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www.ildialogo.org Domenica 26a Tempo Ordinario -C- 26 settembre 2010,di Paolo Farinella, prete

Domenica 26a Tempo Ordinario -C- 26 settembre 2010

di Paolo Farinella, prete

La liturgia di oggi, domenica 26a ordinaria-C prosegue il tema profetico di domenica scorsa, riportando testi che sono attualissimi per contenuto e denuncia. La 1a lettura e il salmo sono stati scritti otto secoli a. C., la 2a lettura e il vangelo nel secolo I d. C. L’argomento è di quelli per cui si rischia come minimo l’accusa di «comunisti». Dopo millenni di queste letture bibliche, siamo ancora di fronte allo scandalo di una difesa ad oltranza della civiltà cristiana, nello stesso momento in cui i popoli che la compongono detengono il primato della ricchezza, del lusso e del superfluo, il cui costo pesa esclusivamente sulla massa sterminata di popoli, schiacciati dalla povertà, causata dall’irresponsabile ingordigia dei popoli «cristiani». Il 20% del mondo consuma l’80% delle ricchezze mondiali, mentre l’80% dei popoli che posseggono le materie prime, per le loro condizioni miserevoli non riescono nemmeno a consumare il restante 20%. Nemmeno Dio può fare combaciare questa equazione e infatti nella liturgia di oggi, lo dice a chiare lettere con un linguaggio comprensibile anche agli analfabeti religiosi che non vogliono mai sentire.

Il profeta Amos, il Salmo e il Vangelo sono unanimi: coloro che detengono la ricchezza senza condividerla in modo equo e solidale con l’umanità intera, specialmente se si dichiarano cristiani, non entreranno a fare parte del Regno di Dio. E’ il senso dell’universalismo della fede o, per chi vuole, della società che vuole essere «civile». La Parola di Dio dice che nessun oppressore può fare parte del Regno, per cui la ricchezza che causa la sofferenza e la morte è una discriminante di salvezza o di dannazione. Nella logica del vangelo non bastano alcune «Ave Maria» o «Pater Noster» per riscattare stili di vita che generano genocidi. Non è concepibile che un dirigente di industria guadagna 400 volte di più dei propri operai o i manager di banche e non solo si attribuiscano benefit che un dipendente non guadagnerà mai nemmeno se vivesse 100 vite.
Il capitalismo che vige nei paese a maggioranza «cristiana» genera di questi mostri e semina morte con la benedizione del potere ecclesiastico che ha perso tutta la sua capacità non diciamo profetica, ma anche critica, assoggettandosi all’idolo perverso del «mercato» liberale che è un sistema strutturale speculativo per generare la povertà dei molti come sostegno permanente della ricchezza per pochi. Bisogna convertirsi, cioè cambiare rotta e modo di pensare: un rovesciamento sia a livello di cuore per i singoli, ma anche a livello di struttura per le istituzioni. La Chiesa come istituzione non solo deve essere povera, ma deve anche apparire povera perché la sua forza è riposta nel suo Signore[1]
I cristiani stanno in nel mondo (cf Gv 17,11), ma fanno fatica a non essere del mondo (cf Gv 17,14) perché spesso sono complici se non artefici dell’ingiustizia che regola quella civiltà a cui ci si appella spesso in nome di Dio, della religione e dei suoi simboli: cristiani che manifestano contro gli immigrati e fanno prosperare la schiavitù anche di minori, incrementando la prostituzione; che esprimono sentimenti ignobili di xenofobìa fino a insultare la religione di altri con disprezzo; che pagano la Libia per impedire le migrazioni, sapendo che la maggior parte degli sventurati moriranno nel più totale abbandono e disinteresse, quando non sono abbandonati in mare; costoro non perdono occasione per «difendere il crocifisso» come ornamento dei locali pubblici, ma uccidono senza pietà e senza pentimento Colui che quel simbolo indica: l’uomo e il Dio Gesù Cristo, che vive nei loro assassinati.  
Questa in-civiltà è già stata ripudiata dal Dio del vangelo che non difende i crocifissi-arredo, ma i crocifissi di carne, inchiodati sulla croce della miseria, della fame e della sete. I cristiani non s’indignano più di fronte a questi autentici sacrilegi e non reagiscono nemmeno di fronte al degrado legislativo, anche quando l’abuso privato della Legge è manifesto e palese: al contrario la maggior parte di coloro che sostengono governi immondi e ignobili sono cattolici praticanti che contribuiscono attivamente e palesemente al radicamento dell’illegalità istituzionale da cui traggono benefici per sé e i loro cari.
I cristiani evadono il fisco, dimenticando che la partecipazione fiscale è la forma civile e laica di realizzare l’Agàpe di cui Paolo tesse l’inno (cf 1Cor 13,1-8) come il nome nuovo del Signore Gesù. La contribuzione fiscale è il primo atto di giustizia sociale in un contesto di consapevolezza del «bene comune». Non più la Carità come elemosina occasionale, ma come struttura sociale che si fa carico dei deboli e dei piccoli[2]. No! Noi non possiamo rassegnarci di fronte alla miseria del «Corpo di Cristo» che geme in due terzi del terra. Per noi, per noi cristiani, risuonano oggi le parole di Amos profeta: «cesserà l’orgia dei dissoluti» (Am 6,7).
La descrizione della società del sec. VIII a. C., come abbiamo anticipato domenica scorsa, sembra lo specchio della nostra società contemporanea che ha smarrito il senso della giustizia come diritto di ciascuno ai beni essenziali della vita e cioè cibo, casa, scuola, salute, felicità, acqua, dignità, lavoro, comunicazione, mobilità: spensierati…letti d’avorio…sdraiati sui divani… mangiano, suonano, bevono e passano il tempo a curare il corpo (v. Am 6,6: «si ungono con gli unguenti più raffinati»). Mentre la «civiltà occidentale e cristiana» si coccola nel lusso, la casa di Giuseppe, cioè la vita dei poveri va in rovina (cf Am 6,6 e 5,6).
Non c’è alternativa per il cristiano che vuole seguire Gesù: o si salva insieme agli altri o da solo si danna sicuramente[3]. Lc riecheggia lo stile e l’animo di Amos quando nelle beatitudini della pianura ai quattro «beati» fa corrispondere altrettanti «guai» (cf Lc 6,20-22.24-26) indirizzati ai ricchi e a quanti non pensano che di tutto ciò che esiste nulla di qualcuno, ma tutto è in funzione e per il benessere di tutti i popoli[4].
Il Salmo responsoriale è una litania impressionante perché elenca senza fiato dieci azioni di Dio in difesa del «povero», termine sintetico per indicare ogni forma di marginalità. Il ritmo dei verbi è incalzante come le dieci parole del decalogo (cf Es 20,1-17). Il verbo più forte è il settimo: «protegge i forestieri» (Sal 146/145,9b), che esprime l’idea di Dio scudo protettivo dello straniero che in una terra e in una cultura non sue diventa debole e facile preda del mercato nero o degli schiavisti. In ebraico si usa il verbo «shamàr» lo stesso che si usa nell’espressione «custodire» la Toràh o i comandamenti: è un verbo impegnativo perché esprime l’adesione religiosa all’alleanza. Dio «custodisce il forestiero» come ad Israele è chiesto di «custodire» la Legge.
Nella 2a lettura l’autore invita Timoteo ad essere consapevole della sua funzione di autorità non spadroneggiando sulla comunità, come se fosse una proprietà da gestire, ma attraverso la testimonianza coerente, affinché chiunque lo osservi possa riconoscere che i garanti della sua fede sono Cristo e Dio (1Tm 6,13). L’autorità nella Chiesa, prima di essere esercizio di verità, è servizio di carità (cf Mc 10,40-45). L’autorità nella Chiesa non è proprietaria di essa, ma serva e ministra e quindi l’ascolto precede il comando.
Il vangelo propone la parabola conosciuta come «Il ricco cattivo e il povero Lazzaro» (v. Bibbia-Cei 2008), riportata solo da Lc[5] che la ricevette da una tradizione orale nota solo a lui, ma non da Mc e Mt che la ignorano. Ciò dimostra che Lc, facendo delle ricerche personali come lui stesso garantisce all’inizio del suo vangelo (cf Lc 1,3), disponeva di materiale esclusivo sull’insegnamento e sulla vita di Gesù. La parabola non ha alcun riferimento ad un fatto storico, ma è solo un racconto finalizzato ad un insegnamento.
Tutte le parabole hanno protagonisti anonimi (un uomo, un tale, un pastore, una donna, ecc.), mentre questa è l’unica che riporta il nome: Lazzaro (ebr. Dio aiuta; cfLc 16,20). Manca il nome del ricco, di cui si descrive la degenerazione: è un crapulone, un godereccio[6]. Sullo sfondo si collocano altri protagonisti assenti: i fratelli del ricco che sono ignari della sorte del fratello di cui perpetuano lo stile di vita, vivendo da buontemponi. Nella didascalia prima della lettura vedremo che questa parabola è una trasposizione di un duplice racconto egiziano, mentre nell’omelia approfondiremo i contenuti che l’evangelista vuole evidenziare. Predisponiamoci pertanto all’ascolto, con il cuore e con l’intelligenza. Invochiamo lo Spirito perché di doni un cuore docile ad ascoltare la Parola liberatrice, facendo nostra prima l’antifona d’ingresso: Signore, quanto hai fatto ricadere su di noi, l’hai fatto con retto giudizio; abbiamo peccato e non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti; ma ora da’ gloria al tuo nome, Signore, e fa’ con noi secondo la tua grande misericordia (Dn 3,31.29.30.43.42).
 
Spirito Santo, tu ci liberi da ogni spensieratezza e ci custodisci nella sicurezza di Dio,       Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu semini in noi il senso della responsabilità della salvezza del mondo,         Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci sveli i bisogni e le rovine dell’umanità priva del necessario vitale,        Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la giustizia che il Padre rende agli oppressi e agli affamati,                Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la liberazione dei prigionieri e la visione di chi non vede,                    Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei lo scudo dello straniero e il sostegno dell’orfano e della vedova,        Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu guidi l’apostolo alla giustizia, alla fede, alla carità, alla mitezza,  Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu con la tua forza ci assisti nel combattimento spirituale della fede,            Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci predisponi ad essere irreprensibili per la manifestazione del Signore,   Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu hai sostenuto Lazzaro quando il ricco lo escludeva dalla sua mensa,       Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu hai preso Lazzaro tra le tue braccia per condurlo al cospetto del Padre, Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la consolazione di Lazzaro, tra gli angeli nel seno del Padre, Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, chi non accoglie te non sa riconoscere nemmeno i miracoli di Dio, Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu guidaci alla giustizia del cuore, sacramento di comunione e di vita,          Veni, Sancte Spiritus.
 
La liturgia di oggi esige da noi uno spogliamento non di cose e di beni, ma di una mentalità pagana che diventa facilmente criterio di valutazione perverso sullo stampo di quello che domina il mondo e gestisce l’ingiustizia fino al punto da considerare come «inevitabile» la condizione di povertà che schiaccia due terzi dell’umanità. E’ la mentalità del «possesso» che conduce all’accumulo oltre un limite di decenza. Si arriva anche al punto di giustificare moralmente l’evasione delle tasse, nello stesso momento in cui si decurtano o si cancellano servizi essenziali per la tenuta sociale di una comunità civile. Nello stesso tempo come può chiedere servizi sociali chi e impegni allo Stato chi coscientemente evade la propria responsabilità contributiva? Convertiamoci e crediamo al vangelo (cf Mc 1,15). Dio ci ha creati tutti uguali, le differenze vengono dal peccato e gli uomini li trasformano in titoli di proprietà che invece sono solo usurpazione perché sulla terra siamo tutti, nessuno escluso, usufruttuari. Nel mondo vi sono ricchi e poveri non per volontà di Dio come affermava Pio X, citando Leone XIII, ma è colpa del peccato di avarizia[7]«Dio-di-comunione»:. I cristiani hanno l’obbligo di eliminare questa differenza sulla terra perché se c’è un solo Dio Padre/Madre non possono che esistere solo fratelli e sorelle. Invochiamo l’unico Dio si rivela
 

(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.

 
Quando ci presentiamo davanti a Dio, dobbiamo verificare la verità della nostra coscienza per vedere se la nostra volontà di celebrare il rito sia espressione sincera della nostra vita, altrimenti i riti e le liturgie diventano un ulteriore atto di accusa e motivo in più di condanna. Nessuno può dire di amare Dio che non vede, se non lo prova con la disponibilità ad amarlo nei poveri, negli esclusi, nei senza voce con i quali il Cristo si è identificato (cf Mt 25,31-46). L’esame di coscienza non è una formalità o un rituale: è un tempo congruo di silenzio, in cui scendiamo nel profondo della nostra coscienza, l’unico posto dove possiamo ascoltare Dio che parla al nostro cuore. E’ lì che noi siamo noi stessi e Dio ci prende in parola. Lasciamoci esaminare la coscienza dalla verità dello Spirito.
 
Signore, tu Dio povero che dà speranza ai poveri, perdona la nostra indifferenza, Kyrie, elèison!
Cristo, ci chiami al tuo Regno di giustizia e fraternità, perdona la nostra ignavia,             Christe, elèison!
Signore, hai donato la tua vita in dono gratuito, insegnaci a spezzarci con i poveri,            Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente che hai fatto la scelta preferenziale dei poveri, imponendo ai tuoi discepoli la misura della condivisione senza riserve, per i meriti di Gesù che spende tutta la sua vita per sanare, curare, difendere e proteggere i poveri da soprusi dei ricchi, ci perdoni da nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.             [breve pausa 1-2-3]
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta): O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Mensa della Parola
Prima lettura Am 6,1a.4-7. Il secolo VIII a. C. è un secolo di gradi trasformazioni perché la congiuntura economica, causata dalle guerre ha prodotto una tragedia sociale: i ricchi ne hanno approfittato, mentre i poveri, come sempre ne pagano le conseguenze sia economiche che sociali. Il re Geroboamo II (786-746ca. a.C.,13° re d’Israele) non è in grado di fare fronte all’instabilità del paese. Amos che è originario del deserto in forza della sua vocazione profetica denuncia il lusso immorale dei benestanti che non si curano della fame del popolo. Per questa denuncia il profeta sarà espulso dal regno del nord che ha sede in Samarìa (Palestina centrale) Un ricco non può essere religioso perché la sua ricchezza che normalmente nasce da sistemi immorali, è un impedimento al rapporto con Dio, perché è difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli (cf Mt 19,23), se non condivide i suoi beni con i poveri che ha frodato.
 
Dal libro del profeta Amos 6,1a.4-7
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 146/145, 7; 8-9a; 9bc-10. Gli ultimi cinque salmi del Salterio (146/145-150) formano quello che viene chiamato il «Terzo Hallèl – Terza Lode» e viene recitato al mattino[8]. In esso si elencano 10 azioni di Dio in difesa dei poveri. Con 10 Parole Dio ha creato il mondo (Gen 1), con 10 generazioni di patriarchi Dio ha scelto il suo popolo, con 10 Parole ha fatto alleanza con Israele (Es 20,1-17), con 10 gesti ora salva gli esclusi da ogni sopruso. L’Eucaristia è per noi il Monte Sinai da cui scende «la Parola» per eccellenza che è il Lògos. Da 10 parole alla «Parola» unica: Dio si è accorciato per rendersi accessibile alla nostra capacità di comprendere[9]. Non abbiamo più bisogno di tante parole, perché ora la stessa «Parola» di Dio si fa carne per essere il cibo che nutre per la liberazione da ogni forma di schiavitù. Noi partecipiamo alla mensa della Parola e riceviamo il ministero del vangelo annunciato ai poveri (Lc 4, 18; 7,22) che sono la vera «passione» di Dio. Nell’Eucaristia sperimentiamo che «quello che era in principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1) è il Signore Gesù, «il Pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51).
 
Rit.Loda il Signore, anima mia.

1. 6Il Signore rimane fedele per sempre
7rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri. Rit.
il Signore ama i giusti,
9il Signore protegge i forestieri. Rit.
3. Egli sostiene l’orfano e la vedova
ma sconvolge le vie dei malvagi.
2. 8 Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
Il Signore regna per sempre,
10 il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione. Rit.

Seconda lettura 1Tm 6,11-16. Le comunità di Paolo pullulavano di falsi dottori e «falsi fratelli» (cf 1 Tm 4,1-3; 6,3-5; Gal 2,4) che insidiavano il suo insegnamento, accusandolo di eresia nei confronti della tradizione giudaica. L’autore della lettera nel brano di oggi descrive le caratteristiche del pastore ideale. Egli deve fuggire la mondanità e perseguire la fede la cui custodia comporta un combattimento che si realizza nella coerenza e nella fedeltà, non contro i nemici della fede davanti ai quali bisogna rendere testimonianza a Cristo come lui l’ha data davanti a Pilato (v. 13). Il nostro combattimento è spirituale perché tende alla pienezza della vita nello Spirito, in forza del battesimo che alimentiamo con la Parola e il Pane dell’Eucaristia, la sorgente della nostra fedeltà e della nostra fede.
 
Dalla prima lettera di Paolo apostolo a Timoteo  6,11-16
11 Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. 12 Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. 13 Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, 14 ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, 15 che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, 16 il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen. - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 16, 19-31. Il vangelo di oggi riprende il tema della 1a lettura. La parabola è esclusiva di Luca, tramandata da una tradizione conosciuta solo da lui. Questa fonte aveva un riguardo particolare per i temi della ricchezza e della povertà che sono due temi specifici del 3° vangelo (cf Lc 6,30-35; 16,12-14; 19,1-9; At 5,1-11, ecc.). La parabola è divisa in due parti. La 1a parte (vv. 19-26) in origine era ispirata ad un racconto egiziano importato da ebrei di Alessandria, in cui si raccontava della sorte differente di un pubblicano ricco (forse di nome Bar Mayàn) e di uno scriba povero, anonimo. Nella trasposizione evangelica, è l’unica parabola che riporta il nome di uno dei protagonisti: Lazzaro che vuol dire «Dio è il mio aiuto» (v. 20). La 2a parte (vv. 27-31) cambia personaggi perché Lazzaro diventa secondario, mentre l’attenzione è riservata alla sorte dei cinque fratelli del ricco. In questa seconda parte il tema principale è il giudizio dopo la morte che realizza la giustizia ebraica della pena del contrappasso: il ricco che banchettava tutti i giorni, soffre, mentre il povero che soffriva è beato. L’Eucaristia è la scuola dove impariamo le proporzioni della giustizia alla scuola di Gesù che non esita a diventare povero pur di condividere la sua vita con ciascuno di noi (cf Fil 2,1-8).
 
Canto al Vangelo 2Cor 8,9 - Alleluia. Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, / perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca 16, 19-31
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: 19«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; 26ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. 27E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”». -Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Oggi riflettiamo prevalentemente sulla parabola evangelica, che, come abbiamo già anticipato, è propria di Lc e sconosciuta agli altri evangelisti, sia sinottici (Mt e Mc) che Gv. Abbiamo già visto nella didascalia di presentazione, e non ci ripetiamo, che la parabola detta del «ricco cattivo e del povero Lazzaro» è una ripresa di un racconto egiziano[10]«rovesciatore» delle situazioni: «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52-53)[11]., adattato alla teoria giudaica della retribuzione, detta anche del contrappasso. Questa teoria si basa sul rovesciamento delle situazioni al di qua e al di là della morte. E’ un capovolgimento radicale: chi fu ricco diventa povero, chi fu povero diventa ricco, chi godeva soffre e chi soffriva gode. Lc descrive in questa parabola, quello che annuncia con il Magnificat di Maria la donna di Nàzaret che prende atto di Dio il
Di questa teoria «teologica», molto vivace al tempo di Gesù, il vangelo è pieno. Basti pensare alle beatitudini, specialmente nella versione di Lc (6,20-26) dove la contrapposizione addirittura sociologica tra ricchezza e povertà diventa una discriminante per l’accesso al regno di Dio. A quattro «beati» corrispondono simmetricamente quattro «guai», scanditi dall’avverbio «ora» a sottolineare la contemporaneità quasi speculare del rovesciamento certo che vi sarà: «Beati voi, che ora avete fame … che ora piangete … guai a voi che ora siete sazi, guai a voi che ora ridete …» (Lc 6,21.25). Allo stesso modo, il ricco stolto sogna granai e benessere, mentre morirà la stessa notte (cf Lc 12,16-21).
Per scampare a questa tagliola, non c’è che un solo modo: vivere la vita prima della morte fondata sulla giustizia che non significa solo fare una perequazione di beni materiali, ma assumere una prospettiva di vita: è giusto colui che non si appropria di ciò che non è e non ha, ma condivide se stesso e ciò di cui dispone con tutti coloro con cui vive. Tutto ciò che esiste, infatti, è dono da condividere affinché nessuno sia nel bisogno, ma tutti abbiano il necessario. Nessuno di noi è «tutto», ma ciascuno di noi, nessuno escluso, è «parte» di un tutto. Il giusto non dirà mai «questo è mio», perché egli sa che solo Dio è Creatore e tutte le cose di cui dispone sono solo e sempre in comodato gratuito fino alla morte. Il concetto di proprietà privata è un monstrum da un punto di vista etico e religioso con buona pace di Pio X (v. sopra nota 7) e ciò è tanto vero che ancora oggi in Israele nessuno è proprietario della terra che è una e indivisibile perché è «’erez Israel – terra di d’Israele» in quanto terra di Dio sulla quale si abita provvisoriamente (cf Gs 1,2-4; cf Dt 11,24-25). Nessuno in Israele può essere proprietario della «proprietà di Dio».
Qui sta anche il fondamento del rispetto della terra e del suo equilibrio sistemico: gli uomini stanno distruggendo la terra, sottraendone la disponibilità ai posteri e questo non è lecito perché alla fine vincerà la terra e distruggerà e se non vincerà la terra, travolgerà nella sua dissoluzione tutto ciò che essa contiene. Quando l’umanità dimentica di essere solo «custode» e non proprietaria della terra (cf Gen 2,15), assume atteggiamenti dittatoriali e non si rende conto che sfruttare la terra significa suicidarsi. La chiave di volta per fare un capovolgimento di mentalità è in un concetto semplice che è anche una condanna: il concetto di proprietà privata che come è concepito e vissuto dalla nostra «civiltà» è un’aberrazione.
La proprietà privata, su cui si basa il capitalismo, a sua volta causa e fonte di genocidi di massa, non è un assoluto, non è un diritto naturale perché essa nasce da un furto ancestrale. In origine Dio ha creato la terra e l’ha consegnato alla custodia di Àdam ed Eva, cioè all’umanità intera nel suo complesso, senza preferenze di civiltà. A questa universalità si è opposta subito la bramosia dei proto genitori che non vollero condividere il «giardino» con Dio, ma lo pretesero tutto per sé (cf Gewn 2,16-17; 3,6-8). Fu il primo «mio» pronunciato dall’uomo e ne derivò la rovina a cascata di generazione in generazione, fino ai violenti che con le armi in pugno imposero: «da qui a qua è tutto mio» ponendo così le fondamenta delle guerre che poggiano la loro ragione sul furto, spostando confini per allargare sempre più i propri e restringendo quelli degli altri (cf Dt 19,14 27,17 e Gb 24,2).
Gli uomini sono patetici: vivono quattro giorni appena e ne passano cinque a litigare tra ciò che è «mio» e ciò che è «tuo», ma che dovrebbe essere sempre «mio». La proprietà privata è l’appropriazione di un bene comune con la forza e la violenza imposta dal più forte al più debole. Questa è l’origine storica dei regni, dei principati, dei marchesati, ecc. La dottrina sociale della Chiesa nel difendere la «proprietà privata» deve fare alcuni giri strani, per giungere sempre alla supremazia su di essa del primigenio interesse comune: l’universale precede sempre il particolare[12].
E’ singolare che il brano evangelico di oggi non dica nulla sulla condizione morale dei due protagonisti. L’evangelista non dice che Lazzaro è «buono» e il ricco è «cattivo»; non dice che il ricco si trova all’inferno per inadempienze religiose, anzi, probabilmente era uno uomo pio molto praticante e quale shock deve avere subito nello scoprirsi all’inferno, proprio lui che aveva fatto del tempio la sua seconda casa con una pratica religiosa ineccepibile nella forma e nella ritualità. La prospettiva è nei fatti: il ricco è condannato perché si considera «solo ed esclusivo» proprietario della terra, senza tenere conto del suo «prossimo» che «stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco  (Lc 16, 20-21). E’ l’ingordigia che condanna il ricco:  «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» (Lc 16, 19). Uno moriva di fame, l’altro s’ingozzava e non si accorgeva di ciò che accadeva «alla porta». Domenica scorsa parlando dell’amministratore infedele abbiamo detto che «uomo ricco»  è
 
«espressione che in Lc ricorre solo tre volte e sempre in senso negativo: l’uomo ricco che non sa dove mettere il grano, ma lo stolto muore nella notte (cf Lc 12,16-21, qui 16); il padrone dell’amministratore infedele della parabola (cf Lc 16,1) e il ricco che rifiuta di aiutare il povero Lazzaro e finisce all’inferno (cf Lc 16,19-31, qui 1). Da questa connotazione rileviamo che essere “uomo ricco” per se stessi è negativo» (v. Domenica 25a tempo ordinario, omelia).
 
Gesù non fa un discorso morale: non dice per es. che la ricchezza è cattiva o che la povertà è buona. Afferma un principio antropologico e religioso contemporaneamente: la ricchezza incontrollata impedisce di vedere la realtà che circonda. Molti ricchi non sanno nemmeno perché finiscono all’inferno perché impegnati come sono a «fare soldi», non si rendono conto della miseria che li circonda e che essi alimentano come la regina di Francia Maria Antonietta che al popolo affamato di pane, consigliava di. mangiare brioches[13]. Non è per ciò che facciamo di male che siamo condannati, ma per ciò che non siamo più capaci di vedere e scorgere:
 
«“Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”… “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?” … tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me” (Mt 25,43.44.45).
 
 Se credere è vedere la realtà con gli occhi di Dio, non credere ed essere dannati non può essere altro che essere ciechi: venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno saputo riconoscere (cf Gv 1,11).
La parabola risente del clima sociale dei cristiani di 1a e 2a generazione che erano prevalentemente poveri e in costante tensione con il mondo dei ricchi come si evince da alcune pagine significative di Atti[14]«Via» (termine con cui i primi cristiani indicavano Cristianesimo: cf At 19,9.23; 22,4). I poveri per natura e per condizione, a differenza dei ricchi,  sono più liberi perché meno ingombranti e più pronti a tagli radicali perché più legati alla provvisorietà delle condizioni di vita. . L’insegnamento è semplice: i ricchi sono così legati al loro orizzonte immediato, fatto di cose e denaro che non sono in grado di scegliere radicalmente la prospettiva della
Lo stesso Signore aveva messo in guardia della pericolosità della ricchezza, dopo l’incontro con il ricco molto religioso, al quale mancava una cosa sola: vendere i suoi beni distribuirli ai poveri e poi seguire Gesù. Di fronte alla reazione del ricco che se ne va «assai triste perché era molto ricco», Gesù commenta: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. E’ più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio» (Lc 18,18-30, qui vv. 23 e 24-25). Lc ammonisce i ricchi che non possono essere nello stesso tempo credenti senza mettere in discussione la loro condizione: o condividono i beni o sono tagliati fuori.
La parabola del ricco cattivo ed egoista è così un esempio illustrativo di ciò che significa essere cristiani: è una scelta che coinvolge tutta la vita e ogni aspetto di essa: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza [ ebr. me’od = con tutti i tuoi beni materiali] e con tutta la tua mente» (Lc 10,27). Nella logica di Lc, come abbiamo visto domenica scorsa nella parabola dell’amministratore scaltro (cf Lc 16,8-13), la ricchezza deve essere condivisa soprattutto con i poveri, altrimenti si è «figli di questo mondo». Lc ammonisce i cristiani benestanti ad evitare l’immoralità della cupidigia, ma di seguire l’esempio di Gesù che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso» (Fil 2,6-7). E’ arduo per chiunque legge Lc trovare una scusante per i ricchi.
La parabola contrappone due condizioni: «un uomo ricco» e «un mendicante»; il ricco, che come abbiamo detto in Lc è sempre una connotazione negativa,  è anonimo, mentre il povero ha un nome: la ricchezza darà prestigio agli occhi del «mondo», ma toglie il «nome», cioè la propria identità, la personalità a differenza della povertà che invece non avendo nulla da difendere espone ed esprime la personalità e l’identità. Il ricco « indossava vestiti di porpora e di lino finissimo», mentre l’altro «giaceva alla sua porta»; il ricco  «ogni giorno(da notare la sottile ironia di Lc!) si dava a lauti banchetti», mentre Lazzaro era «stava alla sua porta, coperto di piaghe» (Lc 16, 19-20). Secondo la logica corrente e la religione di prassi del tempo la ricchezza doveva essere il segno della benedizione protettiva di Dio, mentre la povertà doveva essere il sigillo della maledizione di Dio in sconto di qualche peccato proprio del povero o dei suoi antenati. Gesù semplicemente fa piazza pulita di questo modo di pensare e agisce di conseguenza mettendo affermando la centralità della persona indipendentemente dalla condizione o dello stato in cui si trova[15].
La comunità di Qumran, contemporanea di Gesù, riporta un elenco di persone escluse dal tempio e dal banchetto escatologico, tra i quali rientra Lazzaro:
 
«Nessuno contaminato da qualche impurità dell’uomo entri nell’assemblea di questi [cioè dei sacerdoti; chiunque sia contaminato da esse non sia confermato nella sua funzione all’inerno della Congregazione. Chiunque è contaminato nella carne, paralizzato nei piedi o nelle mani, storpio, cieco, sordo, muto, o contaminato nella carne per via di una macchia visibile ad occhio nudo o l’anziano barcollante che non può stare in piedi in assemblea, costoro non prenderanno parte all’interno della Congregazione degli uomini rinomati»[16].
 
Gesù capovolge le regole religiose e di purità vigenti per affermare il valore assoluto della persona degli esclusi che anzi dichiara «beati». Ciò nel contesto del suo tempo, equivaleva ad una rivoluzione radicale di mentalità, strutture, usi e culto; la purità o l’appartenenza al gruppo sociale non dipende dalla circostanze della vita, ma unicamente dall’attitudine del cuore che regola il rapporto con Dio e di conseguenza con i propri simili.
La 2a parte della parabola è più protesa verso una visione escatologica e così corregge ciò che nella 1a parte poteva essere letto solo in chiave sociologica. Ora non si tratta più di ricco e di povero, ma della fede che insegna a leggere i segni di Dio nella storia e della cupidigia che impedisce di vedere anche l’ovvio. Per i ricchi la morte è semplicemente la conclusione della vita, dell’unica vita che hanno sperperato e abusato, ma quando si accorgono che la vita non si esaurisce con la morte, corrono ai ripari e pensano di evitare la loro sorte ai propri congiunti. Alla richiesta  del ricco di inviare ai propri fratelli un messaggio straordinario, come l’apparizione di un morto, Dio afferma che non servono i miracoli a buon prezzo perché i miracoli che ciascuno di noi ha a disposizione sono due: l’intelligenza per capire gli eventi e la Parola di Dio come criterio di discernimento. Nemmeno la morte li potrebbe scuotere se non sanno leggere né gli eventi, né la Parola di Dio.
Oggi si sente ancora dire che se Dio facesse un miracolo impressionante gli uomini si convertirebbero. Il vangelo odierno ci insegna invece il contrario: nessun miracolo ha mai convertito qualcuno, se lo Spirito Santo non ha già predisposto alla fede e l’interessato non sia disponibile al cambiamento. Chiedere miracoli è tentare Dio (cf Lc 4,12). Dopo l’intervento di Gesù nella nostra Storia, non abbiamo bisogno di null’altro, né di miracoli, né di apparizioni, né di Madonne che inviano segreti più o meno occulti, né di Santi che annunciano sempre guai e disastri.Nella Bibbia c’è tutto ciò che è necessario per essere figli di Dio che camminano insieme altri uomini, donne e popoli per la costruzione del Regno di Dio che in terra ha il suo inizio e alla fine della storia il suo esito.
Chiedere segni come mezzo per convincersi è una forma di paganesimo infantile e di non volontà di conversione: la fede non è roba da circo per divertirsi in qualche annoiato sabato sera. Il cristiano non ha bisogno di altro che di due pilastri: la vita e la Parola che sono gli scrigni dove Dio ha deposto i suoi comandamenti.  La Parola diventa vita in un solo modo: condividendo con gli altri chi si è e ciò che si ha, perché solo se riconosciamo che tutti, nessuno escluso, siamo figli di un solo Dio, il Padre del Signore Gesù è anche Padre «nostro».
 
Professione di fede. Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. [breve pausa 1-2-3]
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.                 [breve pausa 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti.     [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale[intenzioni libere]
MENSA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
 
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.              Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiera sulle offerte. Accogli, Padre misericordioso, i nostri doni, e da quest’offerta della tua Chiesa fa’ scaturire per noi la sorgente di ogni benedizione. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA V/c «Gesù modello di Amore» -Prefazio proprio
Il Signore sia con voi.    E con il tuo spirito.  In alto i nostri cuori.      Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. È cosa buona e giusta.
 
E veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore. In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli.
Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto nel nome del Signore colui che viene. Kyrie, elèison! Christe, elèison!
 
Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli. Per questi segni della tua benevolenza noi ti lodiamo e ti benediciamo, e uniti agli angeli e ai santi cantiamo l’inno della tua gloria:
Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli e pace in terra a gli uomini che egli ama.
 
Ti glorifichiamo, Padre santo: tu ci sostieni sempre nel nostro cammino soprattutto in quest’ora in cui il Cristo, tuo Figlio, ci raduna per la santa cena. Egli, come ai discepoli di Emmaus, ci svela il senso delle Scritture e spezza il pane per noi.
       Ti preghiamo, Padre onnipotente, manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue.
Tu , o Signore sostieni i poveri di Yhwh, innalzi gli umili e abbatti i superbi (cf Sal 146/145,6; Lc 1,52-53).
 
La vigilia della sua passione, mentre cenava con loro, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
 
Allo stesso modo, prese il calice del vino e rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
 
Fate questo in memoria di me.
 
Mistero della fede.
Tu ci hai redenti con la tua croce, salvaci o Redentore del mondo, Alfa ed Omèga, Principio e Fine (Ap 2,16).
 
Celebrando il memoriale della nostra riconciliazione annunziamo, o Padre, l’opera del tuo amore. Con la passione e la croce hai fatto entrare nella gloria della risurrezione il Cristo, tuo Figlio, e lo hai chiamato alla tua destra, re immortale dei secoli e Signore dell’universo.
O Dio di misericordia hai inviato Lazzaro alla porta del ricco perché questi imparasse la carità come giustizia che testimonia il Regno.
 
Guarda, Padre santo, questa offerta: è Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio ci apre il cammino verso di te. Dio, Padre di misericordia, donaci lo Spirito dell’amore, lo Spirito del tuo Figlio.
Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.
 
Fortifica il tuo popolo con il pane della vita e il calice della salvezza; rendici perfetti nella fede e nell’amore in comunione con il nostro Papa …, il Vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare….NN… e l’umanità intera sparsa su tutta la terra.
 
Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli; infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi: fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,3-5).
 
La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo.
 
Ricordati anche dei nostri fratelli che sono morti nella pace del tuo Cristo, e di tutti i defunti dei quali tu solo hai conosciuto la fede:… N.N. … ammettili a godere la luce del tuo volto e la pienezza di vita nella risurrezione; concedi anche a noi, al termine di questo pellegrinaggio, di giungere alla dimora eterna, dove tu ci attendi.
 
In comunione con la beata Vergine Maria, con gli Apostoli e i martiri, e tutti i santi innalziamo a te la nostra lode nel Cristo, tuo Figlio e nostro Signore.
 
PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO, A TE, DIO PADRE ONNIPOTENTE, NELL’UNITÀ DELLO SPIRITO SANTO, OGNI ONORE E GLORIA PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI. AMEN.
 
Padre nostro in aramaico: idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

 
Antifona alla comunione (1Gv 3,16): «In questo abbiamo conosciuto l’amore [di Dio], nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli».
 


Dopo la comunione
Preghiera attribuita a San Benedetto (480-547), che si trova nella cattedrale di Westmister suggerita dalla nostra amica, Margherita Maltagliati di Milano.
 

O Padre, santo e amabile
O Gracious and Holy Father
Donaci la Sapienza per intuirti,
give us Wisdom to perceive You,
la perseveranza per cercarti,
Diligence to seek You,
la pazienza per aspettarti,
Patience to wait for You,
donaci occhi per  guardarti,
Eyes to behold You,
un cuore per essere assorti/immersi in te,
A Heart to meditate on You,
e una vita per celebrarti,
and a life to proclaime You;
attraverso la forza dello Spirito
Through the power of the Spirit
di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
of Jesus Christ our Lord. Amen.

 
Da Paolo VI, Udienza generale di mercoledì 24 giugno 1970
«Il Concilio ci ha richiamato, ancor più che alla virtù personale della povertà, alla ricerca e alla pratica d’un’altra povertà, quella ecclesiale, quella che dev’essere praticata dalla Chiesa in quanto tale, come collettività riunita nel nome di Cristo. Vi è in una pagina del Concilio una parola grande a questo proposito; la citiamo anche tra le molte altre, che incontriamo su questo tema nei documenti conciliari; essa dice: «Lo spirito di povertà e di amore è infatti la gloria e la testimonianza della Chiesa di Cristo» (Gaudium et spes, 88). Essa è una parola luminosa e vigorosa, che esce da una coscienza ecclesiale in pieno risveglio, avida di verità e di autenticità, e desiderosa di affrancarsi da costumanze storiche, che ora si dimostrassero difformi dal suo genio evangelico e dalla sua missione apostolica. Un esame critico, storico e morale, s’impone per dare alla Chiesa il suo volto genuino e moderno, in cui la presente generazione desidera riconoscere quello di Cristo. Chi ha parlato a questo proposito si è particolarmente soffermato sopra questa funzione della povertà ecclesiale, quella cioè di documentare la giusta visibilità della Chiesa (Cfr. CONGAR, Pour une Eglise servante et pauvre, Les éditions du Cerf, Paris, 1963 p. 107). Così parlò specialmente il Card. Lercaro, alla fine della prima sessione del Concilio (6 dicembre 1962), insistendo su l’«aspetto», che la Chiesa oggi deve mostrare, agli uomini del nostro tempo in modo particolare, l’aspetto col quale si è rivelato il mistero di Cristo: l’aspetto morale della povertà, e l’aspetto sociologico della sua estrazione preferenziale fra i Poveri. Tutti vediamo quale forza riformatrice abbia l’esaltazione di questo principio: la Chiesa dev’essere povera; non solo; la Chiesa deve apparire povera. Noi notiamo con vigile attenzione come… si avverta nella opinione pubblica, dentro e fuori della Chiesa, il desiderio, quasi il bisogno, di vedere la povertà del Vangelo e la si voglia ravvisare maggiormente là dove il Vangelo è predicato, è rappresentato; diciamo pure: nella Chiesa ufficiale, nella nostra stessa Sede Apostolica… La necessità dei «mezzi» economici e materiali, con le conseguenze ch’essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei «fini», a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell’impiego, la spiritualità del significato. E alla scuola del divino Maestro ricorderemo tutti di amare simultaneamente la povertà ed i Poveri; la prima per farne austera norma di vita cristiana, i secondi per farne oggetto di particolare interesse, siano essi persone, classi, nazioni bisognose di amore e di aiuto. Anche di questo ci ha parlato il Concilio. Abbiamo cercato e cercheremo di ascoltarne la voce. Ma il discorso su la Chiesa dei Poveri dovrà continuare…».
 
Preghiamo. Questo sacramento di vita eterna ci rinnovi, o Padre, nell’anima e nel corpo, perché, comunicando al memoriale della passione del tuo Figlio, diventiamo eredi con lui nella gloria. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore rifugio dei poveri, degli orfani e delle vedove, ci doni la sua benedizione.                      Amen.
Il Signore custode della santità del giorno di domenica, ci consoli con la sua Pace.
Il Signore che fa sorgere il sole per tutti gli uomini, ci colmi della sua tenerezza.
Signore che ci manda nel mondo a riconoscerlo nei poveri, ci protegga e ci sorregga.
Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci.
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.
Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolarci.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                Amen.
 
La messa è conclusa come celebrazione: inizia la Messa della testimonianza della vita.
Andiamo incontro al Signore nella storia. 
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
 
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© Nota: Domenica 26a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Genova, Paolo Farinella, prete 26/09/2010 – San Torpete – Genova
 


[1] Cf Paolo VI, Discorso all’udienza generale di mercoledì 24 giugno 1970 che riportiamo in appendice. La società odierna e, in essa, la «struttura chiesa» sono sotto il giogo di «mammona iniquitatis» che è il nome nuovo del dio del consumo e del frivolo. Tutto è immagine e apparenza: vanità senza verità che uccide la solidarietà come tessuto connettivo dello stare insieme. I cristiani detengono una grave responsabilità a riguardo perché gli stili di vita ecclesiastico-clericali non appaiono poveri e molto spesso non lo sono anche. Una contraddizione visibile: un mondo scintillante di lustrini, pizzi e merletti che inneggia e osanna al Crocifisso nudo che dichiarò: «Beati i poveri nello spirito» (Mt 5,3). Quando si vedono papi e cardinali che vestono «abiti di lusso» e «vestiti di porpora e di lino finissimo» (Lc 7,24; 16,19), scarpette rosse firmate, polsini d’oro e camicie con doppio polso da somigliare più a manichini di plastica che a ministri del Dio Crocifisso, viene spontaneo pensare che essi non credono in Dio, ma solo nella loro vanità: per questo «hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,2.5.16).
[2] «Non pochi non si vergognano di evadere, con vari sotterfugi e frodi, le giuste imposte o le altre cose che debbono alla società» (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 30). Leggiamo nel Catechismo della Chiesa cattolica: «La partecipazione di tutti all'attuazione del bene comune implica, come ogni dovere etico, una conversione incessantemente rinnovata delle parti sociali. La frode e altri sotterfugi mediante i quali alcuni si sottraggono alle imposizioni della legge e alle prescrizioni del dovere sociale, vanno condannati con fermezza, perché incompatibili con le esigenze della giustizia. Ci si deve occupare del progresso delle istituzioni che servono a migliorare le condizioni di vita degli uomini» (CCC 1916). «La sottomissione all’autorità e la corresponsabilità nel bene comune comportano l'esigenza morale del versamento delle imposte, dell'esercizio del diritto di voto, della difesa del paese: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto, il rispetto” (Rm 13,7)» (CCC 2240). «Sono pure moralmente illeciti: la speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima dei beni, in vista di trarne un vantaggio a danno di altri; la corruzione, con la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto; l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa; i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di fatture, le spese eccessive, lo sperpero» (CCC 2409).
[3] «Ho imparato che il problema degli altri è uguali al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze [s.d.], 14).
[4] E’ un dato incontrovertibile: la ricchezza mondiale è ammassata quasi esclusivamente in quell’occidente che chiama alle armi il cristianesimo come argine ai poveri che chiedono di partecipare alla mensa imbandita dove anche i cani e i gatti sono privilegiati. I Paesi cristiani insieme al Giappone detengono il primato dello sperpero o quello che Amos chiama «l’orgia dei dissoluti» (Am 6,7): i costi di questa ingiustizia strutturale la pagano ogni giorno i Paesi poveri, i popoli in guerra, i bimbi, le donne, gli indifesi, vittime di una civiltà incivile che ingrassa tanto da essere sulla via della disintegrazione. Anche coloro che si appellano al Messale di Pio V contro la riforma liturgica di Paolo VI interpretano il Cristianesimo come nemico delle altre religioni e specialmente dell’Islam: costoro, che vedono nelle crociate un segno di Dio a favore dell’occidente, vogliono risuscitare lo spirito di Lèpanto con i cristiani materialmente armati contro i poveri del sud del mondo che per essi sono i nuovi barbari. Il «loro dio» è un dio territoriale e culturale: è solo il Dio dei cristiani. Gli altri possono essere accolti solo a condizione che si convertano alla loro religione. Non essendo capaci di respirare l’universalità di Cristo, hanno accorciato Dio stesso a misura della loro grettezza.
[5] Quando una parola, una frase, un brano, una parabola, ecc. è riportata solo una volta si dice tecnicamente che è un «hàpax legòmenon» che alla lettera significa «una volta soltanto detto ».
[6] Solo un’altra volta, in tutto il vangelo viene riportato il nome di un protagonista, non in una parabola, ma nel contesto di un miracolo: Bartimèo che significa «figlio di Timèo» (Mc 10,46). Le uniche due volte che il vangelo riporta i nomi di personaggi protagonisti, ricorda nomi di poveri, oppure quello di peccatori e scomunicati (Levi in Lc 5,27; Zaccheo in Lc 19,2). Non si contano i nomi storici come Augusto, Pilato, Erode, ecc.
[7] «La Società umana, quale Dio l’ha stabilita, è composta di elementi ineguali, come ineguali sono i membri del corpo umano: renderli tutti eguali è impossibile, e ne verrebbe la distruzione della medesima Società (Encycl. Quod Apostolici muneris). La eguaglianza dei vari membri sociali è solo in ciò che tutti gli uomini traggono origine da Dio Creatore; sono stati redenti da Gesù Cristo, e devono alla norma esatta dei loro meriti e demeriti essere da Dio giudicati, e premiati o puniti (Encycl. Quod Apostolici muneris). Di qui viene che, nella umana Società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano principi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo di amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine in Cielo; e qui, sulla terra, il loro benessere materiale e morale (Encycl. Quod Apostolici muneris). L'uomo ha sui beni della terra non solo il semplice uso, come i bruti; ma sì ancora il diritto di proprietà stabile: né soltanto proprietà di quelle cose, che si consumano usandole; ma eziandio di quelle cui l’uso non consuma (Encycl. Rerum Novarum). È diritto ineccepibile di natura la proprietà privata, frutto di lavoro o d'industria, ovvero di altrui cessione o donazione; e ciascuno può ragionevolmente disporne come a lui pare (Encycl. Rerum Novarum)» (Pio X, motu proprio, Fin dalla prima, 18 dicembre 1903, I, II, III, IV e V).
 
[8] Sugli altri due «Hallèl» cf Dom. 25a Tempo Ordinario-C, nota 4.
[9] San Francesco di Assisi, riferendosi al Natale, cioè all’incarnazione del Lògos, parla di «Verbum abbreviatum», ossia di Dio che si accorcia. «In principio» (Gen 1,1) Dio ha parlato con la creazione, pronunciando dieci parole, ora tutta la creazione si accorcia in una Parola/Lògos/Verbum, in un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno di noi e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione (Regola Bollata (1223), IX,2 in Fonti Francescane, Movimento Francescano, Assisi 1977 [2a rist. 1978] n. 98).
[10] Fitzmyer J. A., The Gospel According to Luke [AncB 28, 28A; New York, Doubleday, 1970, 1985] 1126-1127.
[11] Anche Dante nella Divina Commedia ricorre spesso a questa pena. La figura più famosa forse è quella di Bertran de Born (1140 ca. – prima del 1215), importante poeta trovatore a cui Dante stesso s’ispira, che mise contro Enrico III d’Inghilterra e suo padre Enrico II: per avere separato persone così intime fu condannato a viaggiare nell’inferno con la testa staccata e portata e guisa di lanterna: «Perch’io parti’ [= divisi/separai] così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo troncone. /Così s’osserva in me lo contrapasso» (Inf. XXVIII, 139-142).
[12] Commentando il 7° comandamento «Non rubare», il Catechismo della Chiesa Cattolica (= CCC) così commenta: «Il settimo comandamento proibisce di prendere o di tenere ingiustamente i beni del prossimo e di arrecare danno al prossimo nei suoi beni in qualsiasi modo. Esso prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano. Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo» (CCC2401). Poi passa a mettere in relazione «la destinazione universale e la proprietà privata dei beni» e così prosegue: «All’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Tuttavia la terra è suddivisa tra gli uomini, perché sia garantita la sicurezza della loro vita, esposta alla precarietà e minacciata dalla violenza. L’appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini (CCC2402). Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo, non elimina l’originaria donazione della terra all’insieme dell’umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio» (CCC 2403).
[13] Famoso il detto tragico e disumano «Se non hanno pane, che mangino brioche!» (S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche), attribuito erroneamente alla regina di Francia Maria Antonietta che l’avrebbe pronunciato di fronte alla notizia che il popolo di Parigi era affamato. E’ probabile che la frase non sia stata mai pronunciata, anche se se ne ha una testimonianza in Jean Jacques Russeau che nel libro IV delle sue Confessioni riporta un aneddoto, forse utilizzato dai nemici della regina, di spregiativamente definita «l’Austriaca» per renderla ancora più odiosa agli occhi dei parigini. Narra Russeau che nel 1741 era ospite di Madame de Mably e di nascosto era solito bere dell’ottimo vino dell’Arbois. Egli però si vergognava di entrare in una panetteria perché essendo nobiluomo lo considerava degradante. Scrive: «Allora ricordai il suggerimento di una grande principessa quando le venne detto che i contadini non avevano più pane: fategli mangiare brioches, disse. Perciò mi comprai una brioche». Maria Antonietta è nata nel 1755 e quindi non può essere lei la principessa di Rousseau (cf Evelyne Lever, Maria Antonietta, l'ultima regina, Rizzoli, Milano 2001, 422-423).
[14] Barnaba vende un campo e ne dà il ricavato agli apostoli per i poveri (cf At 4,36-37), al contrario la coppia Anania e Zaffira che non vogliono perdere la faccia, ma neanche il patrimonio, cercano d’ingannare gli apostoli, tenendo parte del patrimonio per sé, svelando così la loro malvagità che li distruggerà (At 5,1-16). V. anche la Lettera di Giacomo dove si mette a rapporto l’atteggiamento di fronte al ricco e di fronte al povero anche nelle assemblee eucaristiche (cf Gc 2,2-4) e l’invettiva riservata ai ricchi (cf Gc 5,1-6).
[15] In Italia, il governo Berlusconi, che si vanta ogni giorno di seguire i dettami della «dottrina della Chiesa cattolica», nel 2009 ha varato una legge (n. 94 del 15 luglio 2009) che definisce «reato» lo stato di clandestinità» di una persona: un immigrato commette reato per il semplice fatto di essere un disperato alla ricerca di una vita migliore o perché fugge dalla guerra e dalla fame o perché è un perseguitato politico. Questa legge è stata approvata da una maggioranza, formata in gran parte da parlamentari che si spendono per la difesa del «crocifisso nelle scuole» e nei luoghi pubblici e discettano con veemenza sull’«occidente cristiano» e sulle »radici cristiane dell’Europa». Questi indefessi crociati non esitano a definirsi cattolici (?) praticanti e anche impegnati in organizzazioni religiose del calibro di Comunione e Liberazione e Opus Dei. Non è inusuale che questi sedicenti cattolici sproloquiano sempre di «centralità della persona», senza accorgersi della contraddizione grave in cui vivono: uomini e donne senza onore e dignità usano la religione come supporto per il loro potere, disposti ad allearsi con il diavolo pur di conservarlo. Per fortuna, come avrebbe dovuto essere ovvio anche ad uno studente del primo anno di giurisprudenza, la Corte costituzionale (sentenza 249/2010), ha affermato che la clandestinità non può essere un’aggravante discriminatoria perché vìola l'articolo 3 della Costituzione «che non tollera irragionevoli diversità di trattamento», con buona pace dei cattolici che la domenica «vanno a Messa», il sabato scacciano gli immigrati e il venerdì difendono il «crocifisso». Di fronte a questo scempio di diritto, di diritti, di umanità e vangelo, si è evidenziato il silenzio della gerarchia ecclesiastica che per mantenere ottimi rapporti col governo, ha rinnegato i principi stessi su cui poggia e che dovrebbe diffondere e difendere.
[16] 1QSa II,5-22, qui 3-8 = (1QRegola della Congregazione [1Q28a]), testo in F. G. Martínez, a cura di, I testi di Qumran, Paideia, Brescia 1996, 238,


Mercoledì 22 Settembre,2010 Ore: 16:41
 
 
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