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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Domenica 30a Tempo Ordinario -C- 24 ottobre 2010,di Paolo Farinella, prete

Domenica 30a Tempo Ordinario -C- 24 ottobre 2010

di Paolo Farinella, prete

La liturgia della domenica odierna, 30a del tempo ordinario-C, prosegue la tematica di domenica scorsa, ma da un altro punto di vista. Domenica scorsa abbiamo riflettuto sul significato e sul contenuto della preghiera, oggi proseguiamo sull’atteggiamento interiore che conduce alla preghiera dal punto di vista di Dio. Dopo avere esaminato la prospettiva teologica del pregare, siamo giunti alla conclusione che o la preghiera è centrata sulla persona stessa di Dio o quando crediamo di pregare noi non facciamo altro che parlare con noi stessi. Oggi ci poniamo dalla parte del credente per vedere quale deve essere il suo grado di «giustizia» per avere la certezza, rivolgendosi a Dio, di essere ascoltato. Ancora una volta siamo rimandati alla relazione come fondamento della vita che si esprime in modo assoluto e totale nell’amore, la relazione per eccellenza perche «luogo» d’incontro di «due libertà che camminano insieme».

La 1a lettura è tratta dal Siràcide e quindi appartiene alla tardiva scuola sapienziale del sec. I a.C., ma i contenuti del brano di oggi hanno il sapore profetico dirompente di Amos o Isaia, vissuti nel sec. VIII a.C. L’autore smonta la religiosità del perbenismo, quella che vive di apparenze e di riti appariscenti, affermando che l’atteggiamento religioso deve essere un’attitudine interiore, sintesi della totalità della vita. Immaginiamo la stessa scena che descrive l’autore: un ricco e un povero salgono al tempio. Il ricco in quanto ricco crede di comprare Dio con abbondanti sacrifici, laute offerte, preghiere sovrabbondanti di parole, pensando che così Dio possa sorvolare sulle ingiustizie che egli ha commesso durante la settimana, sfruttando gli operai, frodando sul peso delle bilance, ingannando nelle transazioni. Dal canto suo il povero non può che offrire la sua desolazione perché non può competere col ricco e nemmeno può pretendere di ingraziarsi Dio: è troppo consapevole del suo limite per avanzare pretese. Il povero è e resta se stesso.
Ci troviamo di fronte a due «sacrifici», anzi a due modelli di sacrifici. Da una parte vi è il ricco che crede di tenere Dio al guinzaglio, perché si ritiene giusto, osservante scrupoloso dei riti e non viene meno agli obblighi prescritti dalla religione materiale. Egli non ha coscienza di essere un religioso non-credente che compie gesti di religione, mentre il suo cuore è lontano dal Dio che onora solo con le labbra (cf Mc 7,6; Mt 15,8; Is 19,13). Dall’altra parte c’è il povero che non sale al tempio a mani vuote perché porta la coscienza del suo bisogno di perdono. Egli non ha altro che il suo fallimento e la sua disperazione: nulla chiede, ma si abbandona alla misericordia di Dio. Il povero peccatore è vicino a Dio perché lo cerca e lo incontra (cf Lc 15,1), il ricco è lontano da Dio perché il suo Dio sono «le [sue] molte ricchezze» (cf Mc 10,22). L’autore non dà un giudizio morale sui due modelli di sacrifici, si limita a dire quello che Dio sceglie e accetta: accettando la preghiera dell’oppresso, Dio fa la sua scelta preferenziale, come fece tra il sacrificio di Caino ed Abele (cf Gen 4,1-10), di Elia e i profeti di Baal (cf 1Re 18,20-40) o tra il pubblicano e il fariseo del vangelo di oggi (cf Lc18,9-14).
Il Salmo responsoriale esprime bene la logica che presiede le scelte di Dio che ha un orecchio intonato sulla corda degli umili che rallegra, dei poveri che ascolta, e dei malfattori che chiama alla conversione di vita.
La 2a lettura è la conclusione della 2a lettera a Timoteo e precede immediatamente il saluto finale;  ed è quasi un bilancio prima del distacco definitivo del vecchio Paolo dal suo discepolo in vista della morte ormai prossima. L’apostolo legge la sua morte come un’offerta sacrificale (cf 2Tm 4,6) di tutta la sua vita. Possa ognuno di noi giungere alla fine della vita e potere dire con l’apostolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). E’ quello che dovrebbero dire tutti gli educatori, genitori, maestri, preti, vescovi, capi di stato e di governo, politici: abbiamo vissuto per «il bene comune», siamo stati retti, abbiamo mantenuto fedeltà alla giustizia, siamo stati coerenti.
Il Vangelo è un condensato, in forma di parabola, della dottrina paolina della «giustificazione»che è il cuore della teologia paolina e che nella storia della Chiesa, fu alla base della riforma di Lutero che portò alla separazione del «movimento protestante» dalla Chiesa di Roma. Oggi le contrapposizioni sono stata risolte, quantomeno avviate a soluzione con un documento ufficiale comune tra Luterani e Cattolici che finalmente possono dare un senso univoco alla teologia della giustificazione[1] che, teoricamente, spianerebbe la strada per un ecumenismo più incisivo, mentre di fatto tra i cattolici si sente ancora dire in segno dispregiativo «è un protestante», riferito a chi non è allineato con il pensiero ufficiale della gerarchia. E’ la teologia che medita sul valore delle opere in rapporto alla fede e il significato delle une e delle altre nel rapporto con Cristo e Dio.
Come vedremo nell’omelia, questo brano è stato interpretato in molti modi e ha avuto molte spiegazioni, ma tutte parziali perché nessuna di esse sa cogliere il cuore della parabola che è una rivelazione sull’essere di Dio. Essa infatti non ci insegna cosa dobbiamo fare o come dobbiamo comportarci, ma ci rivela «chi è» Dio e ce lo dice dal punto di vista di Lc che è l’evangelista della tenerezza e della misericordia. Per Lc Gesù è il «Vangelo del Padre» che porta l’annuncio finale di liberazione a tutti gli esclusi dalla mensa della vita: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Lc 15,1-2). Questa è la novità del Vangelo: coloro che la religione ufficiale esclude, Dio accoglie, anzi predilige. Non solo, ma lascia tutti per andare alla ricerca anche di una sola pecorella che si smarrisce (cf Lc 15,4). Dio non guarda la quantità, dove uno più uno in meno non fa differenza. Al contrario egli guarda alla singola persona perché per lui una sola persona vale il mondo intero.
Il fariseo si crede giusto perché ha adempiuto alle prescrizioni della Legge; chi potrebbe dire che egli non sia un’ottima persona, un credente modello? Egli è praticante, non manca una funzione al tempio, è scrupoloso; disprezza perfino il pubblicano con cui non si sporcherebbe mai, nemmeno per un saluto o per sbaglio. Egli crede alla purità rituale e quindi si tiene alla larga da coloro che possono inquinare la sua religiosità da manuale.
Al tempo di Gesù, i farisei[2] non avevano la brutta fama che hanno oggi: persone dalla doppia faccia, incoerenti e falsi. Erano piuttosto molto popolari e stavano vicino alla gente, a differenza dei sacerdoti e dei dottori che erano distanti in quanto appartenenti alle classi abbienti. Questi come tutti gli addetti alla religione si credevano i migliori, anzi gli unici in grado di potersi salvare. Con essi Gesù instaurerà un conflitto permanente così destabilizzate per l’istituzione rappresentata dai farisei e dalla classe sacerdotale che lo porterà alla morte.
Siamo assemblea eucaristica, stiamo celebrando la Berakàh/Benedizione che Dio spande sul mondo intero, siamo venuti per rispondere ad una vocazione e per esercitare la profezia del vangelo annunciato a tutti: non possiamo che essere tutto ciò nel Nome dello Spirito Santo ci abilita a invocare con la giustizia del cuore con le parole dell’ antifona d’ingresso (Sal 105/104,3-4): Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto.
 
Spirito Santo, tu accompagni i passi dei poveri quando si presentano a Dio,                        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu innalzi la preghiera dell’oppresso perché giunga al trono di Dio,    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la soddisfazione che Dio concede ai giusti che lo invocano,                 Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu benedici il Signore in ogni tempo nella bocca di chi lo loda,                     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la gloria degli umili che ascoltano e si rallegrano nel Signore,    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu custodisci il grido dei poveri e sani le ferite del loro cuore,                        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la vela che Paolo scioglie per giungere nel seno del suo Signore,          Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai sostenuto la battaglia, la corsa e la fede dell’apostolo del vangelo,       Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu si la forza che è rimasta vicina all’apostolo nella prova della vita, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu convochi il fariseo perché ascolti la tua voce e si converta e viva,             Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sostieni il pubblicano perché invochi la misericordia che lo redime,          Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu rimandi il fariseo alla sua responsabilità di religioso senza fede,    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu giustifichi il pubblicano che non giudica e accampa diritti,                         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la luce dei nostri cuori perché possiamo ascoltare la Parola,                  Veni, Sancte Spiritus!
 
Il profeta Osea, già otto secoli prima di Cristo, aveva messo in guardia dalla religiosità di convenienza, staccata dalla vita: «voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6). La vita nella sua concretezza deve essere il contenuto del rito e il rito deve essere l’espressione coerente della vita. Diversamente la religione e il culto diventano alienazione, manifestazione ostentata di falsità. Noi siamo qui in risposta alla chiamata dello Spirito che ci convoca attorno all’altare, simbolo di Cristo, per esprimere la verità di noi stessi davanti a Dio che vuole contemplarci come «assemblea orante». Veniamo per mettere in comunione e spartire tra di noi la verità di Dio che si rifrange sulle nostre parziali verità. Per questo non possiamo che iniziare umilmente nel segno della Santa Trinità:
 

(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.

 
Chiedere perdono! Quante volte lo diciamo prima dell’atto penitenziale, come se fosse un’abitudine o una richiesta usuale. Chiedere perdono significa riconoscere la grandezza di Dio, ma anche la nostra dignità di figli che hanno diritto di accostarsi al Padre per avere parte alla vita. Chiedere perdono significa esprimere il desiderio di volere vivere a dispetto della morte perché l’amore è più grande della morte stessa (cf Ct 8,6). Chiedere perdono significa amare oltre misura, senza misura, al di là di ogni dovere e diritto perché «per-dono» significa «donare in modo sovrabbondante». Chiedere perdono equivale quindi imparare ad amare con lo stesso amore assoluto con cui Dio ci ama. Con questi sentimenti possiamo stare davanti a Dio sapendo che è lui a stare davanti a noi e in un afflato di intimità possiamo chiedere il suo amore totale e rigenerante, cioè il suo «per-dono – il dono per eccellenza», che nell’Eucaristia trova il suo senso e la sua espressione compiuta.


 

Signore, tu vuoi misericordia e non sacrifici, liberaci dal male dell’ostentazione,                 Kyrie, elèison!
Cristo, tu vieni per i malati, i perduti e i senza speranza, donaci la povertà interiore,           Christe, elèison!
Signore, tu gradisci il pubblicano e non il fariseo benpensante, liberaci dall’apparenza,      Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente che ha creato il cielo e la terra per farne un’abitazione di pace, che predilige i poveri e gli afflitti per i quali prepara un banchetto di vita e di gioia, per i meriti dei poveri di Yhwh, per il merito dei profeti e degli apostoli che hanno combattuto la santa battaglia della sua Parola, per i meriti di Gesù speranza dei disperati, ci perdoni da nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELIe pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.     [breve pausa 1-2-3]
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Mensa della Parola
Prima lettura Sir 35,15-17.20-22. Dopo avere definito la natura di «sacrificio spirituale» (cf Sir 35,1-9), il Siràcide prende in esame la religiosità pagana di chi pretende di comprare Dio con riti ricchi per coprire lo sfruttamento del prossimo e le ingiustizie che hanno alimentato la ricchezza (v. 10). Durante la settimana si froda a piene mani, rubando e sfruttando i poveri, mentre nel sabato si offrono laute offerte per tacitare Dio. Siràcide mette in guardia: Dio non si lascia ingannare perché egli per sua natura si schiera dalla parte del povero e di cui ascolta sempre la preghiera. Se non è espressione di una vita vissuta secondo la giustizia del cuore di Dio, la preghiera è una bestemmia più grande che ricade come colpa su chi la compie. Perché possa penetrare le nubi, la preghiera deve essere povera, cioè deve esprimere la povertà di Dio che svuota se stesso per arricchire noi (Fil 2,5-8).
 
Dal libro del Siracide 35,15-17.20-22.
15Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. 16Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera  dell’oppresso. 17Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. 20Chi la soccorre è colto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. 21La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; 22non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 34/33, 2-3; 17-18; 19-20. Salmo sapienziale (cf Pr 1,8; 4,1; 15,33; 22,4; ecc.) e alfabetico si compone di un ringraziamento (vv. 2-11) e di una riflessione sullo stile del libro dei Proverbi sulla sorte dei giusti (vv. 12-23). Il titolo del salmo e la tradizione giudaica lo attribuiscono a Davide in un momento particolare della sua vita. Per sfuggire a Saul che lo cerca per ucciderlo, si rifugia in territorio filisteo, dove è riconosciuto e catturato. Si salva solo perché si finge pazzo (cf 1Sa 21,11-16). Dopo essere stato liberato intona questo inno di ringraziamento che ha la struttura alfabetica (ogni versetto comincia con una lettera dell’alfabeto ebraico: tutto il creato dalla «a» alla «z», compresa la follia è nelle mani di Dio. Dopo l’esegeta Gesù Cristo, noi diciamo che Dio è Padre e si prende cura di tutti i suoi figli, nessuno escluso[3].
 
Rit. Il povero grida e il Signore lo ascolta.

1. 2 Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
3 Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino. Rit.
18 Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce. Rit.
3. 19 Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
2. 17 Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
20 Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia. Rit.

 
Seconda lettura 2Tm 4,6-8.16-18. Il discorso di «addio» è un genere letterario molto conosciuto nella letteratura e anche nel NT (v. Gv 13,31-17,26; At 20,17-38). Gli elementi che costituiscono il discorso di addio sono tanti: la coscienza di avere compiuto il proprio dovere (vv. 6-7; cf Gv 17,6.13; At 20,-21), l’annuncio dell’imminente partenza (vv. 6-7; Gv 13,13; At 20,22-25), un giudizio pessimistico sui tempi presenti (vv. 16-17; At 20,22.29-34) e una fiducia totale nell’aiuto di Dio (v. 18; Gv 17,13; At 20,24). Tutti questi elementi sono presenti nel brano che la liturgia propone oggi come 2a lettura. Un elemento domina sugli altri: in mezzo alle prove e nonostante esse, Paolo resta fedele a se stesso e al suo Signore che lo ha chiamato e inviato. Anche nei momenti di prova, egli ha potuto annunciare il vangelo del Crocifisso Risorto, per cui le persecuzioni e le sofferenze sono state proficue perché testimonianza autentica del suo amore per il suo Signore.
 
Dalla seconda lettera di Paolo apostolo a Timoteo 4,6-8.16-18
Figlio mio, 6io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. 7Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. 8Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. 16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. 17Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. 18Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen. - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 18,9-14. Il brano del vangelo di oggi completa quello di domenica scorsa, di cui per altro è la continuazione: al giudice ingiusto e alla vedova povera (v. Lc 18,1-8) corrispondono oggi il fariseo gonfio della sua religione ostentata e il pubblicano consapevole della sua fragilità di peccatore (v. Lc 18,9-14). Due mondi si contrappongono: il mondo della religione «del fare» e quello della fede «dell’essere»; il mondo della religione soddisfatta dalle cose che fa e il mondo della fede che invoca la misericordia di Dio come fondamento della vita. Il passo di oggi riflette il tema paolino della giustificazione per fede e non per le opere (v. Rom 1,9; Ef 2,8-10). I due personaggi del brano odierno somigliano molto ai due figli della parabola del «Padre che fu madre» (v. Lc 15,11-32) ed esprimono le modalità che portano o escludono dalla salvezza. Il fariseo adempie alla lettera le prescrizioni rituali, ma le sgancia dalla vita per cui giudica gli altri sostituendosi a Dio. Il povero pubblicano non ha diritto nemmeno di accostarsi all’altare perché impuro; lui lo sa e resta in fondo alla sua disperazione senza soluzione. Disperato e non avendo nulla di suo, si affida totalmente alla Parola e prende in prestito i sentimenti di Davide peccatore: «Pietà di me nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità» (Sal 51/50). La verità del pubblicano costringe la gratuità di Dio che irrompe per fare chiarezza: rifiuta la religione del benpensante e accoglie il peccatore purificato che così siede al banchetto della vita, l’Eucaristia preparata per noi nel giorno del Signore.
 
Canto al Vangelo Cf. 2Cor 5,19
Alleluia.Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, / affidando a noi la parola della riconciliazione.Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca 18,9-14
In quel tempo, 9Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri,ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
La prima lettura e il vangelo, come spesso accade nell’abbinamento liturgico, hanno lo stesso tema. Sgombriamo subito il terreno col dire che la parabola non ha come scopo l’insegnamento sull’umiltà della preghiera in contrapposizione alla superbia. Questa interpretazione non rispetta il testo, ma diventa una manipolazione che al contrario lo piega ad una concezione di un’ascesi datata del rapporto tra l’uomo e Dio. Il tema di oggi è la «giustizia» e continua la riflessione di domenica scorsa sulla preghiera intesa come «stato dell’essere», cioè struttura necessaria della vita e non come atteggiamento momentaneo basato sul bisogno occasionale. La liturgia prolunga la riflessione di domenica scorsa dove un giudice ingiusto, «miscredente» è contrapposto a Dio, Giudice giusto (cf Sal 7,12; 9,5 con «non temo Dio» di Lc 18,4), simboleggiato nel volto della  vedova che esige giustizia non chiedendo un favore o una concessione, ma esigendo un suo diritto, fondamento della sua esistenza.
In ebraico «giusto» si dice «sadìq», la cui radice «s_d_q» esprime l’idea dello stare dritto e si applica alle persone, ai giudici e alle loro sentenze, ai pesi e misure, in quanto la frode commerciale è un atto d’ingiustizia e quindi è maledetta (cf Lev 19,36). Nella Bibbia in forma maschile e femminile ricorre 274x. A Dio è attribuita questa rettitudine nel senso che Dio è giusto perché salva. Questo è l’ambito entro cui bisogna leggere il brano del fariseo e del pubblicano che si recano al tempio per pregare. Ognuno di loro porta con sé un modello di «dio» frutto della propria situazione e della propria esperienza. Il vangelo però ha una premessa che è data oggi dalla 1a lettura che è tratta dal libro del Siràcide, scritto in greco (non esiste in ebraico) tra il II e I sec. a. C.
Il brano di oggi è simile ad una pala pittorica a due ali e l’evangelista come un pittore descrive magistralmente, mettendole a confronto, due tipi di liturgie offerte dagli uomini a Dio. Nella prima anta della pala, Lc dipinge la liturgia di chi sfrutta il prossimo, credendo anche di potere comprare Dio con offerte ricche e abbondanti, pensando che così Dio possa chiudere gli occhi di fronte alla ingiustizia. In fondo questi ingannatori di professione chiedono a Dio di essere «uomo di mondo»: se loro si arricchiscono, infatti, anche Dio ne ha il suo guadagno perché il suo tempio riceve laute e abbondanti offerte. E’ la logica del «una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso». E’ quello che avviene quando gli uomini ecclesiastici che gridano e inveiscono sui «principi non negoziabili», applicati sempre e senza sconti ai poveri, mentre sono lassisti e comprensivi con i peccati dei ricchi e dei potenti con cui fanno affari e compromessi o spartiscono il potere in forza di accordi segreti e immorali[4].
I religiosi miscredenti di cui parla il profeta Osèa dimenticano che le offerte che fanno non sono frutto del loro lavoro o della loro fatica, ma sono il necessario che hanno frodato agli altri corrompendo, ottenendo privilegi, non pagando le giuste tasse, speculando sulla paga degli operai, anche solo ritardandola: essi guadagnano, ma fanno finta di non sapere che il loro guadagno è un furto, frutto di inganno e di malversazione. Questi praticanti d’occasione che si mostrano sempre in prima fila, credono di potere comprare anche Dio utilizzando il denaro che hanno rubato agli altri. In altre parole, quando i ricchi fanno laute offerte, essi danno solo del loro superfluo e non del loro necessario, come lo stesso Gesù sottolinea quando paragona le offerte superflue dei ricchi con quella della vedova che butta nel tesoro del tempio «tutto quello che aveva per vivere», cioè la sua vita (Lc 21,1-4).  E’ scritto che Dio non si lascia corrompere e non accetta sacrifici ingiusti (cf Sir 35,14-16)
Nella seconda anta della pala, l’evangelista ci mostra la seconda liturgia: quella del povero che non ha nulla da offrire se non il suo lamento e la sua povertà (cf Lc 18,12-18; cf anche Salmo 34/33 di oggi). Egli non solo non ha superfluo, ma neanche il necessario per vivere perché sa che la religione ufficiale lo esclude dalla vita comunitaria relegandolo nell’emarginazione del suo isolamento. Il pubblicano è condannato alla morte civile e religiosa e nessuno è autorizzato a farsene carico. Isolato e maledetto non dovrebbe nemmeno salire al tempio e non potrebbe varcarne la soglia per la sua impurità che lo rende inabile a stare nel luogo santo di Dio. Forse egli è disperato perché schiacciato dalla sua miseria che lo ha costretto ad impegnare il suo mantello[5] o anche se stesso per sopravvivere (cf Es 22,25; Am 8,4-6; Gc 2,1-7). Entrando nel tempio il povero si sente fuori posto e non osa nemmeno rivolgersi direttamente a Dio: sarebbe un comportamento disdicevole. Egli è «pubblicano», cioè colpevole due volte perché impuro e perché complice dell’occupante romano per conto del quale riscuote le tasse. Anche egli non osa nemmeno paragonarsi al fariseo che sta davanti a lui, in piedi, e che egli stesso stima e riconosce come immagine del modello religioso a cui egli non può aspirare per la sua condizione di reprobo.
Viviamo in un tempo di fragile giustizia, un tempo in cui regna l’anarchia della pretesa: il ricco e potente usa le leve dell’economia e della politica per fare leggi ingiuste a favore di interessi privati o strettamente di casta, lasciando alla deriva il bene e la sopravvivenza stessa della povera gente[6]. I ricchi cercano sempre l’alleanza con la Chiesa gerarchica alla quale promette soldi, finanziamenti anche illeciti, leggi su misura creando così un circuito perverso in cui il ricco miscredente è garantito dal clero che dovrebbe splendere per trasparenza di fede, mentre invece è opaco della opacità dell’interesse del momento. Succede anche che il clero si lasci corrompere dal ricco per il quale inventa una morale più elastica e indulgente, corrompendo così la stessa immagine di Dio, di cui in fondo non interessa nulla né al ricco né al clero funzionario perché ambedue hanno i loro vitelli d’oro.
Il vangelo al contrario non cerca di fare quadrare il cerchio, ma contrappone direttamente due uomini: un fariseo e un pubblicano, due figure simboliche di due mondi opposti. Gesù non annacqua e non cerca mediazioni, ma fa una scelta destabilizzante per il suo tempo: si schiera già nell’enunciato della parabola perché chi ascolta sa esattamente dove vuole andare a finire. Non accetta una religione della convenienza che ha addomesticato anche il volto e il Nome di Dio, sottomettendoli ai propria perversione: un «dio» a propria immagine e somiglianza».
Al tempo di Gesù il fariseo era un uomo pio, religiosissimo, attento all’osservanza della Toràh e scrupoloso nell’esercizio dei suoi doveri. Il fariseo potrebbe essere ciascuno di noi, quando diciamo: non ho fatto nulla di male nella mia vita, non ho ucciso, non ho rubato… troppo, vado a messa la domenica, quando posso, mi faccio i fatti miei, tutt’al più dico qualche bugia, ma sempre a fin di bene, insomma sono un buon cristiano e il Signore può essere contento di me. Ah! ce ne fossero cristiani come me! Al contrario il pubblicano era un essere abbietto due volte: era dichiarato immondo perché collaborava con l’occupante romano di cui gestiva la raccolta delle tasse, rubava al suo popolo e lo angariava oltre il dovuto. Il pubblicano era considerato il peggior nemico del popolo d’Israele ed era escluso dalla vita religiosa perché la sua esistenza era incompatibile con l’appartenenza al popolo di Dio.
Già in Lc 15,1-2 troviamo questa contrapposizione che ci mette sull’avviso di un cambiamento di prospettiva: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano». Coloro che sono lontani dal tempio e dal Dio ufficiale, «si avvicinano» a Gesù per stabilire con lui una dipendenza di vita: «per ascoltare» che l’azione di una relazione affettiva. Coloro che sono «dentro» il tempio, invece, sono lontani perché «mormorano», cioè contestano il modo di fare di Gesù perché gelosi della loro esclusività. Questa contrapposizione tra due tipi di «giustizia» contrastanti spesso nella Bibbia viene codificato attraverso la descrizione di «coppie», tra cui si trovano anche coppie di fratelli: Caino ed Abele (cf Gen 4,1-10); Elia e i profeti di Baal (cf 1Re 18,20-40), il figlio minore e il figlio maggiore della parabola «padre che fu madre» (cf Lc 15,11-32); il fariseo e il pubblicano del vangelo odierno; i due figli mandati dal padre nella vigna (cf Mt 21,28-31); Lazzaro e il ricco epulone (cf Lc 16,19-30); il giudice e la vedova di domenica scorsa (cf Lc 18,1-8;) Zacchèo pubblicano e tutti gli astanti che mormorano (cf Lc 19,6); la vedova e ricchi del tesoro del tempio (cf Lc 21,1-4) e altri ancora. C’è dunque una costante che ruota attorno al tema della «giustizia» non come virtù, ma come «stato permanente» e risponde alla domanda: Chi è giusto davanti a Dio?
Alla parabola del fariseo e del pubblicano sono state date molte interpretazioni, spesso molto superficiali. Non deve trarre in inganno l’ultimo versetto «chiunque si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato» (Lc18,14b) che è un richiamo al giudizio finale. Il versetto è un’aggiunta posteriore e ricorre nel vangelo quasi come un ritornello che ritma gli insegnamenti di Gesù (cf Lc 14,11; 16,15; Mt 23,12) sulla scia del saggio Siràcide che insegna le vie di «Donna Sapienza» (cf Sir 1,11; 24,21). Alla luce di questo versetto la parabola solitamente viene letta in prospettiva escatologica, cioè in riferimento alla valutazione alla fine della storia, quando Dio farà «giustizia» innalzando i poveri e punendo i superbi. Proviamo a capire il senso nel contesto di Lc.
La parabola non è un insegnamento sull’umiltà della preghiera che deve basarsi non sui meriti personali, ma sull’iniziativa di Dio. C’è chi considera i due brani di domenica scorsa e di oggi come un insieme, quasi un piccolo trattato sulla preghiera: quella insistente e costante (cf Lc 18,1-8) e quella umile e dimessa (cf Lc 18,9-14). Se così fosse non si capirebbe perché al v. 9 Lc introduca un altro pubblico con lo scopo di distinguere i due brani e quindi i due insegnamenti. In Lc 18,1 che introduce la parabola del giudice e della vedova (v. domenica scorsa), Gesù «disse ancora questa parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai»; i destinatari sono i discepoli che troviamo in Lc 17,22 che costituiscono ancora l’uditorio attivo. In Lc 18,9 che introduce invece la parabola odierna «Gesù disse ancora questa [seconda] parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Non vi sono più i discepoli, ma «alcuni che avevano l’intima presunzione». E’ evidente che se cambia l’uditorio, cambia anche la prospettiva che l’autore intende dare. Vediamo cosa Lc intende insegnarci con questa parabola.
La parabola del fariseo e del pubblicano al tempio è rivoluzionaria perché si pone come un rovesciamento delle convinzioni religiose del tempo, è un sovvertimento, un terremoto del sistema della religione ufficiale: ciò che questa ripudia, Dio accoglie, ciò che dichiara impuro, Dio afferma puro. In altre parole: Dio si dissocia dalla religione del tempio. Questo insegnamento che è la linea portante del 3° vangelo, qui viene illustrata con un esempio: un peccatore penitente e pentito è più gradito a Dio di un superbo che si crede giusto[7]. I due personaggi della parabola, infatti, sono il simbolo di due concezioni della giustizia e della religione: quella dell’uomo che si gonfia per avere soddisfatto tutte le regole della religiosità esteriore con le sue opere per cui può anche pretendere da Dio la ricompensa e, dalla parte opposta quella di Dio che si piega davanti al peccatore che si converte. Lc con questa parabola riflette ed espone la dottrina paolina della giustificazione (cf Rom 1,9; Ef 2,8-10).
Stabiliti i termini della comprensione e il nucleo essenziale, possiamo entrare dentro la parabola in modo più intimo e scoprirne le profondità. La preghiera del fariseo è un modello di preghiera ebraica che si trova nei documenti rabbinici del tempo: è esemplare. Nessuno, animato da buona religiosità, avrebbe da dire perché è una preghiera insegnata nella prassi della vita giudaica. In essa infatti non vi è alcuna richiesta, ma solo parole di gratitudine per la protezione di Dio che si percepisce in modo certo e definitivo. La preghiera del fariseo in se stessa è un «ringraziamento» genuino: chiunque avesse ascoltato questa preghiera ne sarebbe rimasto edificato perché quella preghiera è l’espressione genuina di una religiosità comune e accettata.
La preghiera del pubblicano, invece, s’ispira al Sal 51/50 di Davide, che noi conosciamo come  Miserere. In essa traspare una disperazione di fondo perché per i pubblicani non c’era salvezza né in questa vita (erano disprezzati perché traditori del loro popolo e collaborazionisti con gli invasori romani) né nell’altra: l’angoscia del pubblicano è senza soluzione, è pura disperazione. Egli sa di non avere scampo e per ottenere il perdono, egli avrebbe dovuto cambiare mestiere, ripagare tutti coloro che aveva derubato raccogliendo le tasse per i Romani … impossibile! Eticamente parlando, il pubblicano non è migliore del fariseo, perché ha coscienza di essere un individuo riprovevole e forse non ha alcuna intenzione di cambiare vita perché non servirebbe a nulla: egli è condannato in terra e anche in cielo. In una condizione di disperazione totale, andare al tempio serve più a lui per rafforzarsi nella convinzione che tutto è perduto per cui non resta che abbandonarsi al non-senso del vivere. Chiedere perdono, in questo contesto significa anche giustificare Dio che lo esclude «giustamente» anche dalla sua presenza: egli «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo» (Lc 18,13) perché si sente escluso anche dalla preghiera del Salmista perché egli non può sperare nemmeno di alzare gli occhi al monte e invocare l’aiuto di Dio: «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra» (Sal 121/120,1-2).
Con questa parabola Gesù opera un atto rivoluzionario con cui contesta la religione ufficiale del perbenismo, del dovere, dei riti, del culto della personalità, schierandosi contro i suoi contemporanei: contro il loro modo di giudicare, di pregare, di concepire Dio. Gesù è il «rivelatore» di un nuovo volto di Dio; anzi secondo Giovanni egli è «l’esegeta» del Padre (cf Gv 1,18). Egli annuncia un vangelo «nuovo» che ribalta la concezione di Dio, secondo la tradizione religiosa: Dio è il Dio dei disperati e fa giustizia proprio al pubblicano che non ne ha diritto, mentre la nega a colui che pretende di averne. Oggi Gesù mette in crisi noi e il nostro modo di essere: ci chiede se siamo solo religiosi come il fariseo o se siamo persone di fede somiglianti al pubblicano.
Gesù trasforma il significato stesso della «giustizia» come la coltivano gli uomini: dare a ciascuno il suo secondo le proprie opere che è anche il logo del giornale del Papa, l’Osservatore Romano: «Unicuìque suum – A ciascuno il suo». Per Gesù e il Dio «nuovo» che agli annuncia, la «nuova giustizia» non è una misura, ma un abbondanza straripante perché diventa sinonimo di «gratuità» in base al principio salvifico che sta alla radice dell’incarnazione del Figlio: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39). La salvezza contro ogni speranza di tutti i pubblicani e di tutti i peccatori è parte integrante della «volontà di Dio». In altri termini, il piano di salvezza di Dio descritto nella Scrittura conduce a questa conclusione: la salvezza di tutti (cf Gv 3,17; 12,47; Ef 2,5).
In questo contesto, Dio non è più il guardiano di norme etiche ritenute immutabili perché, essendo legate alla psicologia umana, inevitabilmente si modificano nel tempo; non è più l’orologiaio che tiene in piedi il ritmo del tempo e il cosmo; non è più il punitore di ogni trasgressione, colui che giudica in base alle opere di ciascuno: a chi ha fatto bene, il premio, a chi ha operato male, il castigo. E’ questo il «dio» che ci piace tanto perché noi siamo istintivamente vendicativi e vorremmo sistemare le cose con tremenda e inesorabile giustizia. [8]
A questo mondo Gesù contrappone un nuovo criterio di vita che si basa sull’amore dell’altro senza aspettarsi alcun riscontro o contraccambio e pone un modello nel comportamento suo come «sacramento» dell’agire della volontà di Dio: Dio è giusto perché perdona. In Dio la giustizia è la misericordia (cf parabola denominata del «Padre che fu madre» in Lc 15, 11-32. Gesù contrappone il presuntuoso che crede di salvarsi da solo con le sue forze e le sue opere e il peccatore che non potendo presentarsi davanti a Dio si abbandona al suo giudizio, prima ancora di conoscerlo. Di norma noi predichiamo che bisogna convertirsi per ricevere il perdono di Dio. Fra meno di un mese inizia l’Avvento e si faranno liturgie penitenziali, esami di coscienza, confessioni, opere di carità … tiriamo fuori dal cassetto il cristianesimo delle grandi occasioni: non è l’Avvento, infatti, un «tempo forte?». Le parrocchie si lucidano a festa e organizzano liturgie penitenziali, confessioni in massa, tutto si predispone per un rinnovamento che già Natale naufraga nel «come prima, più di prima».  
Potrebbe essere la tentazione del fariseo perché andiamo a Messa, facciamo l’elemosina, viviamo il tempo di Avvento, poi facciamo anche il presepe: non siamo come gli altri! Prima di tutto questo c’è un atteggiamento previo, che precede la conversione propriamente detta: mettersi in ginocchio in fondo al tempio della propria coscienza senza parole, senza giudizio, accettandosi così come si è e lasciando che sia la misericordia di Dio ad operare la conversione del cuore e dell’intelligenza, degli atti e delle scelte. Stare in fondo al tempio nella pienezza della propria umanità pesante e perdere tempo davanti a lui, sapendo che anche lui sta perdendo tempo per noi. La conversione, la purificazione è un dono gratuito di Dio, basta accoglierlo, riceverlo, anzi abituarsi a riceverlo. Allora possiamo aprire le labbra e sibilare: Signore non sono degno. Sentiremo dentro di noi la presenza dello Spirito che versa l’olio della consolazione: «Sii forte e coraggioso; mettiti al lavoro, non temere e non abbatterti, perché il Signore Dio, il mio Dio, è con te. Non ti lascerà e non ti abbandonerà» (1Cr 28,20; cf Gen 28,15; Gs 1,9; Is 41,10; 43,5; At 18,9-10) perché dice il Signore Gesù: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano» (Lc 5,32).
Entrando nel mistero dell’Eucaristia, ognuno di noi faccia proprie le parole dell’Apostolo a Timoteo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15) perché la grazia non si compra né si può vendere: si può solo ricevere e la può ricevere soltanto chi è disposto a perdere tutto anche la possibilità della salvezza, come Abramo che di fronte all’irrazionalità della richiesta del sacrificio del figlio Isacco, si abbandona totalmente alla volontà di Dio, sapendo che egli non può ingannarsi né può ingannarci (cf CCC, 157)[9] e che il suo agire non può essere in contrasto con la sua volontà di salvezza: nel momento in cui abbandona anche la speranza della sua discendenza, Abramo ritrova il figlio che per la seconda volta riceve in modo inaspettato e gratuito (cf Gen 221,1-19). L’eucaristia è il segno e il sigillo di questa grazia gratuita che ci viene data senza nessun merito nostro: invitati, siamo accolti dal Lògos in persona che si fa cibo per noi e noi possiamo solo partecipare, mangiarne e, a nostra volta, farne partecipi quelli che incontriamo sul nostro cammino perché l’Eucaristia celebrata è l’esperienza suprema della giustificazione nel Signore morto e risorto. Il pane che spezziamo, la Parola che ascoltiamo, la vita che condividiamo siano anche i segni visibili che «Dio è Agàpē» (1Gv 4,8), non alla maniera umana, ma secondo la natura di Dio (cf Is 55,8.9). Con l’aiuto dello Spirito di Dio.
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

 
[breve pausa 1-2-3]
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.  [breve pausa 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti.         [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale[intenzioni libere]
MENSA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
 
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva dalle tue mani il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte).Guarda, Signore, i doni che ti presentiamo: questa offerta, espressione del nostro servizio sacerdotale, salga fino a te e renda gloria al tuo nome. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA II[10]
Prefazio del Tempo Ordinario VI: Cristo Parola, Salvatore e Redentore
 
Il Signore sia con voi.             E con il tuo spirito.  In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.        E’ cosa buona e giusta.
 
E veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Padre santo, per Gesù Cristo, tuo dilettissimo Figlio.
Il Signore non fa preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso (cf Sir 35,15-16).
 
Egli è la tua Parola vivente, per mezzo di lui hai creato tutte le cose e lo hai mandato a noi salvatore e redentore, fatto uomo per opera dello Spirito Santo e nato dalla vergine Maria.
Tu, o Signore, non trascuri la supplica dell’orfano né la vedova che si sfogano nel loro lamento(cf Sir 35,17).
 
Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce, morendo distrusse la morte e proclamò la risurrezione.
Santo, Santo, Santo, il Signore Dio dell’universo. Osanna nell’alto dei cieli e pace agli uomini che egli ama.
 
Per questo mistero di salvezza, uniti agli Angeli e ai Santi, cantiamo a una sola voce la tua gloria :
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto nel nome del Signore colui che viene come Parola per diventare Pane disceso dal cielo.
 
Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
Noi veneriamo Dio e siamo accolti con benevolenza alla santa Eucaristia e la nostra preghiera giunge fino al trono del Signore(Cf Sir 35,20).
 
Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzo, lo diede ai suoi discepoli, e disse:  PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Benediciamo il Signore in ogni tempo, guardiamo a lui e saremo raggianti: egli ci salva da tutte le nostre angosce (Sal 34/33,2.6.7).
 
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Tu, o Signore, riscatti la vita di noi tuoi servi per farci vedere e gustare quanto è buono rifugiarsi in te (Sal 34/33,23.9).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
O Dio che eri che sei e che vieni, Signore Nostro e Dio nostro! (cf Ap 1,8; 4,8Gv 20,28).
 
MISTERO DELLA FEDE.
Per il mistero della tua santa croce, salvaci o Cristo Risorto, atteso dalle genti! Maranà, thà! Signore nostro, vieni!
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.
Tu, o Signore, sei vicino a chi ha il cuore spezzato e salvi gli spiriti affranti (cf Sal 34/33,19).
 
Ti preghiamo per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Attendiamo con gioia la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, ci consegnerà (cf 2Tm 4,8).
 
Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell'amore in unione con il Papa …, il Vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare… e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.
Tu, o Signore, ci liberi da ogni male e ci salvi nel suo regno; a te la gloria nei secoli dei secoli (cf 2Tm 4,18).
 
Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.
O Dio dei pubblicani e dei peccatori, ti ringraziamo perché ci accoglie alla tua mensa senza nostro merito (cf Lc 18,11).
 
Di noi tutti abbi misericordia: donaci di avere parte alla vita eterna, con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.
Alzando gli occhi verso di te, Signore, per i meriti di Gesù osiamo chiederti: O Dio, Padre nostro, abbi pietà di noi, peccatori (cf Lc 18,14).
 
Dossologia[è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO, A TE, DIO, PADRE ONNIPOTENTE, NELL'UNITA DELLO SPIRITO SANTO, OGNI ONORE E GLORIA, PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI. AMEN.
 
Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra
tit‛abed re‛utach kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non indurci in tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

 
Antifona alla comunioneLc 18,13-14
Il pubblicano diceva: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. E tornò a casa sua giustificato.
 
Dopo la Comunione
Da Raniero La Valle, Prima che l’amore finisca (Da «Giorno per giorno della Comunità del bairro, Goiás, Brasile del 13 ottobre 2007)
Il vero canone su cui la Chiesa ha fondato il suo riconciliato rapporto col mondo è stato l’unità dell’intera comunità umana. Oggi è proprio questa che è in gioco, ciò che oggi si perpetra è la rottura dell’unità del mondo. Questo è ciò che si sta facendo. Se tutto il mondo non si può sviluppare, perché nel mercato globale sono finite le illusioni di uno sviluppo universale e continuo, che cresca e si arricchisca almeno una parte. Gli appagati e gli esclusi. [...] I sommersi e i salvati. [...] Questa è la scelta fatta dall’attuale sistema dinanzi alla crisi da esso stesso prodotta. Il mondo non si può aggiustare: perché allora perire tutti? La risposta è la Grande Selezione. [...] Allora è chiaro che il punto sta oggi nel ristabilire la coscienza e il principio dell’unità della famiglia umana. Se non l’unità, nemmeno la vita. Operare per l’unità o la divisione tra gli esseri umani oggi non è solo un’alternativa etica, è un’alternativa antropologica fondamentale. Tutto quello che è fatto per l’unità, va nel senso della conservazione della vita sulla Terra e della salvaguardia del creato, tutto quello che è fatto per la divisione va nel senso della distruzione della vita e della rottura dell’opera della creazione. La Chiesa ha in ciò una responsabilità decisiva. Essa esiste, come ha detto il Concilio, per essere testimone e strumento dell’unità di tutta la famiglia umana. [...] Dobbiamo ritrovare l’universalismo della compassio, della compassione, cioè ricordarci del dolore degli altri. Il Dio della Bibbia è un Dio che si ricorda del dolore degli altri, è un Dio recettivo del patire. Così la memoria passionis è il ricordarsi del dolore altrui, e non solo, ma è sottomettersi all’autorità di coloro che soffrono. Tutto ciò ha evidenti conseguenze politiche: porta alla pace, perché significa ricordarsi delle sofferenze del nemico; implica il riconoscimento asimmetrico degli oppressi e degli esclusi, esclude l’amnesia senza commiserazione, la cancellazione disinvolta dei delitti del passato, l’oblio delle vittime.
 
Preghiamo. Signore, questo sacramento della nostra fede compia in noi ciò che esprime e ci ottenga il possesso delle realtà eterne, che ora celebriamo nel mistero. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore che non fa mai preferenze di persone contro i poveri, ci doni la sua benedizione.           Amen.
Il Signore che vuole la misericordia e non i sacrifici senza vita, vi colmi del suo amore.
Il Signore che ama i poveri e gli oppressi, ci colmi della sua tenerezza.
Il Signore che giustifica il pubblicano senza condizione, vi protegga e vi sorregga.
Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci.
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.
Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolarci.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                Amen.
 
La messa è conclusa come celebrazione: continua nella testimonianza della vita.
Andiamo incontro al Signore nella storia. 
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
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© Nota: Domenica 30a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Genova, Paolo Farinella, prete 28/10/2010 – San Torpete,  Genova
 
 


[1] Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della giustificazione  tra la Federazione delle Chiese luterane e la Chiesa cattolica, sottoscritto ad Augusta, in Germania, il 31 ottobre 1999. Nonostante i documenti ufficiali che sono frutto di incontri di «vertici», l’ecumenismo ristagna a livello ufficiale, mentre avanza in silenzio nelle relazioni tra i credenti di base, quelli cioè che condividono la vita e le fatiche del camminare insieme nel mondo verso il Regno.
[2] Il termine fariseo deriva da «perushìm - separati» perché si consideravano «hasidìm – giusti/pii»: erano «brava gente» e non avevano quella connotazione negativa che in seguito ha assunto il nome nella cultura occidentale. Stavano abbastanza dalla parte del popolo, anche se ritenevano che questo non fosse in grado di osservare tutte le prescrizioni della Toràh (i famosi 613 precetti) e quindi era escluso dalla salvezza. Sul piano politico erano nazionalisti, mentre su quello religioso ammettevano la duplice Toràh: quella scritta (Torah shebiktàv; tr. lett.: La legge che è scritta), attribuita a Mosè (il nostro Pentatèuco) e quella orale (Torah shebehalpeh; tr. lett.: La Legge che è sulle labbra, cioè orale), tramandata dai saggi di Israele e raccolta successivamente nella Mishnàh (sec. II d.C.) e nel Talmud (sec. VI d.C.).
[3] Insegna la tradizione giudaica che tutto nel creato ha un senso, anche se spesso non ne comprendiamo il significato. «Disse Davide a Dio: “Tutto quello che hai creato è bello, e la saggezza è la più bella di tutte le cose. Tuttavia non riesco a capire il significato della follia. Che soddisfazione hai nell’aver creato un lunatico che cammina con i vestiti stracciati, perseguitato e preso in giro da tutti, persino dai bambini?”. Dio allora rispose: “Davìd, un giorno avrai bisogno di questa pazzia che ora critichi. Anzi, tu stesso pregherai perché io te la dia”» (Rav Shlomo Bekor, a cura di, Tehillìm Yerushallàim – I Salmi di David, Edizioni DLI, Milano 1996, 87 ad Sal 34,1).
[4] Per questo comportamento si trova anche la giustificazione filosofico-morale nella figura della «epichèia», termine greco composto dalla preposizione con valore intensivo «epi- su/sopra» e da «èikō – cedo/concedo/accondiscendo» per cui si ha il senso di «equità/cedevolezza/condiscendenza/benevolenza». Si ha epikèia quando si interpreta la legge in modo favorevole (equo) a qualcuno al di là di quello che la lettera della stessa legge prevede. In altri termini si stempera la severità della legge scritta dandone una interpretazione più benevola. San Tommaso la ascrive tra le virtù (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologìae II-II, q. 120; J. Fuchs, «Epikeia circa legem moralem naturalem?», in Periodica de re morali, canonica, liturgica, 69 [1980], 251-270).
[5] Il mantello è indumento essenziale in Medio Oriente, dove l’escussione termica tra giorno e notte è micidiale: si passa dal caldo afoso al freddo intenso e senza mantello di notte non è possibile vivere: per questo la Toràh impone che se un creditore in garanzia del suo credito prende in pegno il mantello (o la coperta) di qualcuno lo deve restituire alla sera e riprenderlo al mattino perché nessuno può stare senza mantello nelle ore notturne (cf Es 22,25-26).
[6] Se guardiamo tutte le riforme che vengono evocate periodicamente, come salvezza estrema dello Stato, dalle pensioni allo stato sociale, dalla sanità alla scuola, dalla disoccupazione al precariato, noi vediamo che il peso quasi totale viene sempre scaricato sulle classi deboli e sul lavoro a reddito fisso. Il meccanismo del neocapitalismo che nulla ha di «neo», ma tutto contiene di «vetero» è perverso nella sua radice perché trasforma i «farisei» di turno in benefattori dell’umanità, e i poveri in predatori della stabilità istituzionale.
[7] Cf Lc 16,14-15: «I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. 15 Egli disse loro: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole»; cf anche Lc 15,7: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».
[8] Anche da un punto di vista civile, il carcere che dovrebbe avere una funzione rieducativa in forza dell’art. 27 della Costituzione che sancisce come acquisizione di civiltà che «le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato», sono al contrario luoghi di castigo e di mortificazione della dignità, quando addirittura non sono strumenti di vendetta.
[9] Cf Concilio Vaticano I, sess. III.; Denz. nº 1789.
[10] Detta di Ippolito, prete romano del sec. II: è stata reintrodotta nella liturgia dalla riforma di Paolo VI in attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.


Giovedì 21 Ottobre,2010 Ore: 12:00
 
 
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