- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (324) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Domenica 29<sup>a</sup> Tempo Ordinario -C- 17 ottobre 2010 -,di Paolo Farinella, prete

Domenica 29a Tempo Ordinario -C- 17 ottobre 2010 -

di Paolo Farinella, prete

Il tema centrale della liturgia di questa 29a domenica del tempo ordinario-C è la preghiera (1a lettura e vangelo), mentre la 2a lettura è centrata sull’importanza della Scrittura, cioè della Parola di Dio come fondamento della vita e contenuto della preghiera. Le tre letture quindi possono considerarsi un «insieme» organico sul tema della preghiera. Pretendere di parlare della preghiera è lo stesso che pretendere di conoscere l’intimità di Dio: una realtà inesauribile. Della preghiera si possono dare mille definizioni e nessuna sarebbe adeguata perché non si può definire la vita con una formula di poche parole. Essa come la vita deve essere vissuta: solo chi vive sperimenta e conosce[1]. Per la preghiera vale quello che Sant’Agostino dice del tempo:

«Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente e per poi esprimerlo a parole? … Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so»[2]. L’unica spiegazione possibile della preghiera è il silenzio, come pienezza della parola, come ambiente naturale della preghiera. Nell’omelia vedremo, con l’aiuto di Dio, come tutto ciò si possa realizzare.

            La 1a lettura ha un sapore alquanto magico, segno di antichità: le forme più semplici di cultura, di riti, di religione sono quasi sempre le più antiche. Più si sviluppano più si complicano, perché si arricchiscono di elementi nuovi che si mescolano con quelli antichi. Mosè per vedere l’efficacia della sua mediazione, deve tenere le braccia alzate e se è stanco, ha bisogno di due che le sorreggano. Tutte le religioni vivono di simboli e gesti rituali che spesso diventano anche teatrali, nel senso più benevolo del termine, perché la ritualità religiosa è anche teatralità. Solo in una dimensione di fede, la teatralità diventa anacronistica, perché la fede si fonda sulla parola che spesso si esprime nel silenzio e nella contemplazione. Mosè è mediatore per mettere in risalto che la vittoria non dipende dalle armi o dal numero dei soldati, ma «la salvezza dei giusti viene dal Signore, nel tempo dell’angoscia è loro difesa» (Sal 37/36,39).
            Il vangelo è sulla stessa lunghezza: perseverare nella preghiera insistente non significa infrangere l’insensibilità di Dio che cinicamente resiste alle richieste dei suoi figli, ma educare se stessi alla fedeltà nella relazione con Dio, nutrendola di affettività orante. L’immagine del giudice «che non temeva Dio» è un paradosso che fa risaltare meglio lo splendore della «vedova» che con la sola forza del suo diritto smuove l’impossibile. La sua insistenza non è petulanza, ma l’affermazione «ostinata» di una giustizia negata di cui solo lei ha coscienza.
La 2a lettura ci parla della Scrittura come Parola di Dio e costituisce quasi il punto di convergenza tra la prima  e il vangelo: non può esserci preghiera al di fuori della Parola di Dio che da forma e contenuto alle parole umane.  La Parola di Dio è la persona stessa del Lògos e quindi pregare è lasciarsi possedere dalla Shekinàh/Dimora per essere alla Presenza di Dio che è «già» nell’intimo di ciascuno. La Bibbia non è solo la lettera che Dio ha inviato da tempo all’umanità attraverso i profeti e il suo stesso Figlio (Eb 1,1-2), ma è anche il diario di bordo essenziale dell’intervento di Dio nella storia sia universale che personale. Essa è il paradigma della storia di ciascuno che tutti noi dobbiamo declinare in modo personale. Pregare quindi significa prendere coscienza dello stadio della storia di salvezza personale e risponde alla domanda: a che punto sono della mia storia della salvezza? La Bibbia è il paradigma del «viaggio» personale di fede, ed è lecito che il lettore, all’interno di questo paradigma, si domandi dove si trova «adesso» .
 Pregare è la risposta alla domanda di Dio ad Àdam: «Dove sei?» (Gen 3,9) che non chiede solo l’identità di un luogo, ma la coscienza di una consapevolezza: «dove» significa prospettiva, dimensione, profondità, angolo di visione. Il «dove» è il punto focale della consistenza e della identità di ciascuno perché indica il cuore interiore da cui noi prendiamo posizione per la conoscenza di noi, degli altri, dell’Altro; indica la visione strategica della vita, ma anche la profondità e lo spessore della nostra identità nel contesto della comunità e ancora prima in quello della storia della salvezza.  Non è detto e non è scontato, infatti, che ci troviamo nel NT[3]«sapere chi si è e dove si è».. Nonostante oltre due mila anni di cristianesimo, il battesimo e l’impegno in parrocchia, potremmo trovarci in un momento descritto dall’AT molto lontani da Cristo: potremmo ancora essere con Àdam ed Eva, vittime complici del serpente; solidali con il fratricida Caino; schiavi in Egitto; vaganti nel deserto senza Legge e senza coscienza; attenti ascoltatori della Parola dei profeti o in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni il Battezzante. Potremmo essere ai piedi della croce o ai bordi del sepolcro vuoto. Pregare significa
La liturgia ci impegna oggi a sperimentare la Parola di Dio
 
«più tagliente di qualunque spada a doppio taglio [che] penetra a fondo, fino al punto dove si incontrano l’anima e lo spirito, fin là dove si toccano le giunture e le midolla [che] conosce e giudica anche i sentimenti e i pensieri del cuore [e] 13non c’è nulla che possa restar nascosto a Dio [perché] davanti ai suoi occhi tutte le cose sono nude e scoperte» (Eb 4,12-13).
 
Pregare è essere nudi davanti alla nudità di Dio: creatura e Creatore, mediati dalla Parola fondamento sia della creazione che della redenzione.  Mosè e la vedova, il profeta e la povertà assoluta: il mediatore «sta ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9); la vedova molesta e importuna (cf Lc 18,4-5) vittima del sopruso e della prevaricazione. Tutti e due pregano, tutti e due ottengono risultati perché tutti e due non si sono stancati, ma sono stati perseveranti e insistenti, ciascuno fedele alla propria condizione e alla propria natura. Il profeta costringe Dio a cambiare pensiero (metànoia/conversione), costringendolo alla fedeltà alla sua natura e quindi al suo popolo (cf Es 32,1-14) la vedova che non ha paura di chi «non temeva Dio» (Lc 18,2).
Allo stesso modo noi rinnoviamo ogni settimana l’Eucaristia che è la perseveranza della Chiesa che dà senso al tempo della storia che percorre. L’Eucaristia è la presa d’atto ecclesiale della fedeltà di Dio, è la garanzia che Dio non può rinnegare se stesso (cf Rm 9,6). Abbiamo bisogno di sapere per noi stessi che la fede non s’inventa e non si vive per rendita o per forza d’inerzia. Noi possiamo credere solo se impariamo ad essere opportuni e importuni (cf 2Tm 4,2) per nutrirci della Parola e del Pane che ci danno al forza di giungere alla fine del «viaggio» e approdare alla santa Gerusalemme dove con Gesù conosceremo al volontà del Padre che ora, qui e adesso, invochiamo con l’aiuto dello Spirito Santo facendo nostre le parole del salmista nell’antifona d’ingresso (Sal 17/16,6.8)«Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole. Custodiscimi come pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi»
 
Spirito Santo, tu sulla cima del colle sei la forza di Mosè mentre prega per Israele, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il bastone di Dio che sostiene Mosè che intercede per il popolo,           Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sostenevi le braccia di Mosè nella preghiera d’intercessione,                      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sostieni la preghiera dei giusti che sostengono il mondo,                Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei sostegno, luce e forza dell’assemblea eucaristica in tutto il mondo,      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’aiuto che viene dal Signore che ha fatto cielo e terra,              Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il custode d’Israele che veglia sulla santa assemblea di Dio,                  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’ombra di Dio che protegge il popolo dall’arsura del male,                  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la sapienza con cui Timòteo ha conosciuto le Sacre Scritture,  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’esegeta che spiega le Scritture a chi vuole conoscere Gesù,     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la voce degli apostoli quando annunciano la Parola di Dio,                   Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il respiro che vivifica la preghiera di ogni orante su tutta la terra,          Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il contenuto della preghiera che la Chiesa eleva al Padre nel Figlio,      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la giustizia che il Padre dona prontamente ai suoi eletti,                        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu custodisci la fede che il Figlio dell’uomo troverà in terra al suo ritorno, Veni, Sancte Spiritus!
 
Pregare è una dimensione di vita. E’ la vita stessa perché la preghiera non è un insieme di formule da sciorinare in determinate circostanze o quando si va in chiesa, ma il respiro della vita che chiede di essere vissuta. La Preghiera è un rapporto d’amore che si esprime nella densità dei sentimenti, cuore a cuore. Non è una contrattazione tra mercanti al fine di spuntare il prezzo migliore. Dio è Padre e noi siamo i suoi figli. Cristo è la Sposo e la Chiesa la sua sposa. Lo Spirito Santo vivifica sia la vita di Dio che l’esistenza dei credenti. La preghiera diventa dunque una relazione d’amore, un colloquio tra innamorati che si concretizza nell’equazione che pregare è perdere tempo per la persona amata. Immersi nella luce della Trinità beata, saliamo sul monte dell’Eucaristia per imparare le regole della preghiera amante. Lo facciamo sempre:
 

(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.

 
Vivere una relazione d’amore significa assumersi il compito della realizzazione della persona che si ama e quindi la responsabilità della crescita della sua vita perché ci sentiamo e siamo custodi della sua felicità. Pregare per un credente in Gesù Cristo, significa assumersi la responsabilità di Dio perché egli, se fosse possibile, – parliamo per paradosso – possa essere «felice» nella sua pienezza: pregare è perdere tempo per Dio. Esaminiamo la nostra coscienza e verifichiamo la natura e la qualità della nostra preghiera, lasciandoci «sedurre» dall’amore gratuito di Dio che arde di desiderio per vedere il nostro volto orante e ascoltare le nostre parole d’amore.
 
[Breve, ma congruo e vero esame di coscienza]
 
Signore, non abbiamo tempo da perdere per amore tuo, perdona la nostra fretta,                 Kyrie, elèison!
Cristo, hai vissuto in intensità la preghiera, insegnaci a pregare il Padre tuo e nostro,           Christe, elèison!
Signore, ci chiedi la perseveranza nella preghiera, perdona la nostra superficialità, Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente che attraverso la presenza dello Spirito ha sostenuto Mosè nella sua preghiera di intercessione; che anima i suoi figli nella battaglia contro il male; che ci dona la Scrittura come codice di discernimento, per i meriti di Mosè il patriarca orante, per i meriti di Paolo e Timòteo, apostoli della parola, per i meriti di tutti gli uomini e le donne che in tutto il mondo «perdono tempo» per amore di Dio e dei fratelli, pregando con cuore grande; per i meriti di Gesù, Parola orante che sale dalla storia al Padre, abbia misericordia di noi, ci perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.     [breve pausa 1-2-3]
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.
Mensa della Parola
Prima lettura Es 17,8-13. Il fondatore degli Amaleciti, Amalèk, è nipote di Esaù attraverso il figlio Elifaz e la sua concubina Timna (Gen 36, 4. 10-12;15-16; 1Cr 1,35-36). Gli Amaleciti sono un popolo cananeo molto antico, anteriore al sec. IX a. C. Essi saranno sempre in lotta con il popolo d’Israele[4]. Amalèk nella Bibbia è il simbolo del male assoluto che assedia chi confida solo in se stesso e nelle sue capacità. Il brano di oggi ha solo la funzione di mettere in risalto la mediazione di Mosè. Si risente ancora uno sfondo di magia, che è testimonianza di antichità. L’autore intende affermare la necessità della preghiera perseverante. Le braccia alzate di Mosè richiamano le braccia crocifisse del Signore Gesù, il Mediatore per eccellenza che prega per i suoi carnefici non per sconfiggerli, ma perché siano perdonati e si salvino.
 
Dal libro dell’Esodo 17,8-13
In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. 9Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». 10 Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. 11 Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. 12 Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. 13 Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 121/120, 1-2; 3-4; 5-6; 7-8. Nel Salterio vi sono quindici salmi (dal 120/119 al 134/133) che sono detti «Canti delle ascensioni» o «Canti dei gradini», immaginando la vita come un andare sempre più verso l’alto (ascensione), salendo un gradino dopo l’altro, come salire la scalinata che conduce al Tempio. E’ il simbolo della vita spirituali. Questi salmi venivano cantati probabilmente dai pellegrini in vista del Tempio che era posto sulla collina di Sion e quindi bisognava materialmente salire per entravi (cf Sal 84/83,7; Is 30,39). Di norma questi salmi hanno un genere «elegiaco»[5]: due versi il cui contenuto viene ripreso continuamente con immagini diverse. Il salmo di oggi sviluppa il tema della «protezione» dei fedeli da parte di Dio: Dio è la scudo che difende Israele da ogni pericolo. Gesù paragonerà se stesso al pastore «bello» che protegge le sue pecorelle da ogni insidia con la sicurezza di un ovile (Gv 10,1-14). L’Eucaristia è la nostra «ascensione» compiuta perché qui vediamo, ascoltiamo, tocchiamo e mangiamo il Verbo della vita (cf 1Gv 1,1-3).
 
Rit.Il mio aiuto viene dal Signore.

1. 1 Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?
2 Il mio aiuto viene dal Signore:
egli ha fatto cielo e terra. Rit.
2. 3 Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
4 Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele. Rit.

 

 

3. 5 Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
6 Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte. Rit.
4. 7 Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
8 Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre. Rit.

 
Seconda lettura 2Tm 3,14-4,2. Alla luce dell’esperienza dell’apostolo Paolo, l’autore invita Timòteo ad equipaggiarsi per affrontare pericoli e avversità. Il sec. I d. C. è un tempo di trasformazioni e di decadenza, un trapasso di civiltà. Tutto accade come se fosse la fine: eresie, apostasie, persecuzioni, scismi, corruzione, divisioni. L’autorità che dovrebbe essere particolarmente vigilante, diventa occasione di divisione e motivo di scandalo. In questo immenso tempo di crisi, c’è un solo pilastro che dà sicurezza: la Sacra Scrittura che deve essere il faro che illumina la vita di chi esercita il servizio dell’autorità «in ogni occasioneopportuna e non opportuna» (v. 4,2), cioè con trasparenza senza tenere conto delle conseguenze. La lettura di oggi è importante perché ci dice che se il cristiano ha un impegno, un obbligo, un dovere che non può disattendere, esso è la «Parola di Dio», cioè la Scrittura che non può essere conosciuta superficialmente, ma dovrebbe essere gustata in profondità perché è l’unico fondamento di ogni formazione e impegno pastorale. Lo Spirito Santo ci doni il gusto della Parola come Scrittura da conoscere, amare e servire.
 
Dalla seconda lettera di Paolo apostolo a Timoteo 3,14-4,2
Figlio mio, 14 tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso 15 e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. 16 Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. 4,1 Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: 4,2 annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 18,1-8. Anche la parabola del vedova povera e del giudice iniquo è esclusiva di Lc (v. Domenica 26a tempo ordinario-C. nota 5). Il capitolo 17 si era chiuso con la descrizione della fine del mondo e l’irruzione di Dio Giudice in un contesto escatologico. E’ dentro questo contesto che si può capire l’invito di Gesù alla preghiera. L’espressione «senza stancarsi» del v. 1, infatti, è tipico di chi attende il Giorno del Signore con perseveranza e fedeltà (cf Lc 21,36; Rm 1,10; 1Ts 5,17; 2Ts 3,13). Nel brano odierno per quattro volte ricorre il tema «fare giustizia» (vv. 3.5.7.8) e richiama il «giorno della vendetta del Signore» (Dt 32,35; Is 34,8; 63,4) che è sinonimo di «giorno della verità», quando Dio svelerà il motivo per cui i poveri saranno salvi, mentre i ricchi saranno perduti (cf Is 61,2). Dio farà giustizia significa che svelerà le ragioni e le motivazioni che stanno al fondo delle scelte di ciascuno. In questo processo che conduce al compimento, resta un grande interrogativo che è anche un ribaltamento radicale della realtà: «non si tratta di sapere se Dio è degno di fede, ma se l’umanità saprà mantenere la fede»[6]. Questo è il dramma permanente che si esaurirà solo a conclusione della storia. Intanto, noi camminiamo di dubbio in dubbio, di fedeltà in fedeltà confidando su una sola certezza: anche se noi non riusciamo ad essere fedeli, Dio lo è perché non può smentire se stesso. Questa garanzia noi troviamo nella celebrazione dell’Eucaristia, il sacramento che alimenta il dubbio come via alla verità.
 
Canto al Vangelo Eb 4,12
Alleluia.La parola di Dio è viva ed efficace, / discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca 18,1-8
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». - Parola del Signore.
 
Tracce di omelia[7]
A più riprese abbiamo già anticipato che il tema della liturgia di oggi è univoco: la preghiera. Anzi la necessità della costanza e dell’insistenza della preghiera, che è un tema prettamente paolino, di cui Lc, discepolo e compagno dell’apostolo, si fa portatore[8]. A volte s’incontrano persone che hanno gettato la spugna, dicendo: ho pregato, non è successo nulla per cui non ne vale la pena. Altri s’impegnano in un cammino di ascesi, impiegando tutti gli sforzi della loro volontà e alla fine si ritrovano frustrati con la sensazione di un intimo fallimento. In una società basata sull’immagine vacua, sul profitto senza fatica e sulla furbizia, accennare alla necessità di pregare sempre diventa motivo di commiserazione se non di emarginazione. La preghiera è affare che non riguarda gli intelligenti e le persone razionali: è roba da vecchiette d’altri tempi o espediente per addormentare i bambini.
Non è facile parlare della preghiera, dei metodi di pregare e dei contenuti perché proveniamo da una formazione religiosa, alquanto superficiale che vede il rapporto con Dio come una contrattazione mercantile. Noi conosciamo molto bene, infatti, la preghiera di domanda perché crediamo di pregare quando abbiamo bisogno di qualcosa o quando non siamo in grado di trovare soluzioni con i nostri mezzi. Non si nega il valore della preghiera di domanda, ma si dice che è una fase primordiale di essa che quando matura diventa confidenza, abbandono, riposo, desiderio, silenzio adorante[9]. Impotenti di fronte ad eventi e fatti più grandi delle forze umane, cristiani e anche molti preti, dicono: «non ci resta che pregare», dando così alla preghiera la dimensione della disperazione e dell’impotenza, rifugio di consolazione. Dopo avere provato tutto invano: «non ci resta che pregare». Così non è.
La 1a lettura ci descrive la forma magica di preghiera legata alla gestualità: quando Mosè tiene le mani alzate e Israele vince, quando le abbassa e Israele perde. Il testo non dice nulla sul contenuto della intercessione di Mosè che anzi pare sia assente: è sufficiente la presenza fisica, là «ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9). Tutti riti di tutte le religioni hanno necessariamente una dimensione di «teatralità» perché esigono vesti proprie, gesti, danze, canti: una rappresentazione mimica che coinvolge sia lo spirito che il corpo.
Così avveniva prima della riforma liturgica del concilio ecumenico Vaticano II, quando valeva su tutto la «forma rituale»: non si parlava di «liturgia», ma di «sacre cerimonie» e una delle materie studiate in seminario erano «le Rubriche» per compiere esattamente (teatralmente) gesti, movimenti e tempi del rito[10]. Si giunse persino all’assurdo di considerare la validità della Messa a partire «dall’offertorio» in poi. Si poteva andare comodi «tanto la Messa è valida dall’offertorio», dispensandosi quindi completamente dalla già poca liturgia della Parola, dall’atto penitenziale e dal salmo introitale. La Parola di Dio era pleonastica, ciò che importava era la misteriosità della formula magica, specialmente quella consacrazione, diventata l’atto magico di un rito anonimo a cui era sufficiente «assistere» come ad un teatro per altro incomprensibile. Durante la grande «preghiera» della Chiesa, ognuno poteva fare quello che voleva: pregare per conto suo, sgranare il rosario, dormire e annoiarsi[11]. La Messa era valida lo stesso perché era importante «soddisfare il precetto», cioè essere fisicamente presente. In questo contesto pregare non era rapporto di vita, ma una sudditanza di paura: si offriva a Dio una serie di gesti rituali «ben fatti» in cambio della sua benevolenza. Il campanello suonato due volte dal chierichetto aveva la funzione pedagogica di ricordare alla massa presente che il prete era giunto a metà Messa (1° campanello) o alla comunione, cioè quasi alla fine (2° campanello). Era del tutto assente la preghiera corale della Chiesa.
Spesso nella concezione della preghiera, ridotta esclusivamente a richiesta, riduciamo Dio ad «tappabuchi» per usare una magistrale definizione del grande teologo luterano Dietrich Bonhöffer[12]. In altre parole ci attendiamo da Dio che compia quanto noi non siamo in grado di realizzare per cui chiediamo tutto: dalla pace alla salute, dalla riuscita di un esame o di un concorso ai numeri del lotto. Il Dio che preghiamo è un idolo-giocattolo nelle nostre mani, un distributore automatico che risponde a gettone, secondo le necessità e le urgenze, ogni qualvolta lo vogliamo noi. Proviamo a superare il livello della polvere che appanna il nostro sguardo e cerchiamo di riflettere serenamente e col cuore dell’intelligenza.
Cominciamo con il dire che noi non sappiamo pregare come afferma San Paolo: «Noi non sappiamo nemmeno che cosa sia conveniente domandare» (cf Rm 8,26). Pensiamo che la preghiera sia una recita vocale di formule, spesso meccaniche: le parole fluiscono per conto loro e il cuore naviga per conto suo. Spesso confondiamo la preghiera con un bisogno psicologico di protezione o forse di alienazione: la vita è tanto dura e cattiva che ogni tanto fa bene ritirarsi in disparte e non pensare a niente. E’ la preghiera come estraniazione, ma spesso non sappiamo nemmeno che mentre crediamo di pregare, invece stiamo parlando solo con noi stessi.
La preghiera prima di essere un momento o un atteggiamento è uno stato dell’essere, esattamente come l’amore che non è una caratteristica di qualcuno, ma la dimensione intima e unica della vita. Visse intimamente questa dimensione San Francesco d’Assisi di cui si diceva che «non era tanto uno che pregava, quanto piuttosto uno che era diventato preghiera lui stesso[13]. Accanto a lui una donna, anzi una ragazza è stata capace di capire l’equazione della vita: pregare è amare. Alla sorella che le chiedeva cosa dicesse quando pregava, santa Teresina rispondeva: «Io non gli dico niente, io lo amo». In altre parole solo gli innamorati sanno pregare perché conoscono al dimensione della parola che diventa silenzio e conoscono il silenzio come pienezza della parola. Pregare è una relazione d’amore e come tale esige un linguaggio d’amore con tempi e spazi d’amore.
Se amare è «perdere» tempo per la persona amata, pregare è, allo stesso modo, perdere tempo per sé e Dio perché la preghiera diventa così uno spazio e un tempo riservati per una intimità d’amore. Un tempo e uno spazio che non si esauriscono nello svuotamento di sé, ma nella pienezza che l’altro porta con sé. La pienezza di Dio è la Parola, il Lògos come progetto/proposta d’amore di Dio. La Parola di Dio diventa così il fondamento della preghiera, ma anche la dimensione e il nutrimento dell’orante. Come gli innamorati si educano a vedere il mondo e la vita con gli occhi dell’amato o dell’amata, arrivando addirittura a prevenire i desideri, così l’orante è colui che sta «sulla Parola» (Gv 8,31) per imparare a vedere la vita, la storia e le proprie scelte con gli occhi di Dio. La preghiera è «il collirio per ungerti gli occhi e vedere» di cui parla l’Apocalisse (3,18): illimpidirsi lo sguardo da ogni strato di sovrapposizione per essere in grado di vedere lo sguardo dello Spirito. In questo senso la preghiera è alimento costante del dubbio perché toglie ogni sicurezza esteriore ed effimera: non è la garanzia della certezza, ma l’alimento della ricerca che esige l’umiltà come condizione. Purificarsi lo sguardo significa liberarsi dalle idee che si hanno di Dio e domandarsi sempre se quella che abbiamo conseguito è quella vera e definitiva. Finché vi sarà storia la preghiera cristiana amerà il dubbio non come sistema, ma come condizione di purificazione e di fedeltà.
Nel nostro modo di pregare siamo talmente presi dalle «cose da dire» che non ci rendiamo conto di non lasciare alcuno spazio all’eco della Parola di Dio: siamo talmente occupati ad ascoltare quello che diciamo che non lasciamo spazio all’ascolto di Dio, il quale tace, rintanato in un cantuccio perché il nostro pregare è solo un occupare un tempo vuoto di cui forse abbiamo paura. Quando abbiamo la sensazione che Dio tace, è segno che noi parliamo troppo. Nella celebrazione dell’Eucaristia sono molto importanti i momenti di silenzio perché costituiscono la cassa di risonanza della Parola. Se le parole si accavallano, si inseguono con la fretta di giungere alla fine, abbiamo compiuto un rito, ma non abbiamo celebrato. La Parola senza il silenzio è un suono senza senso perché il silenzio è la mèta della parola.
La preghiera è comunicazione d’amore con una Persona che è il perno della vita: per questo deve essere centrata sulla stessa persona di Dio, come suggerisce l’inno trinitario all’inizio dell’Eucaristia, il Gloria a Dio. L’inno, che probabilmente è databile sec. IV d.C., ha un andamento tripartito (per cui è bene mettere in evidenza anche le dovute pause, mentre di solito lo si massacra con una velocità micidiale), perché si rivolge a Dio Padre, a Gesù Cristo, allo Spirito Santo: tutto in questa preghiera, una delle più belle della liturgia, è centrato sulla Persona di Dio e costituisce così la preghiera «teo-logica» per eccellenza. «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie» sono cinque azioni centrate in Dio e con uno scopo: «per la tua gloria immensa». La ragione di vivere è «dare gloria» a Dio che non significa cantare un canto, ma riconoscere la sua «gloria» nel senso ebraico del termine. La «Kabòd» ebraica che il greco traduce con «Dòxa» indica il «peso/la consistenza/la stabilità» di Dio. In altre parole «per la tua gloria immensa» significa prendere coscienza che Dio è il «valore/il peso» della vita del credente. Non è un caso che al tempo di Gesù, il termine «Kabòd» era uno dei Nomi santi con cui si indicava Dio, in sostituzione del «santo tetragramma» Yhwh. Pregare significa accettare di fare della propria esistenza la «Kabòd/Gloria» di Dio.
Quando l’ebreo prega si prepara minuziosamente: mette il «tallit» o mantello sulla testa, quasi a dire plasticamente che si sottomette ai precetti del Signore; lega alla fronte e al braccio sinistro stretto sul cuore due scatolette contenenti la preghiera dello Shemà’ Israel e i comandamenti per ricordarsi delle parole del Dt:
 
«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. 5 Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6 Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; 7 li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8 Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi» (Dt 6,4-8; cf anche 221,12 e Nm 15,38-41).
 
Pregare è riconoscere la signoria di Dio sulla propria vita e quindi affermare la propria dignità di liberi figli del Creatore e riconoscere a tutti gli altri la stessa dignità. La preghiera è un processo di crescita, un percorso di armonia che conduce alla maturità e quindi ad una relazione affettiva con Dio, dove non conta più la modalità, ma unicamente la qualità del rapporto che si esprime in tutta la lunghezza della gamma di una relazione d’amore perché coinvolge i sensi, l’immaginazione, i sentimenti, la paura, i dubbi, la fatica, la tensione, la stanchezza, il bisogno di solitudine, la parola, il silenzio, il grido, l’angoscia, la gioia, l’abbandono, l’evasione e tutti gli sbalzi umorali a cui può essere assoggettato l’animo di una persona normale.
Se prendiamo il libro dei Salmi che racchiude la preghiera secolare d’Israele e della Chiesa, vi scorgiamo tutta la gamma della dimensione psicologica della persona umana: dolore e gioia, angoscia e speranza, terrore e lode, richiesta di aiuto e ringraziamento, malattia e gioia di vivere. Nulla di ciò che forma la vita umana vi è estraneo perché pregare è vivere con Dio. La stessa Eucaristia che è la preghiera per eccellenza della Chiesa, contiene gli stessi elementi: la richiesta di perdono, l’ascolto, l’anelito, la lode, la richiesta di aiuto, la professione di fede, la memoria storica, l’abbraccio, il silenzio, la parola, i sentimenti di fraternità e di gratuità, il dono e la pace.
Purtroppo spesso nella nostra formazione la preghiera si è identificata soltanto con la preghiera di domanda, facendone così non uno «stato di vita», ma una necessità nelle situazioni di bisogno. E’importante anche chiedere, ma sapendo che «il Padre vostro sa [ciò di cui] avete bisogno» (Lc 12,30). Anche su questo aspetto però bisogna fare qualche appunto di riflessione. Per la maggior parte dei credenti, la preghiera di domanda consiste nella richiesta a Dio di fare un certo intervento e nell’aspettare che egli lo compia come noi glielo abbiamo chiesto. Gli chiediamo di impedire una morte, di deviare il corso di una malattia, di fare arrivare in orario il treno e più seriamente di darci il pane che manca, invochiamo la pioggia, la pace che non siamo capaci di fare vivere. In questo contesto pregare significa ricattare Dio a fare quello che vogliamo noi, riducendolo ad un meccanismo-giocattolo nelle mani di adulti-bambini.
Al contrario, la preghiera di domanda è legittima, se essa è, alla luce dello sguardo di Dio, un «urlo» di protesta e di contestazione con il quale c’impegniamo:
a non alimentare la guerra che impedisce alla pace di avere cittadinanza sulla terra;
a non tollerare la povertà ignobile che rende schiavi la maggioranza dell’umanità;
a condannare la ricchezza di pochi come atto fondamentale di ingiustizia;
a contestare la struttura di un mondo che affoga nell’idolatria del superfluo;
a non partecipare al gioco di una società che vive di parole morte;
a non essere mai complici di manipolazione di qualsiasi genere;
ad essere pazienti con chi sbaglia non una, ma anche mille volte;
ad esporre nella propria vita la misericordia che ciascuno di noi sperimenta per sé;
a creare ponti di congiunzione e non abissi di separazione;
ad usare sempre la parola per creare la comunicazione e non per la finzione esteriore;
a non inquinare il mondo, causa del sovvertimento dell’ecosistema (pioggia e clima), ecc. ecc.
La preghiera cristiana c’immerge nello sposalizio con mentalità di Dio perché più preghiamo più ci avviciniamo al modo di pensare di Dio e ne acquisiamo il metodo che è sempre un metodo di misericordia e di pazienza, di possibilità e di riserva d’amore. La perseveranza nella preghiera ha solo questo obiettivo primario: educarci attraverso gli esercizi oranti ad imparare a vivere e ad agire e a pensare come vive, pensa e agisce Dio.
Tutto quello che abbiamo detto fino a qui, anche se in modo appena abbozzato, riguarda la preghiera dal punto di vista nostro, cioè dal punto di vista umano. C’è nella preghiera anche una prospettiva di Dio? In altri termini pregare che cosa significa dal punto di vista di Dio? Noi siamo soliti dire che «noi preghiamo Dio», ma siamo sicuri che Dio non prega? E se prega in che cosa consiste la sua preghiera? Forse questo è un aspetto che non ci siamo mai posti. Intanto preghiamo atto che Gesù vive una vita all’insegna della preghiera, specialmente nel vangelo di Lc (3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; cf Mt 26,26.36), dove le svolte significative della sua vita sono segnate da un atteggiamento profondo di preghiera (Lc 3,21; 9,29; 22,42) per comprendere che la direzione della sua esistenza era in sintonia con la volontà del Padre. Anche nell’AT troviamo un’attitudine di Dio alla preghiera. Ne sottolineiamo due esempi.
Il primo esempio lo rileviamo indirettamente dal Deuteronomio che riporta tre grandi discorsi di Mosè al popolo, prima dell’ingresso nella Terra Promessa. Mosè è in punto di morte e parla in nome di Dio (cc. 1-4; 5-26; 27-30). In questi discorsi formalmente è Mosè che parla, ma in realtà il grande profeta parla in nome di Dio, ripetendo ciò che è avvenuto al monte Sinai[14]. Per ben sette volte ricorre l’espressione: «Shemà’ Israel – Ascolta, Israele (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1; 20,3; 27,9) e risuona come un’invocazione di Dio al popolo perché presti attenzione alle parole che egli pronuncia attraverso il suo profeta. Dio quasi s’inginocchia davanti a Israele e lo supplica di «ascoltare»: Dio prega il suo popolo.
Mosè è il punto di partenza per capire il senso della preghiera come visione e non come contrattazione, come esperienza di vita e non come soluzione di bisogni. Mosè sa che il Dio dell’Esodo non può essere imprigionato nelle categorie della religione, di lui non si può possedere nemmeno il «Nome» (Es 1,14). Può essere desiderato, ma non visto, gli si può parlare, ma senza contemplarlo in volto. E’ un «Dio vicino» (Dt 4,7), ma anche un «Dio terribile» (Dt 10,17; Sal 68/67,36). Nessun Ebreo può aspirare a «vedere» Yhwh senza sperimentare immediatamente la morte: chiunque vede Dio muore[15]. Questa ambivalenza di «vicinanza/lontananza» permane nella preghiera in sinagoga dei tempi di Gesù. Nella Ghenizàh (= Ripostiglio)[16] del Cairo sono state trovate preghiere costruite nella doppia valenza: Israele quando prega inizia sempre rivolgendosi a Dio con il vocativo «tu» della 2a persona singolare e la conclude usando la 3a persona singolare «egli». Questo gioco di onda tra la 2a e la 3a persona singolare è una costante della preghiera ebraica che sperimenta Dio allo stesso tempo, vicino e lontano, Padre e Creatore[17]: Dio è Padre, ma non è un amicone da pacca sulla spalla.
Il desiderio di Dio è più forte della paura della morte perché Mosè, a cui «il Signore parlava … faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11) senza però poterlo vedere, esprime l’anelito del profeta che porta in sé il bisogno dell’umanità intera:
 
Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via, così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa nazione è il tuo popolo”. 14Rispose: “Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo”. 15Riprese: “Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire di qui. 16Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti, io e il tuo popolo, da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra”. 17 Disse il Signore a Mosè: “Anche quanto hai detto io farò, perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome”. 18 Gli disse: “Mostrami la tua gloria!”. 19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia”. 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33,13-23).
 
Il v. 13 nella versione greca della Lxx ha una richiesta indicibile: «manifesta te stesso a me –emphànison moi seautòn» dove il testo ebraico ne smorza l’audacia: « hod‘ènì-na’ ’et derakèka – fammi conoscere la tua via » oppure al v. 18 la «tua Gloria – ’et kebodèka». Nel v. 19 Dio promette a Mosè di fare passare davanti a lui tutto il suo splendore, mentre proclamerà il Nome del Signore. Il grande esegeta ebraico medievale Rashi commenta che Dio consegna a Mosè la visione di sé nella preghiera fondata sul merito dei Padri, cioè nella preghiera corale (senso della ecclesialità):
 
[corsivo nostro] «“Farò passare innanzi a te…”. E’ giunto il momento in cui tu puoi vedere della Mia gloria quello che ti consentirò di vedere, perché Io voglio e debbo insegnarti un formulario di preghiera. Quando tu hai bisogno di implorare la Mia misericordia per Israele, ricorda a Me i meriti dei loro Padri, perché, come ben sai, se sono esauriti i meriti dei Patriarchi, non c’è più speranza. Io, dunque, farò passare tutta la Mia bontà dinnanzi a te, mentre tu ti trovi nella grotta»[18].
 
Al v. 22 Mosè è nascosto da Dio nella «cavità della rupe» coperta dalla mano di Dio. Il richiamo immediato è al Cantico dei Cantici, quando il giovane amante cerca di vedere il volto della innamorata: «Colomba mia! Nelle spaccature delle roccia, nel nascondiglio del dirupo, fammi vedere il tuo volto, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave, e bello il tuo volto» (Ct 2,14).
 
[corsivo nostro] E quando l’empio Faraone inseguiva il popolo d’Israele (Es 14,8ss), l’Assemblea d’Israele fu come una colomba chiusa nelle spaccature di una roccia: e il serpente cerca di colpirla dal di dentro, e l’avvoltoio di colpirla dal di fuori. Così l’Assemblea d’Israele: essa era chiusa dai quattro lati del mondo: davanti a loro il mare, dietro a loro inseguiva il nemico, e ai lati, deserti pieni di serpenti infuocati, che colpiscono e uccidono con il loro veleno i figli dell’uomo. Subito, allora, essa aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce (cf Esodo Rabba XXI, 5 e Cantico Rabba II, 30). Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone (cf Mekilta Es 14,13).
 
La tradizione giudaica (Targum a Ct e Rashi a Es 33) ci aprono una prospettiva molto importante: al desiderio del profeta Mosè di vedere Dio, il Signore risponde insegnando le regole della preghiera e al desiderio dell’innamo-rato di vedere il volto della sposa, Dio risponde che è lui stesso, Dio, che vuole contemplare il volto di Israele quando prega. Si ribaltano completamente i ruoli: non è più l’uomo che desidera vedere Dio, ora è Dio che vuole contemplare il volto dell’assemblea/sposa quando prega, perché nella preghiera si consuma la sola conoscenza sperimentale possibile che diventa estasi e contemplazione: l’amore perché quando noi preghiamo è Dio che contempla noi e arde del desiderio di vedere il nostro volto[20]. Pregare non è presentarsi davanti a Dio, non significa nemmeno compiere uffici o proclamare lodi e nemmeno ringraziare Dio: tutto ciò è parte ancora di un rapporto esteriore.
Per il Targum pregare è rispondere all’anelito di Dio di vedere il volto del suo figlio/figlia. Pregare è regalare il proprio tempo a Dio per permettergli di contemplare l’assemblea orante. Per vedere Dio, ora è sufficiente lasciarsi contemplare dall’Invisibile mentre si prega. Questo anelito si prolunga anche nel NT, quando i Greci giunti a Gerusalemme si rivolgono a Filippo e ad Andrea esprimendo il loro anelito: «Vogliamo vedere il Gesù» (Gv 12,21), anelito a cui il Signore risponde con il rinvio alla morte in Croce: per vedere Dio bisogna salire il Calvario e sostare ai piedi della Croce per contemplare l’uomo crocifisso che incarna il volto dell’Invisibile: «E’ venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12,23-24). Anche la Croce esprime una doppia prospettiva: dal basso c’è l’apostolo e Maria che guardano il volto di Dio crocifisso e dall’altro c’è il Dio morente che guarda l’uomo e la donna, novelli Adam ed Eva (Gv 19,25-27), segno sacramentale dell’intera umanità immersa nella visione del Dio invisibile che i cieli dei cieli non possono contenere (2Cr 2,5). 
Pregare, in conclusione, è solo perdersi in un afflato d’amore in cui si confondono e si fondono insieme due desideri fino a diventare uno solo, fino a sperimentare una sola vita. L’Eucaristia è tutta qui: lo spazio della visione sperimentata. L’Assemblea si raduna per permettere a Dio di contemplarla nello stesso momento in cui si pone davanti a Dio per vedere, toccare e mangiare il «Lògos della vita» (1Gv 1,1).
 


Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

 
[breve pausa 1-2-3]
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.  [breve pausa 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti.         [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale[intenzioni libere]
 
MENSA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
 
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte). Donaci, o Padre, di accostarci degnamente al tuo altare perché il mistero che ci unisce al tuo Figlio sia per noi principio di vita nuova. Per Cristo nostro Signore.
 
PREGHIERA EUCARISTICA II (detta di Ippolito, prete romano del sec. II)
PREFAZIO PASQUALE III – Cristo sempre vive e intercede per noi
 
Il Signore sia con voi.                         E con il tuo spirito.  In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.                    E’ cosa buona e giusta.
 
E’veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, proclamare sempre la tua gloria, o Signore, e soprattutto esaltarti in questo tempo nel quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato.
Osanna nell’alto dei cieli. Kyrie, eleison! Christe, elèison! Benedetto colui che viene, nel Nome del Signore. Pnèuma, elèison!
 
Egli continua a offrirsi per noi e intercede come nostro avvocato: sacrificato sulla croce più non muore, e con i segni della passione vive immortale.
Santo, Santo, Santo, il Signore Dio Eliseo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Kyrie, eleison!
 
Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
Con Mosè saliamo il colle dell’Eucaristia con la forza del bastone di Dio che è lo Spirito Santo (cf Es 17,9).
 
Offrendosi alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzo, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Alziamo gli occhi verso il Signore: da lui che ha fatto il cielo e la terra viene il nostro aiuto (cf Sal 121/120,1.2).
 
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA
ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Tu, o Signore, ci proteggi da ogni male, tu sei come l’ombra che protegge (cf Sal 121/120,7.5).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Tu, o Signore ci custodisci quando entriamo e quando usciamo, da ora e per sempre (cf Sal 121/120,8).
 
MISTERO DELLA FEDE.
Celebriamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione e attendiamo il tuo ritorno. Maràn athà! Vieni, Signore nostro! Christe, elèison.
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.
Restiamo saldi sulla Parola di Dio che è il Cristo Signore (cf 2Tm 3,14).
 
Ti preghiamo per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Insegnaci, Signore, a pregare sempre nella Santa Assemblea, sacramento della tua Shekinàh (cf Lc 18,1).
 
Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa sulla terra: rendila perfetta nell’amore in unione con il Papa Benedetto, il Vescovo Angelo, le persone che vogliamo ricordare… e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.
Facci giustizia, Signore, contro l’antico avversario che si annida in noi stessi (cf Lc 18,3).
 
Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.
Donaci, o Signore, il timore e il tremore perché, amandoti, possiamo accogliere e rispettare i figli e le figlie del tuo amore infinito (cf Lc 18,4).
 
Di noi tutti abbi misericordia: donaci di avere parte alla vita eterna, con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.
Aumenta, Signore, la nostra fede perché quando verrai potrai trovarne ancora sulla terra (cf Lc 18,8).
 
Dossologia[è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell'unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico: idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione Sal 33/32,18-19 Ecco, l’ occhio del Signore è su chi  lo teme, su chi spera nel suo amore, per liberarlo dalla morte,  e nutrirlo in tempo di fame.
 
Dopo la Comunione
Da Il piccolo monaco di Madeleine Delbrêl (da «Giorno per giorno» della Comunità del Bairro del 13.10.2007)
La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo. / Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo / viverla con una certa grandezza. / Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che / ne scocchi l’ora. / Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover / essere consumati. Come un filo di lana tagliato / dalle forbici, così dobbiamo essere separati. Come un giovane / animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi. / La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene. // Vengono, invece, le pazienze. / Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo / scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di /ucciderci senza la nostra gloria. // Fin dal mattino esse vengono davanti a noi: / sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti, / è l’autobus che passa affollato, / il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono, / i bambini che imbrogliano tutto. / Sono gl’invitati che nostro marito porta in casa / e quell’amico che, proprio lui, non viene; / è il telefono che si scatena; / quelli che noi amiamo e non ci amano più; / è la voglia di tacere e il dover parlare, / è la voglia di parlare e la necessità di tacere; / è voler uscire quando si è chiusi / è rimanere in casa quando bisogna uscire; / è il marito al quale vorremmo appoggiarci / e che diventa il più fragile dei bambini; / è il disgusto della nostra parte quotidiana, / è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene. // Così vengono le nostro pazienze, / in ranghi serrati o in fila indiana, / dimenticano sempre di dirci che / sono il martirio preparato per noi. // E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando / – per dare la nostra vita – un'occasione che ne valga la pena. / Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami / che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che / i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura. / Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana / tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno / per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano. / Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: / e ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita. // È la passione delle pazienze.
 
Preghiera dopo la comunione. O Signore, questa celebrazione eucaristica, che ci ha fatto pregustare le realtà del cielo, ci ottenga i tuoi benefici nella vita presente e ci confermi nella speranza dei beni futuri. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale da rifare
Il Signore che contempla Mosè che supplica con le mani alzate, ci doni la sua benedizione.           Amen.
Il Signore che invoca il volto e la voce della Chiesa orante, ci consoli con la sua Pace.                 
Il Signore che ci istruisce con la Parola della Santa Scrittura, ci colmi della sua tenerezza.
Il Signore che ci chiede di pregare sempre per salvarci col mondo, ci protegga e ci sorregga.
Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci.                                                  
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.
Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolaci.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                Amen.
 
La messa è conclusa come celebrazione: continua nella testimonianza della vita.
Andiamo incontro al Signore nella storia. 
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
 
Appendice: note esegetiche su Lc 18,1-8
Diamo in appendice alcuni dati esegetici del brano del vangelo di oggi, Lc 18,1-8) da cui abbiamo tratto la riflessione sulla preghiera, sviluppata nell’omelia. Per comprendere il brano bisogna esaminarlo nel suo contesto immediato.
Il capitolo precedente del vangelo, cioè il cap. 17 di Lc, si chiude con la descrizione del «giorno» del Figlio dell’uomo giudice del mondo che coglierà di sorpresa chiunque non è preparato. Da qui il costante invito di Gesù alla vigilanza (Lc 12,35.36; Mt 24,42; 25,13, ecc.) E’ la prospettiva escatologica, cioè, l’annuncio a prepararsi per la fine della storia. In quel giorno si stabilirà la verità dell’uomo e la regalità di Dio. Quel giorno è descritto con le tinte drammatiche di una selezione senza scampo. Nel brano del vangelo di oggi vi è una discreta ripresa di questo tema che collega il brano al capitolo precedente: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (v. 8).
Un altro indizio che dobbiamo considerare in questo contesto escatologico è l’invito a pregare sempre «senza mai stancarsi» del v. 1, che è una caratteristica costante di chi attende il giorno di Yhwh/del Signore (Am 5,18; Lc 21,36; 1Tes 5,17; 2Tes 3,13; Rom 1,10, ecc.). L’insistenza ha lo scopo di predisporre psicologicamente a questo evento: ricordarsi sistematicamente che quel giorno deve arrivare.
Un altro elemento importante è l’espressione «fare giustizia» che nel brano appena proclamato ricorre ben 4 volte (v. 3: Fammi giustizia contro il mio avversario; v. 5: le farò giustizia; 7: Dio non farà giustizia ai suoi eletti; v. 8: Vi dico che farà loro giustizia prontamente). Questa espressione richiama direttamente il giorno della vendetta in cui Dio consolerà/salverà tutti gli afflitti (Is 61,2).
Mettendo in relazione preghiera e giorno del Signore o escatologia e fine della storia, l’evangelista ci invita a non stancarci mai di pregare anche se il Signore sembra tardare o apparire sordo alla preghiera.
E’ l’esperienza che facciamo tutti i giorni: preghiamo e non concludiamo nulla; preghiamo e ci sembra di annegare in un mare di parole vuote e senza senso. Preghiamo è Dio resta muto e assente e nulla cambia nelle situazioni che ci opprimono. Ci lasciamo andare e concludiamo…tanto pregare non serve a nulla.
E’ lo stesso atteggiamento degli apostoli sulla barca durante la tempesta: Gesù è presente, ma dorme; la tempesta sovrasta e anche Dio sembra inutile: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38). Lo smarrimento degli apostoli diventa terrore nonostante la Presenza fisica del Signore.
La parabola contrappone due personaggi. Un giudice arrogante, senza dio e morale che crede di potere manovrare come vuole chi vuole: egli esercita la sua onnipotenza con i deboli come la vedova. Eppure alla fine fa giustizia alla vedova (v. 5), ma solo per non essere più importunato: fa giustizia per il suo benessere. Egli piega l’istituzione al suo tornaconto. Dall’altra parte c’è una povera vedova, sola e senza potere, in balia del capriccio del potere: ella è forte però del suo diritto che difende ad ogni costo (v. 3. 4). La sua «resistenza» è prima di tutto un ricordare a se stessa la sua dignità di persona e di donna, è nutrirsi del suo diritto disatteso e quindi rafforzare la volontà di avere giustizia.
L’insegnamento di Gesù è semplice: se un uomo esecrabile, per un suo interesse, riesce anche a fare giustizia alla vedova, quanto più Dio che è giusto e Padre farà giustizia ai suoi figli? Dio farà giustizia prontamente (v. 8), ma dopo un certo tempo (v. 7), cioè una dilazione che è lo spazio di tempo concesso ancora per dare la possibilità ai peccatori di convertirsi. La dilazione che Dio si concede è parte integrante della preghiera cristiana che si fa carico della salvezza di tutti gli uomini, affinché nessuno vada perduto.
In questo sta la ragione della preghiera senza mai stancarsi: bisogna pregare, pregare, pregare, anche se nulla sembra accadere, anche se tutto sembra inutile…perché la nostra preghiera diventa lo spazio che Dio si è preso per dare un po’ più di tempo agli uomini per salvarli. Pregare non è richiedere che Dio intervenga immediatamente a fare vendetta (Lc 13,6-9; cf Ap 6,10), essa al contrario sposa la pazienza di Dio e la volontà sua di salvezza per permettere ai peccatori di convertirsi (2Pt 3,9-15). Pregare è sposare il cuore, la volontà e la mentalità di Dio per essere di lui il segno tra gli uomini e le donne che incontriamo per strada.
Il credente che prega è un intercessore che si frappone fra Dio e il mondo: sta davanti al mondo per indicare il volto di Dio e sta davanti a Dio per invocare il perdono e la misericordia. Il modello dell’orante è ancora una volta Mosè che di fronte alla richiesta di Dio di annientare il popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9), intercede in difesa del popolo, usando tutte le sue armi di seduzione per modificare l’intenzione di Dio e vi riesce (Es 32,11-14), ma davanti al popolo non esita a metterlo di fronte alle sue responsabilità (Es 32,15-24)[21]. Il credente orante è strabico per vocazione: contemporaneamente deve avere un occhio rivolto a Dio e un occhio al suo popolo, al mondo perché la preghiere è essere immersi nella vita che si fa salvezza nella storia.
__________________________________
© Nota: Domenica 29a del Tempo Ordinario –C, + Supplemento - Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte Paolo Farinella, prete 17/10/2010


[1] In ebraico il verbo «yadà‘ - conoscere» si applica anche ai rapporti sessuali che sono la «conoscenza» più radicale esistente in natura perché è «generativa» (cf Gen 4,1). La versione greca della Lxx traduce con il verbo «ghnôskō – io conosco». Questo verbo ha la radicale (ghnō-) molto vicina a quella del verbo «ghennàō – io genero» (radice ghèn[na]-) che si riferisce all’atto procreativo maschile;  per la donna, infatti, si usa «tìktō – io partorisco», da cui «tèkna – prole/figlioli»).
[2] Sant’Agostino, Confessioni, XI,14,17.
[3] Sul tema teologico e spirituale del «dove» ognuno si trova nel proprio cammino di fede, cf P. Farinella, Bibbia. Parole segreti misteri, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR), 2009, 77-82 dal titolo «Dove sei? Chi sei»
[4] Per la storia dell’inimicizia tra i due popoli cf oltre la lettura di oggi, Nm 13,29; 14,25.43.45; 21,7; Dt 25,17-19; Sal 84/83,8), specialmente con la tribù di Giuda a sud della Palestina. Anche Davide li combatté (1Sam 15,1; 27,8; 30,1-20; 2Sam 1,1; 8,12; 1Cr 4,42-43; 18,11.
[5] Il termine «elegìa» è di origine incerta, probabilmente deriva da «èleghos – flauto» (dalla radice armena antica “elegh”). Poiché con questo strumento si accompagnavano i lamenti funebri «elegìa» divenne sinonimo di «lamentazione». L’elegìa era sempre composta da due versetti ritmici (dittico) con una propria metrica, per cui successivamente passo ad indicare ogni composizione con questa forma letteraria, sia che il contenuto fosse funebre, conviviale o militare.
[6] Bibbia Cei (edizione 1997) nota a Lc 18,1-8, p. 193, annotazione scomparsa nell’edizione del 2008.
[7] Oggi ci dedichiamo ad una riflessione generale sulla «preghiera», rimandando all’appendice per la presentazione specifica dei testi biblici.
[8] Cf Rm 1,10; 12,12; 1Ts 5,17, ecc. Ciò dimostra che il 3° vangelo espone la teologia di Paolo più che la predicazione di Gesù, alla cui storicità infatti Lc è poco interessato: v. l’impostazione stessa del vangelo sulla categoria del «viaggio» che estrapola necessariamente «detti e fatti» di Gesù da ogni contesto storico.
[9] La Bibbia è piena di preghiera di domande per imolorare richieste concrete come una guerra da intraprendere (cf 1Sa, 14. 37) o l’esito di una malattia (cf 2Re, 8,8). Basta infine scorrere il salterio per averne conferma: Sal 4; 26/25; 28/27; 31/30; 35/34; 38/37; 41/40; 55/54; ecc. ecc.
[10] Il termine «rubrica» deriva dall’aggettivo latino «rúber, rúbra, rúbrum» che significa «rosso». Ciò è dovuto ad un fatto semplice: i codici antichi di Messali e preghiere portavano anche le indicazioni delle modalità (seduti, in piedi, braccia elevate, in ginocchio, voce alta, sottovoce, ecc.) che, per distinguerle dal testo scritto di norma in nero, erano scritte in rosso.
[11] In ogni chiesa e parrocchia, la domenica si celebravano le messe ad ogni ora al fine di dare a tutti la possibilità di soddisfare il precetto e per semplificare le cose si predisponevano le confessioni durante la Messa: si finiva per non fare bene né l’una né l’altra. In questo modo si privilegiava solo la Comunione a cui ci si poteva accostare «perché confessati».
[12] D. Bonhöffer, Resistenza e resa: lettere e appunti dal carcere Bompiani, Milano 1969, 264. Dice il salmo: «“Dov’è il loro Dio?”. 3Il nostro Dio è nei cieli, tutto ciò che vuole, egli lo compie. 4Gli idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. 5Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, 6hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. 7Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni». (Sal 115/114, 2-7; v. anche Sal 135/134, 15-17). Sul Dio «Dio-tappabuchi» (Lückenbüsser) di Dietrich Bonhöffer (1906-1945), cf Domenica 27a del tempo ordinario-C nota 7.
[13] «… Non tam orans quam oratio factus» in Vita Seconda di Tommaso da Celano (=2Cel) 95; cf Fonti Francescane, Movimento Francescano, Assisi 1978, 630.
[14] In ebraico, infatti, il titolo dell’intero libro è «Devarìm» cioè le «Parole» che Dio attraverso Mosè rivolge al popolo e non «Deuteronomio» che in greco significa appunto «Seconda Legge» [la Prima Legge è quella del Sinai].
[15] Cf Es 3,6; 19,12.31; 33,20; Lv 16,1-2; Nm 4,2; Is 6,3; Gdc 13,22; al contrario cf invece Dt 5,24: Gdc 6,22-23). Il timore di «vedere Dio» e di morire persiste anche nell’Apocalisse perché l’autore cadde «come morto» appena vide il figlio di uomo, ma, come accade nell’AT, riceve la garanzia della sopravvivenza (1,17).
[16] Accanto ad ogni Sinagoga vi era un ripostiglio sigillato con una finestrella da cui venivano gettati i rotoli e gli scritti liturgici non più utilizzati. Questi testi non erano gettati via perché in essi vi era scritto il «Nome» santo di Dio: «YHWH». Questo supremo rispetto e questa usanza hanno permesso di trovare centinaia di testi per noi oggi utili per la comprensione dei tempi passati.
[17] Molte traduzioni fanno piazza pulita di questa distinzione e traducono tutto con la 2a persona, mentre invece bisogna mantenere l’andamento originario: la 2a persona esprime la confidenza affettuosa con Dio, mentre la 3a persona esprime la «singolarità» di Dio e la sua «grandezza» nel senso che egli non può essere Padre e amico, non un amicone di strada. Riportiamo solo due esempi. Il 1° è tratto dal finale della 2a benedizione che precede lo Shemà’: «Benedetto sei tu, Adonai, tu che scegli il suo popolo Israele». Il 2° dal Siddùr della Ghenizàh del Cairo, preghiera in forma breve: «Benedetto sei tu YHWH nostro Dio, Re dell’universo, lodato dal suo popolo, cantato dalla lingua dei suoi Chasidim e dai canti di David tuo servo». Il testo del 1° esempio si trova anche nel Siddur (Rituale) de Rab Amram Gaon del sec. IX d.C., segno che i testi recenti possono contenere tradizioni antiche. Per un riferimento più puntuale e per l’approfondimento di questo aspetto cf F. Manss, La prière, 137).
[18] Rashi di Troyes, Commento all’Esodo 320-321, ad Es 33,19. Il Midrash Rosh Hashanàh (Capodanno) 17b dice che Dio si manifestò a Mosè avvolto nel tallìt della preghiera per insegnargli come avrebbe dovuto pregare ogni Israelita orante in futuro e mentre si manifestava proclamava i tredici attributi di Dio elencati in Es 34,6-7: 1. Signore; 2. Eterno; 3. Dio; 4. Pietoso; 5. Misericordioso; 6. Longanime; 7. Ricco di benevolenza; 8. Ricco di verità; 9. Conserva il suo favore per mille generazioni; 10. Perdona il peccato; 11. Perdona la colpa; 12. Perdona la ribellione; 13. Colui che assolve.
[19] Targùm (plur. targumìm) è parola aramaica e significa «traduzione». Dal 539 a.C. dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia, in Palestina l’ebraico cadde in disuso, rimanendo però la «lingua sacra» riservata alla Bibbia nella liturgia ufficiale. Per fare capire al popolo la Parola proclamata accanto al lettore che leggeva in ebraico vi era un «traduttore» in aramaico. Dal sec. I a. C. al sec. II d.C. per non perdere un immenso patrimonio liturgico e culturale, tutto il materiale orale fu raccolto per iscritto.
[20] Secondo la ghematrìa, cioè la scienza dei numeri che applica una regola esegetica ebraica, usata anche dai Padri della Chiesa, ad ogni lettera dell’alfabeto corrisponde un numero: la parola amore in ebraico è ahavàh e nella somma delle consonanti fa 13 come 13 sono gli attributi divini (v. supra nota 12). Il n. 13 è esattamente la metà del Nome Yhwh che ha valore numerico di 26, come 26 è anche il valore di ehad che vuol dire uno. Chi ama porta in sé la metà di Dio e le sue qualifiche e unendosi all’altra metà della persona amata forma una unità sola, come uno è Dio. Questa misteriosa unione mistica avviene nella preghiera che è il «luogo» dove l’amore si fa carne e Dio si rende visibile perché lo Sposo può finalmente «vedere» la voce della Sposa e toccare il «Lògos/Verbo della vita» (1Gv 1,1). L’esperienza di Mosè e il Targum a Ct ci dicono che se vogliamo vedere Gesù dobbiamo uscire dal mondo materialista dove siamo impigliati e di cui forse siamo schiavi, per salire in alto sulla montagna di Dio, dove trovare la fenditura nella rupe da cui ascoltare Dio che chiede di sentire la voce nella nostra preghiera. Ne deduciamo che la prima missione con e per il Risorto, in un mondo distratto e frastornato è la preghiera: non preoccupiamoci tanto di «vedere» Dio, quanto piuttosto di lasciarci vedere da Dio. In un contesto di mondo dove l’efficienza è il moloch della modernità, il testimone diventa l’uomo e la donna che pregano, cioè perdono tempo in una duplice direzione: davanti a Dio e davanti agli uomini e alle donne di oggi. Pregare è perdere tempo per Dio e per l’umanità, esperienza che solo gli innamorati sanno comprendere perché sono gli unici che sanno perdere tempo per amore, con amore e nell’amore.
[21] Per il commento al brano di Es cf Domenica XXIV del tempo ordinario – C.


Giovedì 14 Ottobre,2010 Ore: 16:24
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Il Vangelo della domenica

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info