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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org  Domenica 2a del tempo ordinario – A 16 gennaio 2008,di Paolo Farinella, prete

 Domenica 2a del tempo ordinario – A 16 gennaio 2008

di Paolo Farinella, prete

Passate le feste di Natale, chiuse dalla festa dell’Epifania, inizia una pausa prima di addentrarci nel tempo di Quaresima. Questo spazio nella liturgia è occupato dalle prime domeniche del tempo ordinario del ciclo A che sospenderemo il «mercoledì delle ceneri» per riprenderlo dopo la Pentecoste. Il vangelo dominante del ciclo A è il vangelo di Matteo, ma ancora per una domenica, cioè oggi, la liturgia prolunga il sapore della contemplazione del Lògos proponendo per tutti e tre gli anni, brani del vangelo di Giovanni che riguardano il Maestro (Gv 1-29-34, Anno-A), i discepoli (Gv 1,35-42, Anno-B) e la ripresa dell’alleanza del Sinai nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12, Anno C).
C’è una logica in questo e riguarda la nostra formazione: prolungando la lettura del vangelo di Giovanni ancora per la 2a domenica del tempo ordinario, la Liturgia si preoccupa di insistere perché non ci lasciamo fuorviare dalle distrazioni natalizie, perché prolunga la contemplazione: il bambino nella mangiatoia è il Lògos eterno, cioè il disegno di salvezza, la prospettiva di vita che Adam nel giardino di Eden non accolse, dando così fondamento «originale» al rifiuto dei suoi discendenti: «[Egli] venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11). Il peccato di Adam non è un peccato di disobbedienza o di superbia, ma semplicemente il rifiuto di essere l’immagine riflessa del Lògos/Sapienza e quindi del progetto di Dio che si sarebbe realizzato, tramite Israele, nella storia degli uomini con l’alleanza del Sinai. Adam volle essere immagine di se stesso e per se stesso, rifiutando il primato di Gesù come «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione poiché in lui furono create tutte le cose» (Col 1,15-16): Adam è il figlio maggiore della parabola lucana detta «del figliol prodigo» (15,25-32).
La 1a lettura riporta il 2° canto del Servo di Yhwh che descrive in forma autobiografica la sua esperienza e la sua vocazione. Il linguaggio usato dall’autore è simile a quello di Geremia: «Il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe» (v. 5 con Ger 1,5). Il profeta non è chiamato per se stesso, ma per un compito universale: «essere luce delle nazioni» (v. 6) perché il «Servo» è il luogo della «epifania» della Gloria di Dio (v. 3). Celebrando l’Eucaristia, noi esercitiamo il ministero della profezia perché come assemblea manifestiamo la Gloria/Dòxa/Kabòd cioè Dio nel volto umano del Lògos.
La 2a lettura riporta l’incipit della 1a lettera ai Corinzi: la presentazione dell’apostolo e dei suoi collaboratori, i saluti e la benedizione di Dio. Avremo modo nelle domeniche seguenti di commentare questa lettera considerata tra le «maggiori» scritte da Paolo (Romani, 1-2 Corinzi, Gàlati), per cui ci limitiamo solo ad una presentazione molto generale. La comunità di Corinto non è stata fondata da Paolo, ma egli vi ha soggiornato per circa diciotto mesi tra il 50 e il 52. Corinto è una città cosmopolita e interculturale di pensieri e tendenze spesso inconciliabili. Essendo una città di mare, è teatro di stili di vita anche licenziosi che rendono difficile l’esistenza stessa della piccola comunità cristiana.
Sorgono infatti molte problematiche e difficoltà: a) il tentativo di trasformare il «vangelo della croce» in cultura di sapienza che in termini moderni cerca di trasformare il vangelo in religione dei valori o progetto culturale, generando inevitabilmente divisioni in gruppi e partiti; b) c’è anche il caso di un cristiano che convive con la sua matrigna, generando scandalo anche fra i pagani; c) si arriva all’assurdo che i cristiani per risolvere le loro liti su questioni irrisorie ricorrono ai giudici pagani, trasformando di fatto la loro testimonianza in contro-testimonianza; d) alcuni si pongono il problema se debba essere obbligatorio sposarsi o non sposarsi; e) altri si chiedono quale valore abbia mangiare le carni degli animali immolate agli ìdoli, che in sé stesse significano nulla, mentre per la gente semplice poteva essere uno scandalo di idolatria; f) un problema non semplice è anche quale valore debba avere il pasto eucaristico; g) infine quale rapporto c’è tra la fede e la risurrezione di Gesù.
A tutte queste domande e problemi di non poco conto, Paolo risponde dettagliatamente, dando un criterio di valutazione assoluto che troviamo nell’«inno all’agàpē/carità» (1Cor 13,1-8) che sarebbe meglio indicare come «inno a Cristo-Agàpē». E’ interessante vedere che in un contesto fortemente egemonizzato dalla cultura e dal confronto fra culture, che privilegia il tentativo di presentare la fede come processo culturale, Paolo urla l’opposizione tra la sapienza umana e la follia della croce che è «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Pagani» (1Cor 1,22). E’ impressionante l’attualità di questo grido in un tempo in cui larga parte della gerarchia cattolica e del mondo cristiano rinuncia a profetizzare lo scandalo e la stoltezza per accaparrarsi scampoli di valori che oggi sono e domani scompaiono, perdendo tempo ad invocare il cristianesimo come progetto culturale.
Nel saluto d’indirizzo, Paolo fa due affermazioni straordinarie perché pone sullo stesso piano la funzione di apostolo e quella dei credenti: «Paolo chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo» è espressione parallela con «a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti» (vv. 1.2). Troviamo anche l’espressione «chiesa di Dio che è in Corinto» come fondamento della teologia della chiesa locale che realizza in sé la totalità della Chiesa universale che in ogni luogo invoca il Nome del Signore nostro Gesù Cristo (cf v. 2). Grande è la responsabilità dell’assemblea liturgica perché esercita la profezia della Gloria che riceviamo dallo Spirito Santo. Noi ci introduciamo ad invocarlo con l’antifona d’ingresso (Sal 66/65,4): A te si prostri tutta la terra, a te canti inni, canti al tuo nome, o Altissimo.
Spirito Santo, tu chiami Israele ad essere «servo» della tua Gloria nel mondo, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu mandi la Chiesa ad essere nel mondo segno del tuo Nome, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la forza che sostiene il servizio evangelico della profezia, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai costituito Gesù il Messia luce delle Nazioni e dei popoli, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei lo sguardo di Dio che si china con dolcezza su ciascuno, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il canto nuovo che i redenti proclamano per Dio creatore, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu abolisci i sacrifici con l’obbedienza del cuore al volere di Dio, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci prepari ad offrire l’olocausto dell’obbedienza nella libertà, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la Legge d’amore scritta nel desiderio profondo del cuore, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu chiami Paolo ad essere apostolo del Cristo per volontà di Dio, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu chiami le chiese locali ad essere santificate in Cristo Gesù, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la voce che ci fa invocare il Nome del Signore Gesù, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la Pace e la Grazia di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ispiri Giovanni il Battista ad indicare in Gesù l’Agnello di Dio, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci convochi alle sorgenti del battesimo per conoscere Gesù, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, te che scendesti su Gesù ha contemplato Giovanni il precursore, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei sceso per rimanere su Gesù di Nàzaret consacrato Messia, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu scendi e rimani su noi, la santa Assemblea del Messia che viene,Veni, Sancte Spiritus!
 
Convocati al monte dell’Eucaristia per essere profeti della Gloria di Dio che si manifesta in Cristo luce delle nazioni, guardiamo alla storia dei popoli come luogo privilegiato in cui opera lo Spirito del Signore che guida il genere umano all’unità del Regno finale. Noi ancora una volta prendiamo coscienza che non siamo qui per conto nostro o per assicurarci la benevolenza di Dio al quale in contraccambio paghiamo il pedaggio di una manciata di tempo. Al contrario, siamo consapevoli di essere qui perché abbiamo risposto alla vocazione di cui ci parla Paolo nella 2a lettura di oggi: «chiamati ad essere santificati…ad essere santi» per realizzare la profezia del Levitico: «Sarete santi per me, poiché io, il Signore sono santo» (Lv 20,26)1. Nel momento in cui l’Eucaristia ci immerge nell’intimità di Dio, ci consegna alla storia come semi e strumenti di santità, cioè espressione visibile del volto glorioso di Dio. Per questo invochiamo la Trinità perché le nostre forze sono impari alla celebrazione della rivelazione della Gloria della Shekinàh:
 
(greco)2
Èis to ònoma
toû Patròs
kài Hiuiû
kài toû Hagìu Pnèumatos
Amèn.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e del Santo Spirito
 
Conoscere il fondamento della propria vita è il primo passa della fede che si apre all’azione dello Spirito che sprigiona la potenza della risurrezione che ognuno di noi porta seminato nel proprio cuore. Per conoscere Dio bisogna conoscere noi stessi, ma nessuno ci conosce più profondamente di Dio perché lui è la sorgente della nostra conoscenza. Noi siamo la sua immagine. Vernichiamone la corrispondenza con l’originale, interrogando la nostra coscienza sotto la guida dello Spirito Santo.
 
[Esame di coscienza. Pausa prolungata per dare all’anima il tempo di riflettersi]
 
Signore, spesso ci smarriamo nei sotterranei del nostro piccolo egoismo, Kyrie, elèison!
Cristo, che ci hai insegnato ad amare senza pretendere alcun ritorno compensativo, Christe, elèison!
Signore, per tutte le volte che non riusciamo a vedere lo Spirito scendere e rimanere, Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente che ha consacrato il «Servo di Yhwh» perché radunarsse Israele, la Chiesa e tutti i popoli; che ha chiamato Paolo ad essere apostolo del suo vangelo e chiama noi ad essere santi per invocare il suo Nome sulle genti di tutte le nazioni, per i meriti di tutti i servi e le serve di Dio che in tutti i tempi hanno dato gloria a Dio e all’umanità; per i meriti di tutti i cristiani che ogni giorno dànno la vita per la fede; per i meriti dell’apostolo Paolo che si è fatto servo del Servo di Yhwh, per i meriti di noi che oggi c’immergiamo nell’avventura eucaristica di Dio, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI… e pace in terra agli uomini della sua benevolenza. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. [breve pausa 1-2-3]
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Padre, che in Cristo, agnello pasquale e luce delle genti, chiami tutti gli uomini a formare il popolo della nuova alleanza, conferma in noi la grazia del Battesimo con la forza del tuo Spirito, perché tutta la nostra vita proclami il lieto annunzio del Vangelo. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Mensa della Parola
Prima lettura Is 49,3.5-6. Il profeta Isaia vive nel sec. VIII a.C. Una scuola di pensiero che si ricollega al suo insegnamento, un secolo più tardi, descrive un misterioso «Servo di Dio» in quattro poemetti (Is 42,1-8; 49,1-6; 50,4-9.10; 52,13-53,12) che hanno come modello la vita sofferente e perseguitata del profeta Geremia, icona del popolo oppresso. Il termine «servo» nella Bibbia è un titolo onorifico, riservato a chi rappresenta un sovrano. Il profeta che parla a nome di Dio è il suo «servo» per eccellenza. La chiesa primitiva vi ha intravisto la figura del Cristo colpito e crocifisso. Nel 2° poemetto, riportato oggi, assistiamo all’investitura del «Servo» in chiave universalistica sullo schema della vocazione di Geremia (Ger 1,5). Deluso dalla politica di Ciro che in un primo tempo aveva chiamato addirittura «Cristo», il profeta guarda al futuro e annuncia che Dio manderà un nuovo inviato che agirà con metodo non-violento. Il «Servo» di fronte alla violenza che lo circonda e lo sovrasta, risplende per la sua coerente resistenza non violenta, diventando così «Principe della Pace» (Is 9,5). Nella celebrazione dell’Eucaristia, mentre ascoltiamo il profeta, contempliamo il volto di Gesù, il «Servo» inviato da Dio come fondamento della Pace che educa alla non violenza, cioè al comandamento dell’amore.
Dal libro del profeta Isaia49,3.5-6
Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, — poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza — e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 40/39, 2.4ab; 7-8a; 8b-9; 10. Salmo di ringraziamento si compone di 18 versetti divisi in due parti: la prima (vv. 2-11) è un inno di ringraziamento e di abbandono che trabocca anche nella lode di «un canto nuovo» (v. 4); mentre la seconda parte (vv. 12-18) è intrisa di angoscia e pesantezza. Questa seconda parte ha ispirato il Sal 70/69 che risulta così un doppione. L’attualizzazione del Salmo c’insegna che nella lode e nell’angoscia noi siamo «del Signore», come c’invita Paolo: «sia che viviamo, sia che moriamo, siamo sempre del Signore» (Rom 14,8) perché l’obbedienza alla sua volontà è più grande di qualsiasi sacrificio e penitenza. Per questo anche noi, oggi possiamo annunciare «la sua giustizia nella grande assemblea» (v. 10, qui assente) della Pasqua della settimana, fondata sulla volontà di Cristo di dare se stesso come dono d’amore.
 
Rit.: Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà

1. 2 Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
4 Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.
Rit.
2. 7 Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi hai aperto,
non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato.
8 Allora ho detto: «Ecco, io vengo» Rit.
3. «Nel rotolo del libro su di me è scritto,
9 di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo».
Rit.
4.10 Ho annunciato la tua giustizia
nella grande assemblea;
vedi: non tengo chiuse le labbra,
Signore, tu lo sai.
Rit.

 

 
Seconda lettura 1Cor 1,1-3. Inizia la lettura continua della prima lettera ai Corinzi di Paolo. Questa lettera è considerata tra le «maggiori» di quelle attribuite a Paolo (Romani, 1-2 Corinzi, Gàlati). Una delegazione di Corinto raggiunge Paolo a Efeso nell’anno 57, durante il terzo viaggio apostolico per esporgli i problemi che assillano l’intera chiesa corinzia. La lettera è la risposta di Paolo «assente nel corpo, ma presente nello spirito» (1Cor 5,3) con la quale esercita tutta la sua autorità paterna, anche pesante e dura perché in ogni caso esigei autenticità nella verità. La comunità di Corinto è frantumata da divisioni e da scandali. Paolo offre la chiave di soluzione nel capitolo 13, in quello che si chiama «inno all’agàpē» perché nessun problema può essere risolto fuori da un contesto di amore. Il brano di oggi riporta l’intestazione della lettera , i saluti e l’invocazione della pace che diventa grazia di cui l’Eucaristia è il compimento.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 1,1-3
Paolo, chiamato a essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, 2alla chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi 3insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: 3grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo. - Parola di Dio.
 
Vangelo Gv 1,29-34.La 2a domenica ordinaria-A riporta ancora il vangelo di Giovanni, mentre la lettura continua di Matteo inizia con la 3a. Il brano del vangelo odierno è tratto dal prologo che è strutturato sullo schema settenario per richiamare Gen 1 dove si descrive la settimana della creazione. L’autore vuole mettere in relazione la creazione dell’universo e la redenzione di Gesù che in questo modo diventa la chiave di lettura (ermeneutica)di tutta la rivelazione: Gesù, il Lògos preesistente al creato è il senso di tutto ciò che esiste (Gv 1,3). La testimonianza di Giovanni Battista, che qui indica l’Agnello di Dio, trova influenze anche nei Sinottici (cf Gv 1,23.26 con Mt 3,3.6 e Gv 1,27con Lc 3,16). Il fatto è collocato nel 2° giorno della prima settimana operativa di Gesù. La figura dominante è Giovanni il Battista che battezza in acqua (cf vv. 31.32 con Gen 1,2) per preparare all’incontro con «l’agnello di Dio» (v. 29). Fin dall’inizio troviamo la domanda cruciale che accompagna tutto il IV vangelo: «Chi sei?» (vv.19.21.22) che è la domanda chiave per cominciare ad interrogarsi sulla personalità di Gesù. Giovanni Battista non attira l’attenzione su di sé, né si mostra per quello che non è. Egli ha coscienza di essere un testimone esemplare perché ha «visto lo Spirito» (v. 32). Solo se vediamo lo Spirito possiamo sapere chi è Gesù perché soltanto lo Spirito consoce le profondità di Dio e i segreti dell’uomo(cf 1Cor 2,10-12). L’Eucaristia con la duplice mensa della Parola che Pane diventa, è la scuola che educa alla visione dello Spirito di Cristo risorto.
 
Canto al Vangelo Gv 1,14.12a.
Alleluia. Il Verbo carne si fece e venne ad abitare in mezzo a noi; a quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio.
Dal Vangelo secondo Giovanni1,29-34
In quel tempo, 29 Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30 Egli è colui del quale io ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. 31 Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua perché egli fosse fatto manifestato a Israele». 32 Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33 Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua, mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. 34 E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. 35 Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli. - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Oggi, partendo dal vangelo, facciamo un’applicazione delicata, ma determinante. La 2a domenica del tempo ordinario dei tre cicli (A-B-C) esula dallo schema generale, ma si attarda ancora sul vangelo di Giovanni: nei tre anni viene letto tutto il capitolo primo e il racconto delle nozze di Cana che chiude la settimana inaugurale di Gesù con la ripresa del tema dell’alleanza del Sinai (cf Es 19) riletta con il metodo del «midràsh». Ciò significa che la liturgia propone nel triennio la lettura dell’intera prima settimana della vita pubblica di Gesù introdotta dal solenne prologo seguito dalla cadenza ritmica dello scadere dei giorni: da «il giorno dopo» ripetuto tre volte (cf Gv 1,29.35.43) fino a alla nozze di Cana introdotte dall’indicazione temporale «tre giorni dopo» (Gv 2,1) che le collega direttamente all’assemblea d’Israele ai piedi del monte Sinai dove il popolo deve purificarsi per tre giorni prima di ricevere la Toràh. Le nozze di Cana costituiscono il «principio dei segni» (Gv 1,11) della nuova alleanza che porta a compimento quella del deserto4. Si crea così un collegamento tra Natale, Epifania, Battesimo e la domenica di oggi: il Lògos entra nella storia, noi lo contempliamo Messia e ora partecipiamo alla stipulazione del nuovo patto per una nuova umanità. Da domenica prossima cominceremo la lettura continua del vangelo di Matteo, che presenta ciò che Gesù ha detto e ha fatto ai cristiani provenienti dal Giudaismo, usando le categorie adatte alla loro mentalità.
Il capitolo 1 e i primi 12 versetti del capitolo 2 di Giovanni, diversamente dallo stile consueto dei vangeli ci offrono una serie di particolari e notizie così puntuali da farci pensare ad un racconto in parte storico, in parte teologico, dietro il quale l’autore inserisce un suo messaggio particolare. D’altra parte ogni volta che ci accostiamo al IV vangelo, abbiamo la sensazione che senza una guida ci smarriamo perché ogni parola ha sempre un significato profondo oltre quello immediato filologico. Proviamo ad entrare nell’anima del brano di oggi.
Il brano del vangelo, come è definito dal redattore finale, in origine doveva essere alquanto diverso riguardo alla logica successione degli avvenimenti dalla narrazione primitiva5 che si fondava sul tema della «conoscenza» che sviluppa quello di «luce-tenebre» e «mondo-suoi» che già erano stati illustrati nel Prologo (cf Gv 1,5.10.11). In modo particolare il termine «mondo» solo nel vangelo di Gv ritorna 78 volte e 105 nell’intera opera giovannea (vangelo + 1-2-3 Lettere di Giovanni + Apocalisse). Da queste statistiche apprendiamo che il termine «mondo» è una parola importante per Giovanni, costituendo una chiave del vocabolario del IV vangelo. Quando in Gv 1,9-10, in appena due versetti, troviamo questo termine 4 volte, non possiamo andare oltre e fare finta che si stia parlando del tempo, ma dobbiamo fermarci e domandarcene la ragione:
«9[Il Lògos] era la luce vera, / che illumina ogni uomo, / [egli] che è venuto nel mondo. 10Egli era nel mondo / e il mondo fu fatto per mezzo di lui, / eppure il mondo non lo riconobbe» (nostra traduzione).
 
Il termine «mondo» (in gr. kòsmos) da Giovanni è usato con quattro significati diversi:
 
  • in senso geografico (= terra): [egli] che è venuto nel mondo;
  • in senso antropologico (= umanità): Egli era nel mondo;
  • in senso cosmologico (= universo): e il mondo fu fatto per mezzo di lui;
  • in senso etnico/religioso (= Israele): eppure il mondo non lo riconobbe
 
E’ questo lo scenario in cui Giovanni colloca il tema della «conoscenza» o meglio della non-conoscenza che nella forma negativa «Io non lo conoscevo» (Gv 1, 31.33) ricorre due volte. Giovanni attesta un processo in movimento: dalla non-conoscenza infatti passa alla visione/contemplazione che è la conoscenza allo stato puro6. Non a caso subito dopo è citato tre volte il verbo «vedere» (cf Gv 1,29.33.34), una volta per uno i verbi «manifestare» e «contemplare» (cf Gv 1,31.32) e due volte il verbo «testimoniare» (cf Gv 1,32.34). Vedere, manifestare, contemplare e testimoniare sono tutti verbi inerenti alla relazione che impone una esperienza, cioè un contatto e una trasfusione di vita fino all’intimità. Spesso nella nostra vita quotidiana:
  • noi non conosciamo, cioè non siamo in grado di sperimentare perché ci limitiamo alla superficie;
  • non vediamo perché ci accontentiamo di guardare distrattamente;
  • non contempliamo perché ci lasciamo abbacinare dalle luci della ribalta;
  • non ci lasciamo possedere dalla visione perché navighiamo a vista e a pelo d’acqua.
Abbiamo paura di Dio perché temiamo noi stessi o non ci fidiamo a sufficienza di noi stessi di cui abbiamo poca o affatto stima. Arriviamo all’altare «già prevenuti« sia verso di noi che verso Dio: non può perdonare uno come me; eppure l’indirizzo di Giovanni è chiaro: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1,29.36) che non è una visione estatica, ma un coinvolgimento passionale: «che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Il testo greco usa il termine «peccato –hamartìa» al singolare e non al plurale, intendendo con esso non «i singoli» peccati, ma l’atteggiamento di fondo, l’indirizzo, la tendenza, quella che con parole più moderne possiamo indicare con «l’opzione fondamentale».
In questo modo l’evangelista impedisce di trasformare la Parola in morale o catechesi moralistica e immerge in una dimensione di amore tra innamorati che si travolgono reciprocamente perché solo chi ama sa vivere nel profondo e sa cogliere le sfumature. Quanto tempo abbiamo perso con ascesi e mortificazioni e violenze contro natura nel tentativo inutile di raddrizzare atteggiamenti o peggio ancora comportamenti devianti, ricadendo sempre nelle stesse fragilità, senza mai curarci di guardare alla «direzione», alla tendenza, alla prospettiva che solo in una relazione decisiva e vitale trova fondamento e consistenza.
La deriva della Chiesa di oggi, nonostante il concilio ecumenico Vaticano II, è racchiusa tutta in questa situazione o condizione: quando la Parola di Dio è messa in naftalina e sostituita con i «piani pastorali» che sono contenitori di morte parole, utili solo a consumare carta da macero, vuol dire che la gerarchia annuncia se stessa e si dimena nella «non conoscenza», rischiando di impedire l’incontro tra persona e persona. Uno solo è il piano pastorale che la Chiesa universale, le diocesi, le parrocchie e i gruppi dovrebbero perseguire: offrire gli strumenti di lettura della Parola perché diventi cibo quotidiano e non ricettario di supporto da usare come prova e giustificazione delle proprie tesi.
Vi sono infatti due modi di usare la Bibbia: uno è quello dei manuali di teologia in uso prima del concilio e oggi ritornati di moda per i quali la Bibbia è solo «un mezzo» da cui estrapolare frasi e concetti a sostegno delle proprie tesi teologiche o ideologiche. L’altro invece si accosta alla Bibbia come una lettera d’amore: se ne nutre, la tocca, la sgualcisce, l’ama, la studia, la divora come il profeta Ezechiele (cf Ez 3,1-3) per farne il motivo della propria esistenza. Se si fosse preso sul serio l’invito del concilio a prendere in mano la Scrittura e si fosse attrezzato il popolo di Dio a possedere gli strumenti scientifici e spirituali per una lettura proficua, formativa e liberante, oggi non perderemmo tempo con le nostalgie del passato e con le liturgie asfittiche preconciliari, simbolo di una spiritualismo rachitico perché senza anima e senza alito di vita: riti morti per morti che presumo adorare un Dio morto, dimenticandosi che il Dio di Gesù non è «Dio dei morti, ma dei viventi! … il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe» (Mc 12,27.26). In altre parole, il Dio di cui Gesù è venuto a «fare l’esegesi» (Gv 1,18) è il Dio dei volti e dei nomi, cioè il Dio dell’incontro e della relazione d’amore. L’autore della 2a lettera a Timoteo ci ammonisce:
 
«Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente… consoci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza…Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare alla giustizia» (2Tm 3,14).
 
Si ha paura della Bibbia come dimostra il ripristino della liturgia tridentina che di colpo svuota la «Mensa della parola» a beneficio del ritualismo asettico e alienante. Il papa che ha concesso l’uso indiscriminato del messale tridentino di Pio V, non si è reso conto dell’assassinio che ha compiuto: per sovvenire alle debolezze malate di un gruppetto di alienati disincarnati, ha affamato la Chiesa intera, facendola morire di «fame della Parola» (cf Am 8,11). Egli non ha solo dato una possibilità in più, ma in forza della sua autorità papale, ha autorizzato e permesso a chi vuole di privarsi volontariamente e consapevolmente del lezionario che contiene il 74% della Bibbia in più del messale di Pio V, dove l’AT è solo l’1%.
E’ vero che lascia la possibilità di usare il lezionario di Paolo VI, ma egli fa finta di non capire che i nostalgici preconciliari vogliono proprio questo: eliminare ogni residuo del Vaticano II, specialmente la riforma liturgica di Paolo VI e in modo particolare il lezionario che è il simbolo visibile del cambiamento di rotta della Chiesa. E’ una responsabilità che il papa, a nostro avviso, non ha ponderato e che si porta davanti a Dio e di cui dovrà rispondere perché ha gettato il germe della confusione e della divisione nel cuore stesso della Chiesa: invece di unire, egli è stato e continua ad essere strumento e artefice di divisione e di scisma.
Non c’è altro modo per conoscere Cristo, se non conoscere le Scritture perché «il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). Noi non conosciamo le Scritture e di conseguenza non conosciamo Gesù, come afferma lapidariamente San Girolamo: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»7. La costituzione apostolica di Giovanni Paolo II«Fidei Depositum»per la pubblicazione del  Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC)8comincia con queste parole:«Custodire il deposito della fede è la missione che il Signore ha affidato alla sua Chiesa e che essa compie in ogni tempo». Questo concetto è ripreso in forma esplicita al n. 11 dello stesso CCC:
 
«Questo Catechismo ha lo scopo di presentare una esposizione organica e sintetica dei contenuti essenziali e fondamentali della dottrina cattolica sia sulla fede che sulla morale, alla luce del Concilio Vaticano II e dell'insieme della Tradizione della Chiesa. Le sue fonti principali sono la Sacra Scrittura, i santi Padri, la liturgia e il Magistero della Chiesa».
 
Compito della Chiesa nella storia è «custodire il deposito», espressione che dà il senso dell’immobilità, esprime l’immagine di un museo che «conserva» le memorie passate, cioè l’insieme «della dottrina cattolica» che inevitabilmente è intesa come un codice di verità, di filosofia, di spiritualità, di etica. Inevitabilmente si scade in un «sistema» abbastanza immobile e difficilmente rinnovabile come dimostra il tentativo di vanificare lo stesso concilio Vaticano II ritenuto a distanza di meno di mezzo secolo come rischioso per la stabilità del principio di autorità. Come si fa a cercare e trovare i «settanta significati» che ogni parola della Scrittura contiene, se la Chiesa è solo «un deposito», un ripostiglio, dove si accatasta il passato e lo si custodisce tra la polvere e le ragnatele? Hanno ragione i lefebvriani, quando affermano che dopo il concilio di Trento che ha «definito» (variante di «custodire») e il concilio Vaticano che ha dichiarato la «infallibilità del papa», nulla di nuovo è possibile, arrivando perfino a dire che anche i concili sono superflui perché ora Dio parla direttamente attraverso l’infallibilità del papa che da solo governa la Chiesa. I vescovi sono ridotti a prefetti vaticani, i preti sono i servi dei vescovi e i laici hanno il compito di dire solo «Amen».
Non è forse un sintomo grave il fatto che dai documenti ufficiali della curia romana è scomparsa la definizione conciliare della Chiesa come «popolo di Dio», sostituita da quella meno compromissoria di «Chiesa-comunione»?9. Il Concilio aveva messo «al centro» materiale delle assemblee conciliari, della catechesi, della liturgia, della teologia, degli studi e della vita della Chiesa, il «Libro», per affermare con un segno fisico e quindi visibile che la Chiesa è sotto la Parola, ne è garante e anche custode, ma non ne è padrona perché la Chiesa è discepola e serva della Parola.
Certo, non possiamo semplificare e banalizzare le problematiche complesse nello spazio ristretto della nostra riflessione, ma è evidente che il linguaggio del CCC appare «astratto» e difficilmente farà innamorare del Cristianesimo come di una fede che è un incontro «fisico» con una Persona vera che anche noi sperimentiamo sulla base della testimonianza, cioè del martirio di alcuni uomini e alcune donne che fin dal principio mangiarono e bevvero con lui (cf 1Gv 1,1-5). Anche noi vediamo con i loro occhi, anche noi sentiamo con i loro orecchi, anche noi come loro ad Èmmaus sperimentiamo qui e ora Gesù, nostro compagno di viaggio verso l’Eucaristia pasquale della domenica e con lui usciamo verso le strade del mondo a portare la «Parola» che è la carne stessa di Dio che si spezza come nutrimento che alimenta la fame di maggiore Parola e di maggiore comunione
A volte si ha l’impressione che la gerarchia cioè i vescovi, non abbiano ancora superato la paura del passato che vietava al popolo di Dio l’accesso alla Scrittura considerata appannaggio esclusivo di pochi «costretti» ad usarla. Si ha però il sospetto che l’impedimento dell’accesso alla Parola sia una strategia della «religione» che vuole il dominio delle coscienze e l’ignoranza ne è un mezzo potente. Limitando la conoscenza della Parola, non rimane, infatti, che la gerarchia come referente «fisica» e custode della volontà di Dio10 e l’obbedienza alla Parola diventa obbedienza alla gerarchia che può imporre, sempre in nome di Dio, anche i propri capricci, anche i propri limiti. Invece davanti a noi risuona il grido nel silenzio del deserto di Giovanni: «Ecco, l’Agnello di Dio», invito a superare il precursore e ad andare di corsa dietro al nuovo che avanza nella Persona del Cristo.
Paolo, che «sa» di essere «chiamato a essere apostolo», si rivolge ai cristiani di Corinto che riconosce come «chiamati ad essere santi»11 per cui Paolo pone la sua apostolicità sullo stesso piano della santità dei Corinzi perché tutte e due sono fondate su una «vocazione». L’essere apostolo e l’essere santo non dipende dalle qualità o dalla bravura o dal ruolo, ma unicamente da Dio «che convoca/chiama» a servizio del Regno. Paolo ha sempre avuto problemi con i cristinai provenienti dal Giudaismo, specialmente della cerchia di Giacomo, i quali si rifiutavano di riconoscerlo sullo stesso livello degli apostoli «chiamati» direttamente da Gesù al suo seguito (cf Mc. 1,16-20 e parall.). E’ questo il motivo per cui Paolo sia nel prologo della lettera ai Romani (cf Rm 1,1) sia qui tiene particolarmente a sottolineare che lui è «apostolo chiamato»12.
Se il popolo di Dio ha gli strumenti adeguati per «conoscere» e quindi capire la Scrittura, si riduce lo spazio della mediazione del clero e anche l’arbitrio con cui il clero può usare la Scrittura e manovrare le coscienze. La Scrittura, invece, è la lettera d’amore che Dio ha scritto a ciascuno di noi e noi abbiamo il sacrosanto diritto di leggerla e capirla nella nostra lingua materna, possedendone tutti gli strumenti culturali per conoscere testi scritti in altre culture e in tempi remoti13.
Oggi il vangelo ci pone di fronte al dovere della conoscenza che diventa visione e contemplazione perché si è realizzata una trasfusione di vita e di cuore. Giovanni non conosce perché gli mancano gli strumenti: egli battezza solo con acqua, ma non in Spirito Santo (cf Gv 1,26.31 e 32-33). E’ questo il motivo per cui Gesù pur dicendo che Giovanni è il più grande tra i nati da donna, ribadisce che «il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11; cf Lc 7,28; Gv 5,33-36). Giovanni conosce Gesù solo dopo avere visto lo Spirito Santo (cf Gv 1,34) che gli ha dato la chiave di comprensione delle parole del profeta Isaia (Is 11,2; 42,1-7; 61,1). Egli infatti presenta Gesù come «agnello di Dio che toglie/prende/porta via il peccato del mondo» (Gv 1,29), attribuendogli la funzione del Servo di Yhwh: «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto per le nostre colpe» (Is 53,4-5).
La 1a lettura che riporta il secondo canto del «Servo di Yhwh» che è il punto di congiunzione tra Paolo e Gesù perché tutti e due si ispirano a lui come modello: Paolo perché in quanto «apostolo chiamato» espliciterà in modo inequivocabile in Rom 1,1 il suo essere «servo di Cristo Gesù» allo stesso modo del misterioso personaggio isaiano che è «Servo di Yhwh»14; Gesù è indicato come «agnello ( gr.:amnòs) che toglie il peccato» (Gv 1,29 con chiaro riferimento al «Servo» di Isaia, il quale «si è caricato delle nostre sofferenze … trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53,4.5). Per questo diventa «luce delle nazioni», cioè guida e custode delle aspirazioni di salvezza del mondo intero.
Giovanni in greco usa il termine «amnòs – agnello» che traduce l’ebraico «sèh» che l’agnello del sacrificio. Però potrebbe essere che, parlando in aramaico vi sia un altro influsso perché in questa lingua un solo termine «tàlya» significa sia servo che agnello per cui è lecito supporre che Giovanni abbia pensato a Gesù sia come agnello sacrificale sia al «Servo di Yhwh». Se così fosse, come crediamo, l’identificazione di Gesù come «Servo» è un anticipo della pasqua dove sarà immolato come «agnello». D’altra parte un altro indizio lo abbiamo anche nell’ora della morte come testimonia Mc 15,34: «Alle tre», l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme si sacrifica l’«agnello»15.
L’autore del vangelo mette in bocca a Giovanni Battista l’espressione «e io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34) che è lo sviluppo di una cristologia ancora in costruzione: la formula «Figlio di Dio» non poteva essere usata dal Battista in questo contesto, ma è il risultato di una riflessione teologica della comunità giovannea. Se vogliamo conoscere Gesù dobbiamo inevitabilmente incontrare sia il Servo di Yhwh di Isaia sia l’Agnello di Giovanni, cioè prendere consapevolezza della missione di Gesù nel mondo che s’identifica con la sua morte donata come pegno di riscatto per tutti perché in «quella morte», lo Spirito di Dio consacra Gesù come signore dell’universo e primogenito di tutta la creazione (cf Gv 15,16; Col 1,15). Il brano del vangelo di oggi non può essere letto al di fuori del suo contesto come pianificato dall’autore perché ci troviamo non di fronte a duna cronaca asettica, ma siamo immersi in un cammino catecumenale formativo per giungere alla piena conoscenza della personalità di Gesù. Tutto il vangelo di Giovanni ruota attorno alla domanda cruciale: «Chi è Gesù» (cf Gv 12,34; 1,21.22; 8,25; 21,12). La nostra vita dovrebbe servire per rispondere ad essa e settimanalmente partecipiamo all’Eucaristia, rispondendo alla vocazione dello Spirito che ci convoca in «ekklesìa» per ascoltare la parola e per mangiare il Pane che ci dà forza e senso nell’affrontare il cammino della vita fino al monte di Dio, dove lo vedremo come egli è (cf 1Re 19,8; 1Gv 3,2).
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
[breve pausa 1-2-3]
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. [breve pausa 1-2-3]
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale o dei fedeli [Interventi liberi]
Mensa Eucaristica
Scambio della pace e presentazione delle offerte
Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, come insegna il vangelo (Mt 5,24), deponiamo la nostra offerta e riconciliamoci tra noi e con quanti abbiamo conti in sospeso per essere degni di presentare «l’offerta pura e santa di Melchìsedech perché diventi il pane santo della vita eterna e calice della nostra salvezza» (cf Canone romano).
 
La pace del Signore sia con tutti voi e con quanti toccherete con la vostra vita.
E’ con il tuo spirito. Il Signore della Pace sia con noi.
 
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
Nel Nome di Cristo e l’aiuto del suo Spirito, Pace su Gerusalemme, Pace sulla Chiesa e sul Mondo!
 
[tutti si scambiamo un segno di pace]
 
Presentazione delle offerte [la benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte). Concedi a noi tuoi fedeli, Signore, di partecipare degnamente ai santi misteri perché ogni volta che celebriamo questo memoriale del sacrificio del tuo Figlio, si compie l’opera della nostra redenzione. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA IV16
Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito. In alto i nostri cuori. Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. È cosa buona e giusta.
 
E’ giusto renderti grazie, è bello cantare la tua gloria, Padre santo, unico Dio vivo e vero: prima del tempo e in eterno tu sei, nel tuo regno di luce infinita.
Ci hai plasmati come tuoi servi profeti fin dal seno materno per manifestare la tua Gloria, Dio che sei Santo (cf Is 49,3.5; Lv 20,6).
 
Tu solo sei buono e fonte della vita, e hai dato origine all’universo, per effondere il tuo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della tua luce.
Tu mandi tra le nazioni ad annunciare con la vita che Cristo è la luce che viene nel mondo per illuminare coloro che cercano il tuo volto ( cf Is 49,6; Gv 1,9; Sal 27/26,8; 119/118,58).
 
Schiere innumerevoli di angeli stanno davanti a te per servirti, contemplano la gloria del tuo volto, e giorno e notte cantano la tua lode.
Kyrie, elèison! Christe, elèison! I cieli e la terra sono pieni della tua Gloria, tu che sei la preghiera d’Israele, il Santo, il Santo, il Santo (cf Is 6,3; Sal 22/21,4)
 
Insieme con loro anche noi, fatti voce di ogni creatura, esultanti proclamiamo:
Benedetto nel Nome del Signore colui che viene, il Servo di Yhwh, la Luce della nazioni (cf Is 49,6).
 
Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza: tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore.
Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo (cf Gloria dell’ordinario della Messa).
 
Atua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani operose hai affidato l’universo perché nell’obbedienza a te, suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato.
Tu ci hai creati ad immagine del Figlio, il primogenito di tutta la creazione che ci raduna nella santa Assemblea di coloro che ha riconciliati nel suo corpo (cf Col 1,15.22).
 
E quando, per la sua disobbedienza, l’uomo perse la tua amicizia, tu non l’hai abbandonato in potere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare.
Tu, o Signore, hai detto: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).
 
Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza, e per mezzo dei profeti hai insegnato a sperare nella salvezza.
Nei tempi antichi hai parlato ai nostri padri attraverso i profeti, ma ora parli a noi per mezzo del Figlio, irradiazione della tua Gloria (cf Eb 1,1.3).
 
Padre santo, hai tanto amato il mondo da mandare a noi, nella pienezza dei tempi, il tuo unico Figlio come salvatore. Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo ed è nato dalla Vergine Maria; ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana.
Al Signore Gesù non hai chiesto olocausto e vittime per le colpe, ma gli hai dato un corpo. Allora egli ha detto: Ecco, io vengo –come sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà (cf Eb 10,5-7; Sal 40/39,7-8)
 
Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia.
Lo Spirito Santo lo ha consacrato con l’unzione perché annunziasse il Vangelo ai poveri, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare l’anno di grazia del Signore (cf Lc 4,18-19; Is 61,1-2).
 
Per attuare il tuo disegno di redenzione si consegnò volontariamente alla morte, e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita. E perché non vivessimo più per noi stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi, ha mandato, o Padre, lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione.
Coloro che sono stati santificati nel Signore Gesù tu hai chiamato ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il Nome del Signore (cf 1Cor 1,2).
 
Ora ti preghiamo, Padre: lo Spirito Santo santifichi questi doni perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, nostro Signore, nella celebrazione del grande mistero, che ci ha lasciato in segno di eterna alleanza.
Lo chiediamo per i meriti del Signore Gesù che ce ne ha fatto promessa: «Il Consolatore, lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio Nome» (Gv 14,26).
 
Egli, venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine; e mentre cenava con loro, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.
Vengano la grazia e la pace da Dio nostro Padre e dal Signore nostro Gesù Cristo (cf 1Cor 1,3).
 
Allo stesso modo, prese il calice del vino e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.
Ricordati, o Padre, del Signore Gesù che «dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è sparso per voi» (Lc 22,20).
 
Fate questo in memoria di me.
Noi vedemmo e crediamo che il Signore Gesù è l’Agnello tuo che prende su di sé il peccato del mondo (cf Gv 1,29).
 
Mistero della fede.
Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta.
 
In questo memoriale della nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo, dove siede alla tua destra; e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.
Ti rendiamo grazie, o Padre, perché noi abbiamo udito, con i nostri occhi abbiamo veduto e con le nostre mani abbiamo toccato il Lògos della vita (1Gv 1,1).
 
Guarda con amore, o Dio, la vittima che tu stesso hai preparato per la tua Chiesa; e a tutti coloro che mangeranno di quest’unico pane e berranno di quest’unico calice, concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo, diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria.
Vieni, Spirito Santo, vieni Padre dei poveri, vieni datore di ogni dono (cf Inno Vespri Pentecoste).
 
Ora, Padre, ricordati di tutti quelli per i quali noi ti offriamo questo sacrificio: del tuo servo e nostro Papa …, del nostro Vescovo …, del collegio episcopale, di tutto il clero, di coloro che si uniscono alla nostra offerta, dei presenti e del tuo popolo e di tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero.
Noi abbiamo visto e contemplato lo Spirito Santo scendere come una colomba e posarsi su di lui (cf Gv 1,32).
 
Ricordati anche dei nostri fratelli che sono morti nella pace del tuo Cristo, e di tutti i defunti, dei quali tu solo hai conosciuto la fede… Ammettili alla luce della Shekinàh.
Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti e così la nostra fede non è vuota (cf 1Cor 15,20.14).
 
Padre misericordioso concedi a noi, tuoi figli, di ottenere con la beata Maria Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e i santi, l’eredità eterna del tuo regno, dove con tutte le creature, liberate dalla corruzione del peccato e della morte, canteremo la tua gloria, in Cristo nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in greco (Mt 6,9-13)
Idealmente riuniti con gli Apostoli della Chiesa delle origini, preghiamo, dicendo:
 
Padre nostro, che sei nei cieli,
Pàter hēmôn, ho en tôis uranôis,
sia santificato il tuo nome,
haghiasthêto to onomàsu,
venga il tuo regno,
elthètō hē basilèiasu,
sia fatta la tua volontà,
genēthêtō to thelēmàsu,
come in cielo così in terra
hōs en uranô kài epì ghês.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
Ton àrton hēmôn tòn epiùsion dòs hēmîn sêmeron,
e rimetti a noi i nostri debiti,
kài àfes hēmîn tà ofeilêmata hēmôn,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
hōs kài hēmêis afêkamen tôis ofeilètais hēmôn
e non abbandonarci alla tentazione,
kài mê esinènkēs hēmâs eis peirasmòn,
ma liberaci dal male.
allà hriûsai hēmâs apò tû ponērû. Amên.
 
Antifona alla comunione Gv 1,29: Ecco l’Agnello di Dio, che prende su di sé il peccato del mondo!
 
Dopo la comunione
Da Aelredo di Rievaulx17, La perfetta amicizia,prefazione di David M. Turoldo introduzione di Aldo Castagnoli Nuova Edizione , Sotto il Monte, 1995, 106-107.
 
«Anche se l’amico si sente offeso, tu continua a correggerlo. Anche se l’amaro della correzione lo ferisce, tu continua a correggerlo. Le ferite d’un amico sono più tollerabili dei baci degli adulatori. Riprendi dunque l’amico quando sbaglia. Soprattutto, però bada di correggere senza irritazione e senza asprezza, per non sembrare che stai sfogando la tua stizza invece di rimproverare l’altro. Ho conosciuto della gente che maschera l’intimo astio o il bollore della propria collera con il nome di zelo e di franchezza. Seguire le proprie reazioni istintive non ha mai giovato a nessuno, anzi fa molto male. Tra amici questo comportamento è inescusabile. Dobbiamo saper compatire l’amico, comprendere la sua fragilità, considerarne i limiti come se fossero nostri, correggerlo con umiltà e simpatia. Il rimprovero sarà fatto con volto mesto, a mezza voce, mescolando lagrime e parole. Non basta che l’altro veda: deve sentire che la correzione scaturisce dall’affetto e non da rancore. Se lui rifiuta il primo rimprovero, forse accetterà il secondo. Intanto tu prega, piangi, mostrati afflitto e conservagli un tenero affetto».
 
Preghiamo. Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l’unico pane di vita formiamo un Cuor solo e un’anima sola. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
 
Il Signore è con voi oggi e sempre E con il tuo spirito!
Il Dio che ha inviato il suo Servo non violento, sia sempre davanti a voi per guidarvi, Amen!
Il Dio che ha inviato Giovanni il Precursore a preparare la strada, sia dietro di voi per difendervi.
Il Dio che ci invia nel mondo suoi messaggeri d’amore, sia accanto noi per confortarvi e consolarci.
E su tutti voi, che avete partecipato a questa liturgia nel segno di Gesù Ebreo per sempre, Figlio di Donna, Padre della Pace e Figlio dell’Uomo tra gli uomini, discenda dal cielo la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen!
 
L’Eucaristia termina come rito, l’Eucaristia inizia come vita.
Andiamo nel mondo e portiamo frutti di pace e di rinascita!
Rendiamo grazie a Cristo, il Figlio diletto del compiacimento del Padre.
 
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© Domenica 2a del tempo ordinario-A – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete – Genova
[L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica]
Paolo Farinella, prete – 16/01/2011 - San Torpete - Genova
 
1 Ebr.: «Wehyytèm lî qedoshìm kî qadòsh‚ anî Yhwh»; gr.: «kài èsesthe mòi hàgioi hòti hàgios kýrios ho theòs hymôn» (cf anche Lv 11,44.45: 19,2; 1Pt 1,16). Sia in ebraico che in greco è travolgente il motivo della santità che non è la purità cultuale o la condizione per essere degni di Dio e quindi conquistare la sua benevolenza. Voi sarete «per me» santi….! Il motivo della santità è la persona stessa di Dio, in sé senza altra motivazione. La santità è un «diritto» di Dio perché è Dio, ma è anche un diritto nostro perché Dio ci appartiene. Non è una condiscendenza o una benevolenza. E’ un fatto. Salta qualsiasi ascesi o spiritualità che non abbia la motivazione di sé in Dio nella esclusiva logica del «per la tua gloria immensa».
2 La traslitterazione in italiano non è scientifica, ma pratica: come si pronuncia.
3 Il lezionario ufficiale riporta: «santi per chiamata» che è meno esatto e più brutto e non corrispondente al v. 1 e al v. 4, qui assente.
4 M. E. Boismard, Du baptême à Cana, édition du Cerf, Parigi 1956.
5 La ricostruzione del testo potrebbe essere la seguente: «31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse fatto manifestato a Israele; 33bma proprio colui che mi ha inviato 33ca battezzare nell’acqua, mi disse: 33d “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. 35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli. 29[Giovanni] vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. 32 Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (cf T. Maertens – J. Frisque, Guida dell’Assemblea cristiana, vol. 4, 44).
6 Nella visione contemplativa, conoscente e conosciuto diventano una cosa sola in una simbiosi di vita e di respiro: l’uno si annulla nell’altro e non esistono più confini di separazione e d’individualità perché ciascuno è l’altro e ambedue sono una «nuova unità», un «noi» nuovo che realizza completamente tutto l’«io» e tutto il «tu». Questo dovrebbe essere il rapporto sessuale che per la Bibbia è l’atto di conoscenza sperimentale che contiene il segreto della contemplazione e della visione perché il corpo diventa la trasparenza dell’anima e l’anima diventa la trasfigurazione del corpo. E’ il godimento e il piacere allo stato puro che s’identifica con la felicità. Tutto questo è Dio e si capisce perché la fede è solo una questione d’innamorati e non di adempimenti religiosi che appartengono piuttosto all’ambito della prostituzione perché si mercanteggiano prestazioni e favori.
7 San Girolamo, Commento al profeta Isaia,Prologo; cf Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla Parola di Dio, Dei Verbum 25.
8 La costituzione papale precede e presenta la pubblicazione del  Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC] redatto dopo il concilio ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1992, trentesimo anniversario dell’apertura del concilio ecumenico Vaticano II).
9 Cf Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, «Lumen Gentium», cap. II, dedicato interamente al nozione biblica di «popolo di Dio».
10 Papa Gregorio VIII nel 1075 pubblica Dictatus Papae con cui in 27 enunciazioni afferma l’autorità assoluta e indiscussa del papa. In queste dichiarazioni non viene mai menzionata la Scrittura (se non una volta nella proposizione n. 22 come garante dell’autorità assoluta papale). Da questo momento l’autorità della Scrittura passa alla persona del papa per cui si arriverà a proibirne la lettura diretta per evitare che ciascuno possa agire in base alla propria coscienza. Il primo atto ufficiale che proibisce la lettura pubblica della Scrittura è del concilio di Tolosa (1229) che nel canone 14 proibisce ai laici il possesso materiale della Bibbia. Questa decisione è avallata da papa Gregoria IX (1170 circa-1241). Alcuni anni dopo il concilio di Terragona (1234) emana un decreto con cui ordina a chiunque possegga una Bibbia di consegnarla entro otto giorni ai vescovi che hanno l’obbligo di bruciarle tutte. Il concilio di Trento non si pronuncia sulla lettura della Bibbia, ma nella Sessione 18 del 26-2-1562 compone un catalogo di libri di cui si proibisce la lettura. Il 24 marzo del 1564 il papa Pio IV pubblica la bolla papale Index librorum prohibitorum con cui emette dieci regole per l’attuazione del dettato conciliare. La quarta proibisce la lettura della Bibbia in lingua volgare senza l’autorizzazione esplicita del vescovo. Gregorio XV nel 1622 restrinse ancora l’uso della Bibbia ai fedeli, proibendola in modo assoluto e quindi revocando anche le licenze concesse ai vescovi. Nel 1631 Urbano VII riprese l’ingiunzione di Gregorio IX e ordinò a chiunque di consegnare eventuali copie della Bibbia per essere bruciate e questa volta pena la denuncia alla «santa inquisizione» e relative torture. In epoca recente fu Pio VII nel 1820 che condannò la traduzione italiana della Bibbia; vi incluse anche quella dell’arcivescovo di Firenze mons. Antonio Martini, pubblicata nel 1776. Ancora una volta la Bibbia fu posta all’indice dei libri proibiti! Nel 1960 Giovanni XXIII chiese a don Giacomo Alberione, fondatore della Pia Società San Paolo di predisporre una Bibbia economica, in modo che potesse entrare in tutte le case. Le edizioni Paoline misero in cantiere quella che fu chiamata la «Bibbia da mille lire» stampata in milioni di copie e diffuse con apposite giornate nell’ambito delle parrocchie. Il concilio ecumenico Vaticano II, convocato da papa Giovanni dedica una costituzione dogmatica all’importanza della Parola di Dio e ne auspica la diffusione capillare tra il popolo. Tra tutti e sedici i documenti conciliari, la Dei Verbum è forse il più bello e il frutto più maturo dell’intero concilio e degli ultimi venti secoli di Cristianesimo.
11 In greco c’è la stessa costruzione: «klētòs apostolos / klētòis haghìois» (cf nota Errore: sorgente del riferimento non trovata seguente).
12 Al v. 2 si ha l’espressione «alla chiesa di Dio – têi ekklesìai toûtheoû», dove il genitivo «di Dio» ha valore di «genitivo di origine» perché la Chiesa non è una folla che si raduna a caso, ma il frutto di una convocazione, la risposta ad una vocazione per ricevere una investitura apostolica/profetica. Lo stesso senso semantico si trova, infatti, nel termine «ekklesìa» composto dalla preposizione di origine «ek-» e dal nome derivato dal verbo «kalèō- io chiamo/raduno/convoco». Ne consegue che la Chiesa è «la chiamata, la convocata, la radunata “da” Dio» e solo per questo diventa «assemblea» dove ciascuno è «chiamato ad essere» il dono che è.
13 «Noi non conosciamo» ed è per questo che si rischia di tornare indietro ad una liturgia asfittica di Parola e tronfia di ritualismo, ad una concezione di Chiesa come «sistema» e non come popolo vitale di Dio, ad una organizzazione di verità e moniti staccati dalla vita degli uomini e delle donne, preoccupati più dell’integrità del «sabato» che della gioia e della sofferenza delle persone nella loro concretezza (cf Lc 13,10.17).
14 Dichiarandosi «servo di Cristo Gesù» e non semplicemente di «servo di Dio», Paolo pone Gesù sullo stesso piano di Yhwh, affermando così un aspetto della sua teologia cristologica e cioè la divinità di Gesù.
15 Nella omelia della domenica 2a ordinaria-B scrivemmo: «Nel Tempio di Gerusalemme, infatti, due volte al giorno, al mattino alle ore 9,00 e alla sera alle ore 15,00 veniva immolato un agnello detto «tamid/perpetuo» (Es. 29, 42). Alle 16,00 il sacrificio era terminato. In 19,33-37 Gv, attraverso le modalità della crocifissione (le ossa non spezzate, il colpo di lancia, ecc.), suggerisce l’idea che Gesù «consegnò lo spirito» (19, 30) nel momento in cui nel Tempio il Sommo Sacerdote immolava l’agnello/ tamid. In questo modo nel racconto, insieme alle parole del Battista e alla indicazione dell’ora, l’evangelista ci prepara alla gloria dell’ora suprema: l’ora della morte in croce dell’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo che è l’agnello mansueto condotto al macello, descritto da Is 53,1-12. In questo contesto, la chiamata dei primi discepoli ha una importanza speciale perché essi sono chiamati per rendere testimonianza anticipata all’ora della morte che è l’ora della Gloria del Figlio di Dio che offre se stesso in sacrificio «tamid/perpetuo». Vi è sottesa un’altra idea: Gesù è l’agnello di Dio che sostituisce l’agnello sacrificale del Tempio, dando inizio così ad un altro culto, centrato sul corpo del Signore (cf Gv 2,19-21)».
16 La Preghiera eucaristica IV, che s’ispira ad antiche anafore orientali, come quella di San Basilio, è stata formulata ex novo nella riforma liturgica di Paolo VI e può considerarsi un frutto genuino del concilio Vaticano II. La sua struttura è unitaria e anche il prefazio non può essere cambiato perché nell’insieme espone la storia della salvezza o meglio la Salvezza di Dio che si fa storia. La preghiera eucaristica è il rendimento di grazie che presenta a Dio nel Nome di Gesù col, sostegno dello Spirito suo questa Storia salvata eppure ancora bisognosa di redenzione. Usandola, volgiamo essere riconoscenti a Dio per il dono del Concilio e della riforma liturgica che superando la visione tridentina della ritualità centrata sulla persona del prete, ci ha apre alla dimensione salvifica del Cristo che si attua nell’Assemblea orante, espressione sacramentale dell’intera Chiesa «cattolica», «sacramento o segno dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, 1).
17 Nato a Hexham, in Inghilterra, nel 1109, Aelredodi Rievaulx, monaco e mistico, passò la sua giovinezza alla corte del re David I di Scozia, ma nel 1135 decise di lasciare ogni cosa per entrare nel monastero cistercense di Rievaulx, nello Yorkshire, di cui era abate Guglielmo, discepolo di s. Bernardo. Con l’appoggio di un amico e confratello di nome Simone (morto nel 1142 in fama di santità) compì presto grandi progressi nella vita religiosa. Questo lo portò a capire come l’amicizia, rispettosa della sacralità e del mistero dell’altro, senza strumentalizzazioni, né tanto meno complicità, quando si lasci modellare da un comune sentimento e desiderio di bene, è di grande aiuto nel cammino dell’unificazione/ade-sione del cuore alla volontà di Dio. A partire da questa esperienza compose un piccolo trattato, dal titolo De Spirituali Amicitia. Benché ripetutamente gli fosse chiesto di accettare la nomina a vescovo, sempre rifiutò per amore alla vita religiosa. Dovette però accettare l’elezione ad abate nel 1143. La sua fama di predicatore e scrittore si sparse ben presto in tutto il paese. Questo, ma più ancora, la sua personale santità, contribuì ad attrarre numerose vocazioni al monastero di Rievaulx, che arrivò a contare oltre seicento monaci. Indebolito dalle malattie, che lo afflissero negli ultimi anni di vita, morì il 12 gennaio 1167.
Nell’introduzione al libretto di Aelredo di Rievaulx, David M. Turoldo scrive: «Vogliamo credere che almeno in angoli recessi della vita, in qualche recinto d’anima, dentro ben custodite e beate solitudini, in qualche chiostro dimenticato e persino in angoli insospettati nella stessa città, ci sia ancora chi custodisce una simile grazia, a ricchezza dello stesso esistere; e per il fatto solo che esista abbellisce la terra intera. Perché, non ci fosse altro che l’amicizia: tu essere amico di qualcuno e che qualcuno ti sia altrettanto amico, ecco, sarebbe già questo una sufficiente ragione di vivere una qualsiasi vita, anche se durissima e molto provata; sarebbe ragione sufficiente perché esista la stessa creazione, e questa storia comunque sia».


Giovedě 13 Gennaio,2011 Ore: 10:16
 
 
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