosi a capovolgerlo: dall’amore per il prossimo che per gli Ebrei erano i connazionali e dall’odio per il nemico, si passa all’amore del nemico che così è incluso in un rapporto di «parentela» con Dio. Il passaggio di Gesù è complesso. Inizia col citare un passo del Levitico: «Amerai il prossimo tuo» (Lv 19,18)[8] a cui la tradizione aveva aggiunto «e odierai il tuo nemico» che però non era previsto dalla Parola di Dio. Il grande rabbino Hillel (70 a. C. – 10 d.C.) ad un pagano che gli chiedeva quale fosse l’essenza del Giudaismo, rispondeva: «Ciò che ti è sgradevole, non infliggerlo agli altri»[9].
Rabbì Aqiba ben Yosef (50ca – 135ca), uno dei padri fondatori del Giudaismo dopo la distruzione Gerusalemme afferma che il comandamento dell’amore del prossimo di Levitico «è un principio maggiore della Toràh» (Midrash Sifrè a Lv 19,18). Infatti l’amore per il prossimo implica di visitare gli ammalati, di consolare gli afflitti, di dare la dote alle fidanzate, ecc. (cf Dej 68). A sua volta Maimònide[10], il più grande commentatore ebraico del Medioevo, legge il comando del Levitico in chiave morale: «Parla di lui [del prossimo] con buone parole e rispetta la sua proprietà» (Mishnàh, Yadaìm DéotMani, 6,3). Il riferimento «al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5 45) è una ripresa del profeta Malachìa che propugna una sola umanità perché creatura di un solo Dio: «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?» (Ml 2,10). Ciò significa che «prossimo/connazio-nale» e «straniero/estraneo» sono posti dalla legislazione giudaica sullo stesso piano perché gli uomini sono legati tra loro dalla presenza in ciascuno dell’«immagine di Dio» (Gen 1,27) che li determina come fratelli consanguinei e figli dello stesso Padre.
 
Nota. Il fatto di riferirsi al Levitico, al profeta Malachia e alla tradizione giudaica, formulata dai rabbini della statura di Hillèh e di Aqìba, significa che Gesù conosce bene non solo la Scrittura, ma anche la tradizione orale, all’interno della quale insegna e opera. Quando nella Chiesa cattolica, alcuni vogliono mettere in contrapposizione il NT con l’Antico per sottolineare la superiorità del primo sul secondo, fanno una operazione ideologica e non rispettosa della verità, dovuta all’ignoranza delle tradizioni giudaiche che Gesù e i suoi discepoli invece conoscevano e vivevano. Dall’esame dei alcuni testi sul comandamento dell’amore del prossimo, che abbiamo riportato più sopra, si evince senza ombra di dubbio che l’insegnamento di Gesù può essere definito esemplarmente come «giudaico» perché si colloca all’interno della teologia biblica e rabbinica. Da parte sua Gesù mette il suo stile e la sua interpretazione con la quale porta il testo biblico e la stessa tradizione alle conseguenze più estreme. Veramente egli non è venuto «ad abolire la Legge o i Profeti, ma dare pieno compimento» (Mt 5,17). Conoscere il Giudaismo significa conoscere più profondamente il senso originario del vangelo e la persona stessa di Gesù. Se invece si legge il vangelo con una mentalità solo latina o peggio occidentale, si deforma l’insegnamento e lo si depaupera di tutto lo splendore della sua ricchezza.
 
Gesù pone il confronto tra chi dice di credere e quelli che non credono solo per mettere in evidenza che o il credente ha una motivazione in più oppure il suo credere è solo un palliativo, un vestito provvisorio a seconda delle circostanze e convenienze[11]. Chi crede non può pretendere un sole o una pioggia particolari e diversi dal sole e dalla pioggia di chi non crede. Troviamo qui un accenno importante alla laicità dell’agire di Dio che non fa questione di appartenenza, ma di disponibilità interiore. Già il Levitico chiede a chi crede di farsi carico dell’altro fino ad intervenire con autorità: «rimprovera apertamente il tuo prossimo» (Lv 19,17). L’omissione nei confronti degli altri è definito «peccato» che schiaccia: «così non ti caricherai del peccato per lui» (ibid.; cf Gal 6,2; Fil 2,3). La stessa vendetta viene non solo proibita, ma sostituita con l’amore affettivo ed elettivo.
Concetti simili verranno sviluppati da Gesù nel vangelo di Matteo, nel 4° discorso, quello sulla comunità (Mt 18), quando s’inviterà il credente del regno di Dio a farsi carico del male eventuale commesso dal fratello, usando un metodo pedagogico-psicologico preciso: prima l’intervento discreto e personale, poi quello della comunità, infine la decisione della separazione, affinché ogni cosa sia definita con il proprio nome e nessuno abbia l’àlibi immorale del «non tocca a me …» oppure «non è compito mio …», o anche «non rientra nelle mie mansioni …» che si traduce nell’ignobile sistema del «farsi i fatti propri, vivendo e lasciando vivere» (cf Mt 18,15-18). Il Levitico, il profeta, i Rabbini e infine Gesù ci insegnano invece che ognuno di noi è responsabile di tutti gli altri perché ogni figlio e figlia di Dio sono carne e sangue nostri, sono le nostre credenziali davanti di salvezza o il nostro certificato di dannazione.
San Paolo codifica tutto questo nella frase lapidaria: «Tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,23). Nella Chiesa non possono esservi rapporti finti, motivati dal successo personale o dall’afferma-zione di se stessi perché nessuno è chiamato per sé, ma tutti riceviamo una vocazione in funzione di una comunità, in vista dell’umanità dove Dio ci pone a vivere e ad operare. I Corinzi si divertivano a giocare a chi fosse più intelligente, più sapiente e ridevano dietro a Paolo che annunciava l’annichilimento di un Dio che lascia crocifiggere la suo onnipotenza per mettersi sullo stesso piano dell’umanità affaticata e dolente. Paolo non adatta il suo vangelo alla vanagloria dei suoi Corinzi, ma gli annuncia che il loro «credersi superiori» è l’inizio della loro rovina perché Dio stesso li confonderà disperdendoli come pula al vento.
«Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio». Se siamo di Cristo, significa che assumiamo il suo vangelo come criterio delle nostre scelte e della nostra vita e se facciamo ciò, è istintivo e naturale guardare agli altri come espressione visibile del volto di Dio e rivelazione della sua Persona. Ogni uomo e ogni donna sono per noi il monte Sinai da cui Dio rivela il suo volto e il suo cuore. Per questo non possiamo avere paura né del futuro che è nelle mani di Dio e a guida dello Spirito, né degli altri, specialmente poveri, emarginati, immigrati, derelitti, profughi che sono l’immagine autenticata di Dio che è povero, emarginato, immigrato, derelitto e profugo. Se veramente vogliamo vivere la nostra fede, prendiamo sul serio le parole di Gesù, oggi rivolte a noi: «21Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Non succeda a noi quello successe all’uomo del racconto di Mc perdendo l’occasione della sua vita di passare dalla religione alla fede, preferendo restare solo piuttosto che immergersi nell’umanità di Dio: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,21-22).
Se guardiamo il testo di Mt e lo mettiamo in parallelo con quello analogo di Lc vediamo molte differenze che saltano subito agli occhi. Riportiamo il testo in sinossi per facilitare il confronto da cui si vede subito che Mt scrive per gli Ebrei a cui cita l’esodo (cf Es 21,24) e il Levitico (cf Lc 24,20; 19,18), mentre Lc è più generico dal momento che il suo uditorio non ha dimestichezza con le Scritture ebraiche. Da ciò argomentiamo che la Parola di Dio deve essere adattata e incarnata in ogni cultura, senza con questo identificarsi con una particolare.
Un’altra diversità tra i due vangeli riguarda la forma letteraria. Mt usa la struttura antitetica: «Avete inteso che fu detto … ma io vi dico» con cui mette a confronto l’insegnamento della tradizione giudaica o «Toràh orale» con il suo annuncio liberatorio. Di forma antitètica non vi è traccia in Lc il quale a sua volta elimina ogni riferimento a peccatori e pagani (cf Mt 5,46-47) e si limita a parlare di peccatori in genere (cf Lc 6,33-34). Dal punto di vista della storia del testo, pare che la forma di Mt sia più antica di quella di Lc che chiaramente è un adattamento ad un pubblico che gli Ebrei consideravano «pagani/gentili». Ecco il testo in sinossi:
 
Mt 5
Lc 6
38Avete inteso che fu detto:
 
Occhio per occhio e dente per dente.
 
39Ma io vi dico
27Ma a voi che ascoltate, io dico:
di non opporvi al malvagio; anzi,
amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,
 
se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra,
40e a chi vuole portarti in tribunale
 
e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.
a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica.
41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due.
 
42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
 
43Avete inteso che fu detto:
 
Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico.
 
44Ma io vi dico:
 
amate i vostri nemici
e pregate per quelli che vi perseguitano,
35bfate del bene
45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli;
35de sarete figli dell’Altissimo,
egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni,
e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
35eperché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
 
46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete?
Non fanno così anche i pubblicani?
Anche i peccatori amano quelli che li amano.
47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli,
che cosa fate di straordinario?
 
quale gratitudine vi è dovuta?
Non fanno così anche i pagani?
33bAnche i peccatori fanno lo stesso.
 
 
34bAnche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.
 
35ce prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande
48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
 
La conclusione di Mt 5,48: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» deve intendersi come conclusione di tutte le sei antitèsi prese nel loro complesso e non solo dell’ultima. In essa troviamo il tema ebraico della «perfezione» che l’Ebreo concepisce come l’adempimento di tutte le prescrizioni della Legge, quindi dell’osservanza dei 613 precetti che sintetizzano tutta la Toràh, come insegnavano i rabbini. Mt va oltre questo formalismo quasi burocratico e annuncia che «la perfezione» sta nella natura di Dio che si esprime nella gratuità, cioè nel dono di sé libero e liberante che i credenti sono chiamati ad imitare. Egli prende ad esempio l’agire di Dio che nel mandare il sole o la pioggia non fa discriminazione tra «peccatori e giusti», ma porta il «compimento della Legge» e il superamento del formalismo farisaico (cf Mt 5,17.20; 19,21). Lc invece non parla di ideale di perfezione, ma si limita più moderatamente, ad parlare di bontà e misericordia, concetti più accessibili al mondo greco (cf Lc 6,36).
La narrazione di Mt è molto elaborata, come d’altronde anche quella di Lc: enuncia il precetto della Toràh che desume sia dalla Toràh stessa (qui il Levitico) sia dalla tradizione rabbinica (qui la serie dei «Avete inteso che fu detto», sottinteso «dai maestri/rabbini». A questo insegnamento, scandito in secoli di tradizione (almeno dal sec. III a.C.) Mt oppone il comandamento della nuova giustizia cioè la gratuità, formulato all’interno del capitolo 5 nello schema della triade come in un crescendo: «fratello, malvagio, nemico» (cf Mt 5,22.34-35 e 39-41). Di seguito il testo per vedere l’andamento in crescendo come in una esecuzione musicale:
 
1.       «22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. 34Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re» (Mt 5,22.34-35).
 
2.       «39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due» (Mt 5,39-40).
 
3.       «44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»(Mt 5,44-45).
 
A questa triade seguono due esemplificazioni illustrative, desunte dall’ambiente ebraico (riferimento ai pubblicani in Mt 5,46) e uno dal mondo pagano (riferimento al saluto in Mt 5,47). I due esempi hanno una portata superiore perché dicono che la morale portata da Gesù è sganciata sia dalla religione ebraica che è ripiegata solo sul popolo di Israele, sia dalla filantropìa dei popoli non ebrei che possono considerasi autosufficienti. L’annuncio di Gesù è libero e ad esso possono accedere Ebrei e Pagani perché ora sono cambiati i criteri di vita: la religiosità o il paganesimo non sono più determinati dall’appartenenza fisica o geografica ad una certa etnìa, ma solo dalla coscienza e dal grado di coinvolgimento che essa è capace di realizzare.
Questo percorso è una premessa a quanto avverrà successivamente quando si compirà definitivamente nel momento stesso della morte di Dio: «Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» permettendo al centurione romano, pagano per eccellenza e impuro per definizione di contemplare la «santità di Dio» nel «Santo dei santi» trasferito nel corpo straziato di Gesù: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,38.39). Ora si compie definitivamente l’anelito di Mosè che chiede a Yhwh di mostrargli la sua gloria (cf Es 33,18), ma a lui non è concesso: «Tu non potrai vedere il mio volto» (Es 33,20). La nuova morale e la nuova giustizia sono consegnate ad Ebrei e Pagani ed essi insieme possono salire sul monte del Signore e ricevere quella rivelazione della persona stessa di Dio che fu negata a Mosè.
Questa è la novità di Gesù: non più la divisione tra credenti e non credenti, ma solo il progetto di un Dio che si rivela e invita l’umanità senza distinzione a salire sul monte come profetizzato da Isaia:
 
«3Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s'innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. 3Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. 4Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra» (Is 2,3-4).
 
Nonostante le differenze, l’insegnamento di Mt e di Lc è lo stesso: l’amore portato e richiesto da Cristo deve essere liberato dai condizionamenti «naturali» in cui istintivamente si esprime: famiglia, gruppo sociale, comunità religiosa, comunità di interesse. L’orizzonte di Dio è l’universalità, dove non esistono categorie, nemmeno quella del nemico. Quando queste categorie si depositano o solo si profilano, significa che gli uomini negano la presenza di Dio e stanno operando per interessi di potere da cui Dio è estraneo.
            Gesù porta una vera rivoluzione perché stabilisce che l’amore è il «luogo» proprio della presenza sua, avulso da altri luoghi e spazi sacrali sia religiosi che familiari. L’amore ha in se stesso una dimensione divina che non riceve da riti o strumenti sacrali. Non è la Chiesa che genera l’amore, ma è l’amore che partorisce la Chiesa e questa diventa solo una dimensione dove l’amore possa esprimersi e generare ancora perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8). Dire che chi non crede non può vivere un amore totale è imprigionare Dio in catene di stretta osservanza, privarlo della sua natura e renderlo un idolo a buon mercato. Dio non è nella famiglia, non sta nella razza, non si gingilla con i nazionalismi e le civiltà cristiane o pagane, non è in cerca di radici, egli vive e si manifesta nell’atto stesso di amare perché nel momento in cui si dona, si consuma per l’eternità (cf Mt 5,48; Lc 6,36)
Ogni persona è capace di amare secondo le proprie possibilità, la propria storia, la propria cultura, la propria esperienza di amore vissuta o negata, con i propri desideri e i propri limiti. Nessuno che ama come può è escludo dall’amore di Dio, anche se apparentemente agli occhi della religione formale può apparire un amore «sbagliato» perché «Dio è Amore» ed è sempre più grande del cuore di chiunque (cf 1Gv 4,8; 3,20).
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

 
[breve pausa 1-2-3]
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.  [breve pausa 1-2-3]
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti.         [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale o dei fedeli      [Interventi liberi]
 
MENSA EUCARISTICA
Scambio della pace e presentazione delle offerte
Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, come insegna il vangelo (Mt 5,24), deponiamo la nostra offerta e riconciliamoci tra noi e con quanti abbiamo conti in sospeso per essere degni di presentare «l’offerta pura e santa di Melchìsedech perché diventi il pane santo della vita eterna e calice della nostra salvezza» (cf Canone romano).
 
La pace del Signore sia con tutti voi e con quanti toccherete con la vostra vita.
E’ con il tuo spirito. Il Signore della Pace sia con noi.
 
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
Nel Nome di Cristo e l’aiuto del suo Spirito, Pace su Gerusalemme, Pace sulla Chiesa e sul Mondo!
 
[tutti si scambiamo un segno di pace]
 
Presentazione delle offerte [la benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte). Accogli, Signore, quest’offerta, espressione della nostra fede; fa’ che dia gloria al tuo nome e giovi alla salvezza del mondo. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA V/c
«Gesù modello di Amore»
 
Il Signore sia con voi.             E con il tuo spirito.    In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.                    È cosa buona e giusta.
 
E veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore.
Hai parlato alla comunità di Israele, riunita nel deserto e ha detto: Siate Santi perché Io-Sono santo in mezzo a te, popolo mio (cf Lv 19,2).
 
In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli.
Tu ci chiedi di prenderci cura del fratello, perché tu, o Padre, ti prendi cura di noi (cf Lv 19,17).
 
Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli. Per questi segni della tua benevolenza noi ti lodiamo e ti benediciamo,  e uniti agli angeli e ai santi cantiamo l’inno della tua gloria:
Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
 
Ti glorifichiamo, Padre santo: tu ci sostieni sempre nel nostro cammino soprattutto in quest’ora in cui il Cristo, tuo Figlio, ci raduna per la santa cena. Egli, come ai discepoli di Emmaus, ci svela il senso delle Scritture e spezza il pane per noi.
Tu sei il Signore e noi siamo tuoi figli. Ci hai dato il comandamento di amare il prossimo come noi stessi (cf Lv 19,18; Mt 5,43).
 
Ti preghiamo, Padre onnipotente, manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue.
La nostra anima benedice te, o Padre del Signore nostro Gesù Cristo, e non dimentica tutti i tuoi benefici (cf Sal 103/102,2).
 
La vigilia della sua passione, mentre cenava con loro, prende il pane, e tenendolo alquanto sollevato sull’altare, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI:
QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Nel Signore Gesù, pane vivo disceso dal cielo, presente nella santa Eucaristia perdoni tutte le nostre colpe» (Cf Gv 6,51; Sal 103/102,3).
 
Allo stesso modo, prese il calice del vino e rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Padre buono, misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, non ci tratti secondo le nostre colpe, ma ci liberi nel sangue dell’Agnello pasquale (cf Sal 103/102, 8-.10).


 
Fate questo in memoria di me.
Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli lo temono (cf Sal 103/102, 13).
 
Mistero della fede.
Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta.
 
Celebrando il memoriale della nostra riconciliazione annunziamo, o Padre, l’opera del tuo amore. Con la passione e la croce hai fatto entrare nella gloria della risurrezione il Cristo, tuo Figlio, e lo hai chiamato alla tua destra, re immortale dei secoli e Signore dell’universo.
Tu, o Padre nostro, ci hai costituiti tempio dello Spirito Santo per accogliere il Vangelo del tuo Figlio con cuore puro (cf 1Cor 316).
 
Guarda, Padre santo, questa offerta: e Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso di te. Dio, Padre di misericordia, donaci lo Spirito dell’amore, lo Spirito del tuo Figlio.
Vieni, Spirito Santo, e prendi possesso del tuo tempio che tu illumini dal cielo con un raggio della tua luce.
 
Fortifica il tuo popolo con il pane della vita e il calice della salvezza; rendici perfetti nella fede e nell’amore in comunione con il nostro Papa …, il Vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare …. e i cristiani perseguitati nel mondo a motivo della loro fede.
Noi, assemblea vivente, siamo tuoi, o Padre, perché redenti dal Cristo e santificati dal tuo Spirito. (cf 1Cor 3,23).
 
Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli; infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi: fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti.
«Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
 
La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo.
«Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,46).
 
Ricordati anche dei nostri fratelli che sono morti nella pace del tuo Cristo, e di tutti i defunti dei quali tu solo hai conosciuto la fede: … ammettili a godere la luce del tuo volto e la pienezza di vita nella risurrezione; concedi anche a noi, al termine di questo pellegrinaggio, di giungere alla dimora eterna, dove tu ci attendi.
Tu, o Padre, sei la mèta che ci ha indicato il Signore Gesù quando ci ha detto: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
 
In comunione con la beata Vergine Maria, con gli Apostoli e i martiri, e tutti i santi innalziamo a te la nostra lode nel Cristo, tuo Figlio e nostro Signore. [Pausa]
PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO, A TE, DIO PADRE ONNIPOTENTE, NELL’UNITÀ DELLO SPIRITO SANTO, OGNI ONORE E GLORIA PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI. AMEN.
 
Padre nostro in greco (Mt 6,9-13)
Idealmente riuniti con gli Apostoli della Chiesa delle origini, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro, che sei nei cieli,
Pàter hēmôn, ho en tôis uranôis,
sia santificato il tuo nome,
haghiasthêto to onomàsu,
venga il tuo regno,
elthètō hē basilèiasu,
sia fatta la tua volontà,
genēthêtō to thelēmàsu,
come in cielo così in terra
hōs en uranô kài epì ghês.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
Ton àrton hēmôn tòn epiùsion dòs hēmîn sêmeron,
e rimetti a noi i nostri debiti,
kài àfes hēmîn tà ofeilêmata hēmôn,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
hōs kài hēmêis afêkamen tôis ofeilètais hēmôn
e non abbandonarci alla tentazione,
kài mê esinènkēs hēmâs eis peirasmòn,
ma liberaci dal male.
allà hriûsai hēmâs apò tû ponērû. Amên.

 
Antifona alla comunione (Gv 11,27):«Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
 
Dopo la Comunione
Da Gustavo Gutiérrez, Il Dio della vita
[Fonte: Fraternidade della Comunità del Bairro del Goiás (Brasile), a cura di, Giorno per giorno del 01 Febbraio 2011]
 
L’amore per Dio e per il prossimo rappresenta due dimensioni fondamentali del Vangelo di Cristo. Alcune tensioni che viviamo nella chiesa hanno la radice nella maniera rilassata con cui interpretiamo il rapporto fra queste due esigenze. C’è chi enfatizza l’amore per Dio in modo tale da far apparire la relazione con il prossimo come qualcosa di secondario, che si aggiunge a quanto è realmente importante; in tale prospettiva è difficile presentare sia l’importanza dell’inserimento storico del cristiano, sia le esigenze derivanti dall’orfano, dalla vedova e dallo straniero. D’altra parte alcuni suggeriscono che l’essere cristiani si manifesta in forma poco meno che esclusiva nell’impegno e nella solidarietà verso gli altri. Così le urgenze di situazioni inumane e profondamente ingiuste sembrano portare ad agire più che a pensare; ma allora preghiera, celebrazione, sapere e assaporare la Parola di Dio - espressioni vitali del mondo della gratuità, in cui si colloca la nostra relazione con il Signore - perdono il loro significato e la loro portata ne è sminuita. Non ci troviamo, qui, di fronte a due servizi - quello di Dio e quello della ricchezza - propri di chi ha un “animo doppio”; si tratta di un solo amore che non può separare le sue diverse espressioni, perché vestire l’ignudo è vestire il Signore stesso. Soltanto i puri di cuore, coloro che vivono la propria fede con integrità, possono cogliere questa identificazione fra Cristo e il povero. È importante notare, inoltre, che chi pretende di cercare Dio disinteressandosi del prossimo non troverà il Dio della Bibbia. Troverà forse un Dio primo motore di tutto ciò che esiste o spiegazione del creato, ma non il Dio annunciato da Gesù Cristo, che è inseparabile dal suo Regno, ossia dalla sua volontà di amore e di giustizia per tutti gli esseri umani. Riconoscere Dio come Padre implica inevitabilmente la costruzione di una reale fraternità tra di noi. D’altra parte, chi nella pratica si limita all’impegno verso l’altro corre il rischio di vedere che questi - in quanto essere di carne ed ossa - gli sfugge dalle mani. La gratuità non è soltanto nell’ambito del nostro incontro con Dio, ma anche nel reciproco riconoscimento tra le persone umane. Non ci sono vie di mezzo. Se vogliamo restare con uno solo di questi amori, li perderemo entrambi.
 
Preghiamo (dopo la comunione). Il pane che ci hai donato, o Dio, in questo sacramento di salvezza, sia per tutti noi pegno sicuro di vita eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
 
Il Signore è con voi oggi e sempre                           E con il tuo spirito!
Il Dio che ci chiama a testimoniarlo con l’amore del prossimo, sia sempre davanti a voi per guidarvi,        Amen!
Il Dio che ci comanda di amare i nemici per imitarlo nella perfezione, sia dietro di voi per difendervi.
Il Dio che convoca Ebrei e Greci alla mensa dell’amore, sia accanto noi per confortarvi e consolarci.
 
E su tutti voi, che avete partecipato a questa liturgia nel segno di Gesù Ebreo per sempre, Figlio di Donna, Padre della Pace e Figlio dell’Uomo tra gli uomini, discenda dal cielo la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen!
 
L’Eucaristia termina come rito, l’Eucaristia inizia come vita.
Andiamo nel mondo e portiamo frutti di pace e di rinascita!
Rendiamo grazie a Cristo, il Figlio diletto del Padre disceso dal cielo.
 
_________________________
© Domenica 7a del tempo ordinario-A – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete – Genova
[L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica]
Paolo Farinella, prete – 20/02/2011 - San Torpete – Genova
 
 
AVVISI E APPUNTAMENTI
1.      Giovedì 17 febbraio 2011 sono a Reggio Emilia per un incontro organizzato dall’Associazione «Scuola di Etica e Politica - Giacomo Ulivi» su «Etica, Politica e Profezia». L’incontro si svolge alla Gabella via Roma 68, Reggio Emilia.
 
2.       Venerdì 18 e sabato 19 febbraio 2011 sono ad Assisi per un incontro con un gruppo di Teramo sul tema «La libertà nella Scrittura e nella tradizione giudaica», organizzato dalla parrocchia di Teramo (P. Lorenzo Massacesi). L’incontro si terrà sabato mattina 19 febbraio alle ore 10,00 all’Hotel «Ora Cenacolo Francescano», viale Patrono d’Italia 70.
 
3.      Martedì 22 febbraio 2011, ore 16,45 nella sala della Regione Liguria, in piazza De Ferrari a Genova (sotto i portici), incontro con Luigi Pedrazzi per fare il punto sulla situazione dei gruppi «Il nostro ‘58».
 
4.      Il giorno 23 febbraio 2010 è morto Mago Pasticca, al secolo Mario Arcangeli. Ricorre il suo primo anniversario della sua nascita al Regno di Dio,Vogliamo ricordarlo Domenica 27 febbraio 2011 alle ore 10,00 con la celebrazione della Messa che egli frequentava assiduamente.
 
5.      Sabato 26 febbraio, alle ore 17,30 in San Torpete, concerto per (Antonio Frigè) organo e tromba naturale (Gabriele Cassone).
 
6.      Lunedì 28 febbraio 2011 alle ore 18,30 a Palermo presso il salone della Chiesa Valdese, Via dello Spezio 43 (dietro il Politeama), organizzato da «Voci di Cittadinanza Attiva», incontro su «Etica e Politica». Intervengono Don Paolo Farinella, Pastore Giuseppe Ficara , Prof. Salvo Vaccaro.
 
7.      Martedì 1 marzo 2011 alle ore 17,30 nella Chiesa di San Giovanni Decollato, Piazza omonima – Palermo (accanto alla Questura), incontro sul tema «La sfida del dialogo interreligioso». Intervengono: Stefano Di Mauro, Rabbino della comunità ebraica di Siracusa; Giuseppe Ficarra, Pastore della chiesa Valdese di Palermo, Giuseppe Dispoto, Resp. Comunità religiosa islamica italiana; don Paolo Farinella prete della Chiesa cattolica di Genova.
 
8.      Mercoledì 2 marzo 2011, ore 21,00 a Palermo presso il salone della Chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, organizzato dal prof. Augusto Cavadi, filosofo e teologo, incontro colloquio sul tema: «Ragionando di teologia e amenità».
 


[1] «Siate circospetti nel giuramento, fate numerosi discepoli e costruite una siepe attorno alla Toràh» (Mishanàh, Pirqè Avot, I,1).
[2] Il Levitico si divide in cinque parti: sacrifici (cf Lv 1,1-7,38); investitura dei sacerdoti e inaugurazione del culto (cf Lv 8,1-10,20); puro e impuro (cf Lv 11,1-16,34); «Codice di Santità» (cf Lv 17,1-26,46); norme supplementari (cf Lv 27,1-34).
[3] L’espressione «Legge e Profeti» è una frase brachilogica, cioè concisa e sta ad indicare tutta rivelazione biblica scritta, secondo la tripartizione ebraica: «Toràh, Profeti, Scritti»: indicare i primi due equivale ad indicarli tutti. Brachilogia deriva dal greco «brachùs – corto/breve» e «lògos- discorso».
[4] La traslitterazione in italiano non è scientifica, ma pratica: come si pronuncia.
[5] Al tempo della conquista della terra di Cànaan, solo la tribù di Levi non ebbe territori e autonomia politica perché doveva dedicarsi al culto: «Il Signore, Dio d’Israele, è la loro eredità» (Gs 13,33.14; cf anche 14,3).
[6] Cf Es 21,23-25; cfr. Lv 24,19-20; cfr. Dt 19,18-21.
[7] La raccolta si compone di 282 sentenze che anticipano i codici penali di oggi. Fui scolpita su una stele di diorite (roccia simile al granito, ma più morbida) alta circa cm 204. Oggi si trova nel museo parigino del Louvre. E quasi certo che la legge del taglione come anche altre norme della Toràh siano ispirate a questa raccolta, più antica di circa 500 anni.
[8] Vi è discussione se il termine «prossimo» si riferisca esclusivamente al «connazionale» ebreo oppure in senso lato anche allo «straniero». Dal contesto di Lv 19 pare che qui si debba dare l’interpretazione stretta, cioè la prima perché immediatamente dopo vi è il comandamento che riguarda lo straniero e si usano le stesse parole usate per il prossimo: «33Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. 34Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,33-34).
[9] Talmud babilonese, Shabàt 31a. Il testo si trova formulato anche nel libro di Tobia: «kài hò misêis edenì poiêsēis – quello che odi non lo farai ad alcuno» (Tb 4,15). Il testo è interessante perché il Targum di Giònata traduce Lv 19,18 («Ama il prossimo tuo come te stesso») con le stesse parole di Hillel. Nel vangelo di Matteo la formula negativa di Hillèl è formulata in modo positivo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12). Ciò significa che l’insegnamento di Gesù non è assolutamente nuovo, ma s’innesta nel processo del pensiero religioso giudaico da cui si discosta per la forza rivoluzionaria ed esigente da punto di vista morale.
[10] Rabbì Moshè ben Maiymòn (acronimo RMBM vocalizzato in RaMBàM), in italiano Mosè Maimònide (1138-1204)
[11] I «pubblicani» citati in Mt 5,46 sono quei Giudei che avevano accettato di lavorare per i Romani, avendo ricevuto l’appalto della riscossione delle tasse, indulgendo spesso in prevaricazione e frode per cui erano considerati alla stessa stregua dei pagani e dei peccatori (Cf Mt 9,9; Lc 5,27).


Mercoledì 16 Febbraio,2011 Ore: 14:30
 
 
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