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www.ildialogo.org Domenica 24a Tempo Ordinario -C- 12 settembre 2010-,di Paolo Farinella, prete

Domenica 24a Tempo Ordinario -C- 12 settembre 2010-

di Paolo Farinella, prete

La Liturgia di questa 24a domenica del tempo ordinario-C è semplice nel messaggio, ma proprio per questo ricca di materiale per la nostra riflessione settimanale. La 1a lettura, il salmo, la 2a lettura e il vangelo sono concordi e unanimi: la natura di Dio è il perdono. Si potrebbe dire con una frase ad effetto: se Dio è Dio, non può che perdonare, oppure perdonare è il mestiere proprio di Dio. Prima di Gesù Cristo non se ne aveva coscienza profonda, ma sprazzi; con Gesù Cristo questa evidenza è diventata esplicita.  Le letture infatti ci parlano della natura di Dio e della sua identità: come si riconosce il Dio della Bibbia? Quante volte noi diciamo: se Dio ci fosse! Perché Dio non si fa vedere? Se desse un segno della sua presenza, gli uomini crederebbero, e via di questo passo. Siamo ciechi e non vediamo ciò che è semplice ed evidente: Dio è presente nel perdono come nel tormento perché Dio è il Perdono e spesso anche il Tormento[1]. Ogni volta che una persona compie un gesto o dice una parola di perdono, manifesta Dio in modo eminente e sovrabbondante.
 
Nota semantica. Etimologicamente «perdonare» è formato da un prefisso «per-» che esprime pienezza e abbondanza e dal verbo «donare». Il verbo composto pertanto significa «donare completamente/del tutto, donare in sommo grado/in abbondanza». In altre parole «perdonare» è il verbo «donare» al superlativo[2]. San Tommaso, rifacendosi ad alcuni testi del NT (Ef 4,32; 2Cor 2,10) afferma che nel perdono Dio esercita un potere superiore a quello della creazione perché il dono per eccellenza è il perdono (S. Th., II-II,113,9, sc.).
 
Nella 1a lettura assistiamo a qualcosa di sconvolgente: dopo l’adulterio idolatrico del vitello d’oro, Dio rinnega il suo popolo. Il testo descrive vi è una schermaglia tra Dio e Mosè, tra Mosè e Dio, fatta di sottigliezze psicologiche straordinarie (cf Es 32,7 e 11-12). Israele non è più il popolo di Dio, ma il popolo di Mose: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che [tu][3] dal paese d’Egitto, si è pervertito hai fatto uscire» (Es 32,7). Dio solletica l’orgoglio di Mosè e gli propone una carriera personale di riguardo e senza paragoni, invitandolo a lasciar perdere Israele e a ricominciare daccapo con un nuovo popolo, da qualche altra parte: « Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10).
Mosè non sta al gioco di seduzione di Dio perché è un profeta vero che ha sposato il disegno di Dio, ma anche la condizione del suo popolo. Per essere fedele a Dio, se è necessario, deve opporsi anche a lui. Qui sta la grandezza suprema del profeta: per difendere il popolo che Dio gli ha affidato, non solo si oppone, ma contesta anche Dio. Al contrario di Mosè, suo fratello, il sacerdote Aronne, si lasciò convincere dal popolo a costruire un indolo, un vitello di oro (cf Es 32,5-6), corrompendo così la fede del popolo e diventando complice della sua apostasìa: «Mosè vide che il popolo non aveva più freno, perché Aronne gli aveva tolto ogni freno, così da farne oggetto di derisione per i loro avversari» (Es 32,25). La storia lo evidenzia: il sacerdote è funzionario che si adegua al vento e alla corrente pur di mantenere il suo potere sulla comunità, al contrario del profeta che non avendo carriere da difendere,  è radicale e non conosce compromesso.
Mosè sa e sceglie di essere strabico per fede: con un occhio guarda a Dio e con l’altro al popolo a cui Dio stesso lo ha mandato come suo servo (cf Es 3,10-16). Egli è preso tra due fuochi contrastanti, ma deve restare fedele ad entrambi: non può tradire il suo Dio e non può tradire il suo popolo. Non può scegliere tra l’uno e l’altro perché è obbligato dalla sua coscienza e dal suo ministero ad inglobare e perseguire l’obbedienza a Dio e la fedeltà coerente al popolo. Il profeta è senza via di scampo perché è un ferro incandescente tra l’incudine del popolo e il martello di Dio; prende sempre botte dall’una e dall’altra parte. E’ colpito dal popolo che non comprende le ragioni del servo di Dio e della sua austerità, arrivando fino ad accusarlo delle sue sventure, rinfacciandogli anche la libertà ricevuta che diventa un’accusa: il popolo avrebbe preferito la schiavitù per un pezzo di carne bollita. Quanto si dice che sono gli ideali a riempire la vita![4] Nello stesso tempo è percosso da Dio perché il Dio di Mosè è esigente con il suo popolo come un innamorato esclusivo[5]; eppure questa doppia persecuzione è necessaria al profeta perché solo così può diventare la spada affilata a doppio taglio per lasciare sempre il segno della sua personalità di servo, una spada che non è mai innocua o indolore: né per il popolo né per Dio (cf Eb 4,12).
Di fronte ad un Dio che solletica il suo profeta ad iniziare una altra storia con altri esiti, Mosè ribalta l’adulazione e riesce a mettere Dio con le spalle al muro: «Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che [tu] hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente?» (Es 32,11). E’ straordinaria la rettitudine di Mosè che ricorda a Dio il suo impegno di fedeltà prima di tutto a se stesso senza calcolare alcun suo interesse. Il profeta è uno scudo di difesa per il popolo davanti a Dio e una garanzia di Dio davanti al popolo[6].
Mosè restituisce il popolo al suo Dio rifiutando di fare carriera sull’annientamento del popolo di Dio e per riuscire nel suo intento, sollecita a sua volta l’orgoglio di Dio. Dio è «condannato» a salvare il suo popolo perché se lo distruggesse, perderebbe la faccia presso gli Egiziani che penseranno ad un suo inganno: con un trucco li ha fatti uscire dall’Egitto per distruggerli. Mosè è sottile o se vuole anche subdolo: Pensa, o Dio, alla tua reputazione, davanti al mondo![7]Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso» (Es 32,13), in forza dei quali «esige» da Dio la coerenza nella verità della sua parola senza smuoversi di un millimetro dal compito ricevuto[8]Dio è sconfitto nel suo progetto di distruzione e ritorna ad essere: «Il Signore… Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6), il Dio dei volti e dei nomi (Abramo, Isacco, Giacobbe), non una divinità astratta impalpabile.. . Mosè non demorde e assesta un colpo di grazia a Dio, richiamandolo alla sua fedeltà e al giuramento solennemente fatto ai Patriarchi di Israele: «
Nella 2a lettura, Paolo assume il ruolo di apostolo, corrispettivo di quello del profeta, e insegna che nessuno di noi può parlare di Dio e testimoniarlo, se prima non lo ha sperimentato. Sul piano della fede questa è la condizione: possiamo parlare solo di ciò che abbiamo vissuto, altrimenti il Dio di cui parliamo è una teoria, un codice, una norma etica, un pensiero filosofico. Sperimentare significa «incontrare»: se non testimoniamo il Dio che incontriamo nella nostra vita, noi parliamo di un’immagine vuota di Dio, cioè annunciamo un idolo, una nostra proiezione. Non basta essere prete o laico o monaco o suora o vescovo o papa per «incontrare» Dio: si può essere prete, praticante, monaco e suora di grande ascesi, vescovo e papa ed essere pagani, atei religiosi, perché si può essere religiosi senza Cristo. Per incontrarlo bisogna convivere con lui, essere assidui al colloquio con lui, conoscerlo profondamente e fidarsi ciecamente[9].
Il vangelo riporta tutto il capitolo 15 di Lc[10]«il vangelo del vangelo», il Sancta Sanctorum del vangelo perché ne costituisce il vertice e la sintesi[11]«perdonati e perdonanti». Invochiamo il Nome santo di Dio con la forza dello Spirito del Risorto, entrando in questo abisso con le parole dell’antifona di ingresso (Sir 36,17-18): «Rendi testimonianza alle creature che sono tue fin dal principio, risveglia le profezie fatte nel tuo nome. Ricompensa coloro che perseverano in te, i tuoi profeti siano trovati degni di fede. Ascolta, Signore, la preghiera dei tuoi servi». per cui, anche se tutto il vangelo andasse smarrito, ma si conservasse solo Lc 15, nulla andrebbe perduto. Allo stesso tempo è il vangelo della gioia, ma anche dell’attesa, dell’offesa, del perdono totale e senza limiti e dell’amore a perdere. E’ il vangelo del recupero e delle grettezza, del tradimento e della misericordia al superlativo. Le due parabole (pastore/donna e Padre con i due figli) di cui compone il capitolo descrivono la natura di Dio nella sua totalità, rappresentato da un uomo e da una donna e infine da un Padre con due figli entrambi ribelli. Entrare in questo abisso di amore senza confini significa semplicemente vivere da credenti che potrebbe essere definito come
 
Spirito Santo, tu hai guidato Mosè sul Monte Sinai ad ascoltare il lamento di Yhwh,            Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai messo alla prova la fedeltà di Mosè al popolo del suo Dio,                  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai sorretto Mosè che resiste a Dio che decide di abbandonare Israele,      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai suggerito a Mosè le parole che hanno fatto pentire Yhwh,                    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai richiamato a Mosè il merito di Abramo, Isacco e Giacobbe,     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu lavi le colpe e rimetti la pena secondo la grande misericordia di Dio,         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu crei in noi un cuore puro e rinnovi una salda coscienza,                 Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu non ci privi della tua santa presenza e non ci respingi mai,                         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu susciti in noi sentimenti contriti come sacrificio gradito a Dio,                   Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu rendi degni coloro che chiami alla fede e all’annuncio del Vangelo,          Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu doni a noi sempre la coscienza di essere salvati e redenti per amore,        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci doni il perdono di Dio perché possiamo perdonare a nostra volta,          Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il perdono del Padre e del Figlio che ci rigenera a vita nuova,  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai guidato i passi del pastore alla ricerca della pecora smarrita,     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai assistito la donna nel condividere la gioia per la moneta ritrovata,        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu eri accanto al padre quando divise la sua vita tra i suoi due figli,    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu seguisti in silenzio il figlio giovane in cammino verso la dissoluzione,       Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai ispirato il desiderio del ritorno del figlio alla casa del padre,     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai mosso il padre a correre verso il figlio ancora lontano,                         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai guidato i passi del padre verso il figlio maggiore rimasto fuori,            Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la gioia che c’è in cielo per un peccatore che si converte e vive,           Veni, Sancte Spiritus!
 
Gli uomini sono più tranquilli con una religione del castigo perché possono contrattare con un Dio simile a loro, mettendo così in pratica il culto del mercato: Dio sospende il castigo dovuto in cambio di un sacrificio, una consacrazione (tempo, spazio, offerte, ecc.). Un Dio severo è funzionale alla cattiveria dell’uomo perché la giustifica e la rafforza. Il Dio svelato da Gesù di Nàzaret si pone sul versante opposto che crea scandalo e ripulsa in una umanità vendicativa:
«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).
Egli sconvolge le rappresentazioni umane perché dice espressamente di essere venuto per i peccatori, per gli esclusi, per i senza speranza: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17; cf Lc 5,31 e Mt 9,12). Anzi, è capace di lasciare al sicuro novantanove pecore e di rischiare tutto per salvarne una (cf Lc 15,4-7). Un Dio così non ha nulla a che fare con la religione della contrattualità. Credere nel Dio di Gesù è facile: basta abituarsi a sapere ricevere gratuitamente e a lasciarsi perdonare senza condizioni. Immergiamoci in questo mistero di misericordia che è l’Eucaristia e abbandoniamoci all’amore della santa Trinità:
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
Non abbiamo bisogno di parole e non dobbiamo nemmeno essere ossessionati dalle nostre colpe, perché sappiamo che vogliamo amare il Signore con le due tendenze del cuore, quella al bene e quella al male. Oggi stiamo davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio e ci lasciamo avvolgere dalla sua infinita misericordia. Facciamo nostra l’invocazione del peccatore al tempio: «Signore, abbi pietà di me peccatore» e poi lasciamo che sia l’amore di Dio a fare il resto. 
 
Signore, tu vai in cerca anche di una sola pecorella smarrita, aiutaci a lasciarci trovare,       Kyrie, elèison!
Cristo, tu sei venuto a cercare peccatori e malati, non giusti e sani, facci ritornare a te,        Christe, elèison!
Signore, tu fai in cielo più festa per un peccatore pentito che per novantanove giusti,        Pnèuma, elèison!
Dio che è onnipotente quando perdona e salva, quando redime e ama per i meriti di tutti i peccatori e le peccatrici della storia pentiti, per i meriti di tutti i senza speranza salvati dalla benevolenza di Cristo, per i meriti di Gesù e degli apostoli, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI…
e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. [breve pausa 1-2-3]
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non abbandonasti il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte. Egli è Dio, e vive e regna nell’unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Mensa della Parola
Prima lettura Es 32,7-11.13-14
Il brano della 1a lettura riporta una intervista tra Dio e Mosè dopo l’incidente del vitello d’oro (cf Es 32,1-5). Dio rinnega il popolo, ma il profeta si oppone a Dio schierandosi dalla parte del popolo peccatore, restituendolo al perdono di Dio(v. 11). Mosè inchioda Yhwh alla sua promessa e fedeltà: «Ricordati di Abramo, Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso» (v. 13). Nello stesso tempo Mosè si staglia contro il popolo davanti al quale difende la dignità di Dio. Questo testo definisce la natura di Dio e le regole della preghiera. Dio non può non essere se stesso, cioè fedele e salvatore. Mosè centra la sua preghiera non sul peccato del popolo che non scusa, ma su Dio stesso. Quando preghiamo facciamo tutto tranne che pregare: chiediamo sempre, invochiamo perdono, domandiamo grazie, cioè siamo centrati sui nostri bisogni e ci avvitiamo su noi stessi, lontani da Dio, pieni sempre di noi. Mosè c’insegna che la preghiera o è «teocentrica» o non è: egli non si cura del danno o dei bisogni, ma si butta nel cuore di Dio e ne svela il mistero di fedeltà in forza del merito dei padri e riesce a piegare Dio che finisce per sposare il pensiero e il cuore del suo servo Mosè.
 
Dal libro dell’Esodo 32,7-14
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che [tu] hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. 10 Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». 11 Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che [tu] hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? [il v seguente non è compreso nella liturgia] 12 Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. 13 Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre”». 14 Il Signore si pentì del male che aveva minacciato al suo popolo. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 51/50, 3-4; 12-13; 17.19.Il salmo 51/50 è una splendida descrizione dell’agire «giusto» di Dio. Davide sa di toccare le corde del cuore di Dio: Pietà di me, o Dio, nel tuo amore (ebr. hesed – amore di tenerezza, grazia), nella tua grande misericordia (ebr. rachamìm da rèchen – utero). Il termine hèsed indica la tenerezza, l’affettuosità, la graziosità, descrive cioè i comportamenti tra innamorati, le effusioni amorose. Il termine rachamìm invece ha a che vedere con il parto, perché la radice da cui deriva (rèchem) significa utero/grembo: il perdono di Dio o dato in nome di Dio ri-genera alla vita. Per rendere esplicito il testo ebraico, il v. 3 potrebbe essere così tradotto: «Rendimi la tua grazia, o Signore, Dio di tenerezza che mi generi da sempre e ripartoriscimi per sempre con amore viscerale di madre». Lo stesso termine «grembo/utero» lo ritroviamo nel vangelo di oggi, nella parabola del Padre misericordioso e dei due figli ribelli (Lc 15, 20).
Rit. Donaci, Padre, la gioia del perdono.
 


1. 3 Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
4 Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro. Rit.
2. 12 Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
13 Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. Rit.
3. 17 Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
19 Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore contrito e affranto,
tu, o Dio, non disprezzi. Rit


 
Seconda lettura 1Tm 1,12-17. Vi è grande discussione tra gli studiosi sull’attribuzione a Paolo delle lettere a Timoteo e a Tito. Vi sono argomenti per l’una e l’altra ipotesi, ma la più accredita non le attribuisce all’apostolo, ma alla sua scuola. Il brano di oggi è autobiografico: Paolo riflette sull’esperienza che ha sconvolto la sua vita. Egli era un legalista, un fariseo fondamentalista, convinto che il suo senso di giustizia  di Dio dovesse coincidere esattamente con il suo. Per questo è arrivato a perseguitare e ad uccidere in nome di Dio. Poi Dio stesso lo disarcionò dalla sua presunzione e lo fece servo dei perseguitati. Nel brano di oggi, l’autore proclama di essere stato un peccatore salvato dalla gratuità di Dio, pur non essendone degno (v. 16) e per questo ora viaggia ad annunciare la grazia che salva anche senza merito. Nessuno può predicare il Vangelo se non ne ha una esperienza diretta e personale perché noi possiamo predicare e testimoniare solo il Dio che abbiamo sperimentato.
 
Dalla prima lettera di Paolo apostolo a Timoteo 1,12-17
12 Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.15 Questa  parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. 16 Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto in me  , per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.17 Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 15,1-32 (lett. breve 15,1-10)
Lungo il viaggio verso Gerusalemme, Lc inserisce due parabole, rappresentative di tutta l’umanità: un uomo e una donna; un padre e due figli. La prima parabola ha due versanti: è narrata prima al maschile (il pastore) e poi al femminile (la donna in casa). I due pannelli hanno lo stesso schema, le stesse parole, gli stessi atteggiamenti: è lo Lc stesso a dirci che si tratta di una sola parabola (v. 3), illustrata con due esempi nei quali emergono due atteggiamenti: il «recupero» della pecora smarrita e della moneta perduta (vv. 4.8) e la grande gioia condivisa per questo recupero (vv. 4-7. 9-10). Nella seconda parabola, comunemente detta «parabola del figliol prodigo», domina la figura del padre che si staglia di fronte alla pochezza e alla grettezza dei figli, i quali danno forma ad altri due affreschi opposti e simili: tutti e due sono accomunati dal rifiuto del padre. Anche in questa parabola troviamo i due atteggiamenti della prima: il recupero dei figli che il padre cerca a costo della sua stessa vita e la gioia condivisa per averne salvato almeno uno perché del maggiore non sappiamo come è finito. Le due parabole non hanno un senso morale, ma descrivono la natura di Dio che sulla croce si è condannato a salvare uomini e donne col dono della sua stessa vita. Noi oggi ne facciamo l’esperienza nell’Eucaristia.
 
Canto al Vangelo Cf 1Gv 4,16; 3,20
Alleluia. Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi: / qualunque cosa il nostro cuore ci rimprovera, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca 15,1-32 (lett. breve 15,1-10)
In quel tempo,1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «“Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: 4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.
 
[11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”»]. - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
La liturgia odierna è abissale perché ci sprofonda nel mistero del vangelo che svela il volto divino di Dio nel «perdono». Solo nel dono declinato al superlativo, possiamo sperimentare il volto umano del Dio di Gesù Cristo. E’ qui il cuore del vangelo, l’essenza della rivelazione, il Nome proprio di Dio. Dio è Perdono. La liturgia porta all’attenzione del nostro cuore testi così densi che non basterebbe un anno intero per esaurirli, eppure noi oggi ne dobbiamo assaporare almeno un assaggio. Poiché la 1a lettura, il salmo e il vangelo sono strettamente legati, diremo una parola per ciascuno, una parola appena balbettata.
 
Esodo 32
Come abbiamo già anticipato nell’introduzione generale e nella didascalia, la 1a lettura è tratta da Es 32 e riporta un colloquio drammatico tra Dio e Mosè chiamato a rapporto dopo l’idolatria del vitello d’oro. L’idolatria è paragonata ad un adulterio e per questo Dio consegna a Mosè il libello del ripudio che Mosè deve consegnare al popolo (cf Dt 24,1-3): Dio ha deciso di annientare Israele e di salvare solo Mosè con cui ricominciare daccapo una nuova avventura con un popolo più docile. Se Mosè fosse stato un opportunista o un carrierista, se fosse stato un pretuccio o un vescovetto o un cardinale di occasione, non avrebbe esitato a ricercare il suo successo e a perseguire la propria gloria, salvandosi da solo[12]lui: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18) e per questa ardente passione di «vedere Dio», egli è in grado di opporsi a Dio stesso, di stanarlo dal dèmone della distruzione e di piegarlo al suo mestiere di Dio: perdonare, perdonare sempre, perdonare comunque perché Dio non può non essere se stesso e perché in lui la giustizia si coniuga nel perdono. Sì, Dio è giusto, ma solo perché perdona. . Mosè però è un profeta che vive e spasima quello che annuncia, che crede, che prega. Egli arde del desiderio di vedere la gloria di Dio, cioè il volto suo e quindi l’intimità con
In Es 32,7 nelle parole di Dio, Israele cessa di essere il popolo di Dio per diventare solo il popolo di un uomo: «questo tuo [di Mosè] popolo che tu [Mosè] hai fatto uscire dall’Egitto». Con Israele, Dio rinnega anche la storia e gli eventi dell’esodo che non è più l’irruzione di Dio nel buio dell’oppressione, ma è soltanto una fatica di Mosè. In Es 32,10 la «cattiveria» di Dio raggiunge il vertice inaudito perché si serve di una struttura psicologica subdola per adescare il profeta: «[Mosè], ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Dio accarezza la vanagloria del suo servo, ne solletica l’orgoglio per averlo alleato suo contro il popolo. Se Mosè fosse stato debole, egoista e interessato al suo successo e ai suoi interessi, la storia della salvezza avrebbe preso un altro passo, non sappiamo quale. Sappiamo che Mosè si sdegna contro Dio e resta ancorato al suo popolo, nonostante Dio.
Mosè che ha dedicato la sua vita a Dio, non si lascia incantare e proprio per essere fedele a Dio, resta fermo nella sua identità di uomo e figlio del suo popolo. Mosè ribalta gli stessi argomenti  usati da Dio con lui contro Dio stesso e non accetta di stravolgere la storia e di diventare complice dell’abbandono del popolo. Egli, infatti, ribatte: «Questo tuo [di Dio] popolo che tu [Dio] hai fatto uscire dall’Egitto» (Es 32,11). Mosè è servo di Dio e non si appropria di privilegi che non ha e ribatte a Dio: il popolo non è «mio», ma «tuo» e tale resta anche nel peccato perché nessuno può rinunciare alla paternità/maternità. Anche quando i figli rinnegano il padre e la madre, questi non possono rinunciare alla loro paternità/maternità. I figli possono uccidere i genitori, ma i genitori possono solo generare i figli e morire per loro (cf 2Cor 12,14). Messo in chiaro che per quanto riguarda il «popolo» non si fanno confusioni, Mosè tocca le corde psicologiche dell’amor proprio di Dio e ne solletica lui stesso l’orgoglio. In sostanza Mosè dice a Dio: stai attento a quello che fai perché perderesti la faccia davanti agli Egiziani di fronte ai quali ha sbandierato di essere più grande e potente dei loro dèi e l’hai anche dimostrato portandoci fino qui. Essi direbbero che sei un Dio malvagio che inganna i suoi stessi figli: li ha portati nel deserto e li ha lasciati morire. Bella propaganda ti fai. Chi potrebbe fidarsi più di un Dio che tradisce la parola data?
Tutto ciò però è secondario perché è solo funzionale a Es 32,13 che è il vero cuore del brano di oggi e di tutta la storia della salvezza: «Ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe ai quali hai giurato per te stesso». E’ il colpo di grazia che Mosè profeta assesta a Dio e lo fa capitolare perché il profeta nel momento in cui sta davanti a Dio lo obbliga a restare inchiodato alla fedeltà di se stesso, così come quando sta davanti al popolo lo inchioda alla sua coscienza e alla sua responsabilità. La risposta di Mosè è ben congegnata perché si fonda non su ragionamento, ma sulla storia, sui nomi e sulla parola di Dio[13]: «Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre”» (Es 32,13).
«Ricordati!» non è solo la ripresa del passato, ma l’attuazione della memoria che mentre si sperimenta si proietta sul futuro[14] Dio non può smentire se stesso e non può venire meno alla sua promessa, qualunque sia la condizione del popolo: «Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile!» (Rm 11,1). Nessun peccato, nessuna ribellione, nessuna apostasia del popolo può indurre Dio a rinnegare la sua alleanza. Se il popolo può abbandonare Dio, Dio non può mai abbandonare il suo popolo, perché la giustizia in Dio è solo e soltanto amore e misericordia.. Il memoriale che unisce passato e presente è la ricostruzione della storia come è senza argomentazioni e senza scappatoie. Di chi si deve ricordare Dio? Di null’altro che dei volti e dei nomi delle persone con cui è stato in intimità: i Patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe non sono argomenti, sono affetto, amore, dolcezza, sofferenza, promessa, speranza, dolore, separazione: sono la carne e il sangue di Dio come di Mosè, come del popolo. Nessuno può abdicare da sé, nemmeno Dio.
Questo testo definisce la natura di Dio e le regole della preghiera. La preghiera di Mosè è centrata non sul peccato del popolo, ma sulla natura di Dio: «hai giurato per te stesso». E’ una preghiera teocentrica, per questo Dio deve ascoltarla e deve sottomettersi ad essa. Mosè non intercede per il popolo, ma guarda il cuore di Dio e pregandolo gli dice solo: tu sei Dio e non puoi essere altro[15]«strabico»: ha sempre un occhio rivolto a Dio, ma l’altro è rivolto al suo popolo che non abbandona nemmeno davanti a Dio, nemmeno su richiesta di Dio. Pregare è costringere Dio ad essere fedele a se stesso: una fedeltà che si chiama solo perdono.. Quando preghiamo noi chiediamo sempre, invochiamo perdono, cioè mettiamo noi e i nostri bisogni al centro della nostra preghiera per cui compiamo ancora un atto di egoismo supplementare. Mosè invece si butta nel cuore di Dio e si abbandona all’impossibilità di Dio di non essere se stesso; si immedesima, svelandola, nella costante benignità, nella sua pazienza attenta e nella sua fedeltà senza fine. Mosè pregando Dio ne sposa la mente e il cuore e può farlo perché da autentico profeta è costituzionalmente
 
Il Salmo 51/50
Il salmo è una splendida descrizione dell’agire giusto di Dio, le cui corde del cuore Davide sa di toccare «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore (hesed); nella tua grande misericordia (rachamìm da rèchen utero)» (Sal 51/50,3). Il termine hesed indica la tenerezza, l’affettuosità, la graziosità; essa descrive cioè i comportamenti tra innamorati, le effusioni amorose. Il termine rachamìm, invece, ha a che vedere con il parto, perché la radice da cui deriva (rèchem) significa utero e grembo. Per rendere esplicito il testo ebraico, potremmo tradurre così il v. 3: Rendimi la tua grazia, o Signore, Dio di tenerezza che mi generi da sempre e partoriscimi di nuovo per sempre con amore viscerale di madre. Lo stesso termine «grembo/utero» lo ritroviamo nel vangelo di oggi, nella parabola del Padre misericordioso e dei due figli ribelli (cf Lc 15,20) a cui rimandiamo per l’approfondimento.
 
Vangelo (Lc 15, 1-32).
Gesù è sempre in viaggio verso la sua mèta, Gerusalemme, la città dell’ora di Dio e della sua gloria che si manifesterà compiutamente sulla croce, nella morte e nella risurrezione. Egli va verso la pienezza della sua vocazione che è la morte donata. Gesù porta alle estreme conseguenze l’operato e la spiritualità di Mosè: s’immerge nella volontà di Dio fino a contrapporre la sua stessa vita in cambio di quella del popolo. Gesù è il perdono fatto carne, il perdono che rende giustizia, la tenerezza che si spande sul mondo, un fuoco d’amore che come una colata di lava scende dal Gòlgota sull’umanità riarsa dalla sete di Dio[16].
 
Premessa
Il cap. 15 di Lc è titolato in vari modi: le tre [sic!] parabole della misericordia, vangelo della gioia, ecc. La 2a parabola, presa in sé, invece è conosciuta come parabola del Padre misericordioso, dei figli ribelli, ma il titolo più universalmente noto, ma anche semplificatore è parabola del figliol prodigo che però a nostro avviso è titolo parziale e imperfetto, ma che resterà ancora per molto il titolo popolare. Noi preferiamo un titolo nuovo che centri il senso dell’intero capitolo e metta in evidenza il messaggio rivoluzionario del testo: «Il padre che fu madre» (v. sotto, nota 16).
Comunemente i commentatori parlano di tre parabole: 1) il pastore che ritrova la pecora smarrita; 2) la donna che ritrova la moneta perduta; 3) il padre che ritrova il figlio/i figli perduti; segno che pochi leggono con attenzione il testo nella lingua originale che invece parla espressamente di due parabole. Dopo l’ambientazione di Lc15,1-2 che sono fondamentali per comprendere il senso dell’intero capitolo, si parla solo di due parabole. Infatti Lc 15,3 annota: «Allora egli disse loro questa parabola» (al singolare) e subito dopo descrive i due quadretti del pastore e della donna che possono essere considerati come una narrazione «doppia» della stessa parabola: stessa struttura, stesse parole, stessi atteggiamenti e stessi sentimenti (v. più sotto schema e commento). La pecora smarrita e ritrovata dal pastore-Dio, la moneta perduta e ritrovata dalla donna-Dio dicono la stessa cosa dal versante sia maschile che femminile. E’ una parabola detta per gli uomini e per le donne (Lc è molto attento all’altra «metà del cielo») e per questo Dio è simboleggiato da un uomo e da una donna, perché Dio è Padre e Madre dell’umanità e quindi di ciascuno di noi e non si dà pace finché non ci ha ritrovati. In un tempo in cui la donna era esclusa anche dalla vita religiosa pubblica, la versione femminile del volto di Dio è un bel passo avanti.
La 2aparabola narra di un padre e di due figli ed è introdotta in Lc 15,11 da una nota narrativa: «Disse ancora» che stacca la 1a parabola «doppia» dalla seconda che a sua volta si compone di due quadri: quello che dipinge il figlio minore e l’altro che raffigura il figlio maggiore. In mezzo si staglia la figura gigantesca del padre che è il perno dei due e tra i due. I due figli lo hanno già abbandonato da tempo, ognuno per proprio tornaconto. Spesso nei commenti si sorvola sulla figura del figlio maggiore che sembra il più fedele, mentre invece è il più gretto e il più pericoloso a fronte del minore che essendo più giovane ha tutte le caratteristiche del rivoluzionario ardimentoso che vuole sistemare il mondo per andare incontro alla vita come se andasse in guerra contro tutti.
Il capitolo 15 di Lc è una proposta, ovvero la descrizione di una vocazione: con le due parabole del pastore (più la donna: cf Lc 15,4-10;) e del padre che salva il figlio minore (più il figlio maggiore: cf Lc 15,11-32), Gesù «chiama» i suoi uditori ad imitare il comportamento di Dio e a farne il fondamento del proprio. Tutto il vangelo di Lc ruota attorno all’idea del discepolo che segue il Maestro. Se Mc parla ai catecumeni che per la prima volta incontrano Gesù, Mt ai catechisti che educano alla fede e Gv ai contemplativi della «Gloria», Lc scrive il suo vangelo come una catechesi per i discepoli, coloro che dal catecumenato sono passati alla scelta di testimoni del Risorto. Non c’è fede senza imitazione. «Nessuno ha visto Dio» (1Gv 4,12), ma ognuno di noi può renderlo visibile vivendone il comportamento negli atteggiamenti e nello stile del cuore e della vita. Matteo ci aveva prospettato la perfezione di Dio come orizzonte del vivere cristiano e Dio non è una qualsiasi mèta morale o ascetica, ma è la sua stessa natura che è sorgente e roccia della vita di chi crede: «Siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
 


Un Midrash di Geremia?
Per trasmettere questo messaggio Lc struttura il cap. 15 del vangelo come un commento al capitolo 31 di Geremia, profeta vissuto nel sec. VII a.C. e noto per la sua delicatezza d’animo e per essere stato la figura che ha ispirato in parte la vicenda del Servo di Yhwh descritta da Isaia (cf Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Gesù non rompe con la tradizione biblica, ma la riporta alla sua genuina interpretazione[17]. Lc 15 ha solo un parziale parallelo in Mt che riporta solo la parabola del pastore che va in cerca della pecora smarrita (Mt 18,12-24). La parabola della donna con la dramma e quella del padre con i due figli sono esclusivi di Lc, ma non sono «invenzione» lucana, perché l’evangelista s’inserisce nella più ampia strategia della alleanza nuova, preannunciata da Geremia 31 a cui Gesù ha dato un disegno e una prospettiva definitivi: la «misericordia» come cifra del Regno di Dio che Cristo inaugura, rivelando il volto del Padre (Gv 1,18). Lc 15 è dunque un «misdrash» di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio[18].
Le due parabole sono introdotte da due versetti che costituiscono l’orizzonte di tutto il capitolo di cui offrono la chiave interpretativa. Essi descrivono due comportamenti opposti che rivelano come i peccatori sono vicini a Dio, mentre quelli che si reputano giusti e osservanti sono lontani: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”». Gli esclusi e gli impuri «si avvicinavano», gli specialisti della religione «mormoravano», dissimulando la loro gelosia. In questo contesto le due parabole illustrano il comportamento di Dio nei confronti dei peccatori e di coloro che si perdono, ma che Dio ritrova sempre, anche se loro a volte non lo sanno. Di seguito solo alcune suggestioni.
 
La 1a parabola: il pastore e la donna.
Leggendo in parallelo la prima parabola (cf Lc 15,4-7) e il suo prolungamento (cf Lc 15,8-10) scopriamo «visivamente» che vocabolario e messaggio sono gli stessi. La parabola vera e propria (l’uomo/pastore) è composta di quattro versetti, per un totale, in greco, di 81 parole, mentre il prolungamento illustrativo in versione femminile (la donna) si compone di tre versetti per un totale di 51 parole, cioè 28 in meno, rispettando così anche un rapporto proporzionale tra parabola primaria (pastore) e aggiunta di rafforzamento (donna)[19].
Il messaggio della prima parabola è dunque quella dell’esclusività di ciascuno di noi che Lc indirizza sia al mondo maschile che a quello femminile: nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio. Sia la parabola (pastore) che il suo prolungamento (donna) cominciano con un interrogativo ipotetico che esige la risposta: «Nessuno». Nessuno infatti abbandona una pecora nel deserto e nessuna donna fa finta di nulla se perde un moneta preziosa. Luca stesso ci aveva preparato a questa svolta, quando nel contesto della preghiera ci aveva già anticipato che Dio non si rassegna di fronte alle esigenze dei suoi figli e nessun padre dà al figlio pietra per pane o serpe per pesce o scorpione per uovo (cf Lc 11,11-13). Ora ci dice che a maggiore ragione Dio non si rassegna alla morte dei suoi figli per quanto peccatori, per quanto ribelli essi possano essere. Paternità/maternità e figliolanza non si possono mai rinnegare senza annullare la propria identità e Dio «si è sempre ricordato della sua alleanza: parola data per mille generazioni» (Sal 105/104,8).
 
Il padre e i due figli (Lc 15,11-32)
Incontriamo un padre e due figli, anonimi: l’anonimato ci convoca sempre nel coinvolgimento diretto. Padre e figli possono essere chiunque, siamo noi. Proviamo ad identificarci con qualcuno. Nel leggere questa parabola è bene entravi dentro e scegliere un posto, un personaggio, una identificazione che corrisponde al nostro stato d’animo, alla nostra condizione di adesso. Chi sono io? Il padre, il figlio più giovane, il figlio maggiore, l’allevatore di porci, gli amici spensierati, il servo, ecc. Chi rispecchia meglio la mia situazione di adesso? E’ da notare come in questa parabola, in modo particolare, è assente la madre, la donna: un padre e due figli soltanto.
Il figlio più giovane ha una coscienza esplicita dei sui diritti e infatti nel testo greco non chiede qualche cosa, ma chiede tutto ciò che può chiedere: la vita stessa del padre, anzi la sua natura. Il testo greco, infatti, dice testualmente: «Padre, dammi la parte spettante della tua ousìa» cioè della tua natura, di ciò che tu sei. In sostanza prima che il padre muoia, il figlio minore lo vuole uccidere per prendersi una parte della sua vita (Lc 15,12: dòs moi to epibàllon mèros tēs ousìas – dammi la parte, quella spettante della [tua] natura»). Egli crede di liberarsi del padre, ma non sa che quando va lontano egli si porta appresso la vita, la natura del padre, quella che lui ha rapito anzi tempo. Sarà questa Shekinàh rapita e dilapidata che lo salverà dall’abisso e lo proteggerà anche «in un paese lontano», cioè pagano e senza Dio, dove va per divertirsi con amici e prostitute, nell’intento di sperperare fino all’ultima goccia la vita del padre.
Il testo greco dice letteralmente «Partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo “senza salvezza- asôtōs”» che la Cei traduce con «in modo dissoluto» (Lc 15,13). Per un ebreo, «vivere in un paese lontano» è sinonimo di morte perché significa vivere lontano dal suo popolo e dal suo Dio. In una parola è una forma di apostasìa dalla fede: è un rinnegato. Aspirava alla libertà e si ritrova in un porcile che per un ebreo è il massimo dell’abiezione e dell’impurità cultuale. In Israele non si possono allevare porci e il figlio va «lontano» a pascolare i porci e mangiare con loro che non lo riconoscono nemmeno perché anche i porci rifiutano di stare con uno che ha rinnegato il suo Dio e il suo popolo. 
Non ha sperperato del suo, ma ha buttato via la vita del padre e infatti quando non ha più la parte di padre che ha preteso, si ritrova povero e miserabile, immondo tra i porci, in un paese straniero, solo e abbandonato. Resta ancora un richiamo: il padre, che dentro il suo cuore lo stimola a riprendere la via di casa. Non importa se la motivazione è insufficiente perché non decide di tornare a casa per amore o per timore di avere fatto soffrire il padre, ma unicamente per il terrore di fare una vita da schiavo: meglio servo presso il padre che schiavo di porci. Non è un pentimento sincero quello del figlio più giovane, ma è un pentimento da tornaconto: mangiare, bere, stare bene. Questo figlio non è proprio un modello di pentimento ed è esagerato usarlo in questo senso nelle liturgie penitenziali. E’ un controsenso, a meno che non si spieghi correttamente la parabola e i suoi protagonisti. L’insegnamento è questo: in un processo di conversione non sempre la motivazione iniziale deve essere esplicita e totale perché essa è spesso un «processo», cioè un cammino, un traguardo che comincia sempre con un primo passo. Il figlio giovane fa il suo interesse e non sa che la sua motivazione egoista sarà travolta e sconfitta da quel padre che lui ha dilapidato, ma che non lo ha mai abbandonato. Non è il figlio convertito che ritorna, ma il padre che lo riporta a casa, sospingendolo, aspettandolo, desiderandolo perché il padre non può vivere senza il figlio delle sue viscere. La conversione finale, se mai ci sarà (il testo non lo dice) sarà solo frutto dell’iniziativa del padre che non fa dire al figlio nemmeno le parola di circostanza che si era preparato: la conversione è grazia e dono.
Il padre sa che il figlio ha pieno diritto sulla sua vita e senza discutere, lo accontenta. Il testo greco dice: e divise/distribuì la sua vita tra loro (Lc 15,12). Uno solo chiede la vita dell’uomo anonimo, ma questi divide tra due perché come padre non può abdicare. Dà la metà della sua vita anche all’altro che, da come si svilupperanno gli eventi, aspettava ansioso più ancora del fratello minore, di cui non ha il coraggio incosciente, proprio della giovinezza, ma in compenso ha la trivialità della grettezza che trama nel buio. Compito di un padre è dare la vita per il figlio e il figlio sapendolo non fa sconti. Il padre non abbandona mai il figlio anche quando scappa e sembra che sia distante perché il padre è sempre presente nel figlio che porta la sua «ousìa-natura». I figli hanno diritto sulla vita dei genitori e questi hanno il dovere di morire per loro. Non sono i figli che hanno chiesto di venire al mondo, ma sono i genitori che li hanno generati e quindi ne sono responsabili. Il padre non limita il figlio, si riserva il diritto/dovere di amarlo, di “com”-patirlo, a soffrire per lui e con lui. Avergli dato la vita non basta, ora bisogna ritrovarlo, cercarlo, rigenerarlo[20].
Il padre è una potente calamita che attira il figlio lontano e lo attrae al suo cuore. Il figlio non sa, non conosce la forza che lo spinge, ma si adegua e quando è all’orizzonte, prima ancora di vederlo, il padre “sente” la presenza del figlio perché lo vede col cuore della sua paterna maternità e corre, corre, si precipita verso di lui perché il suo cuore “sa” che è lui. «Correre» nella cultura orientale è perdere la dignità: il padre, l’autorità non corre, ma sta ferma ad aspettare nella solennità dell’immobilità. Questo padre non teme di perdere la dignità e il decoro che vengono dopo il figlio che «vede da lontano».
Nell’impatto dell’incontro nessuna parola, solo una convulsa gestualità affettiva. Il testo greco dice che il padre fu scosso nelle viscere, cioè nel grembo/utero: il verbo greco che Lc usa appositamente, «esplanchnìsthē», traduce la parola del salmo 51/50 «rachamìmgrembo/utero» e si mette a correre e finalmente quando lo raggiunge, dice il testo greco: gli cadde sopra il collo e se lo baciò teneramente (Lc 15,20). E’ il figlio che ritorna, ma è il padre che corre; è il figlio nuovamente presente, ma è il padre che lo «ri-partorisce» di nuovo perché lo accoglie in sé per dargli ancora la sua vita, senza calcolare quella che gli aveva rubato. Il figlio non fa in tempo a fare il discorsetto che si era preparato perché si trova in mezzo ad una festa grandiosa, la festa del reintegro: riceve la tunica, segno della sua nuova dignità/personalità di figlio; i sandali, simbolo della sua autorità sulla casa e l’anello, simbolo del nuovo diritto all’eredità del padre.
Il figlio maggiore. Apparentemente sembra quello buono, perché sta col padre e non crea problemi. Egli invece è gretto, sospettoso, vigliacco, avaro, geloso del patrimonio del padre. Forse fu la causa della decisione del fratello di andarsene. Certamente quando restò solo, pensò che ormai tutto era suo e viveva nella speranza della morte del padre per ereditare la roba. Non è mai in casa, ma è sempre «fuori» ed è sempre il padre che gli va incontro. Il padre si accorge che credeva di avere perso il figlio minore, mentre ora si rende conto che è il maggiore il figlio perduto per sempre nonostante fisicamente sia stato vicino a lui. E’ stato sempre in casa, ma lontano dal padre e dal suo amore: il padre deve andare da lui che resta fuori: «Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo» (Lc 15,28). Non riconosce il fratello perché è solo figlio del padre: «questo tuo figlio» (Lc 15,30) e lo dice con un nota di disprezzo verso il padre.
Nessun argomento del padre lo commuove: egli vede solo il pericolo che la sua avarizia non può saziarsi come aveva preventivato: il ritorno del fratello è una tragedia perché saltano tutti i suoi progetti perversi.  Per non consumare «la roba», non osava nemmeno fare festa con gli amici, prendendosi un capretto e di questo suo egoismo possessivo accusa il padre: «non mi hai mai dato un capretto» (Lc 15,29). Il padre lo rimanda alla sua realtà di figlio attraverso la sua fraternità: «questo tuo fratello» (Lc 15,32). Non si può essere figli se non si è fratelli in pienezza. E’ lo stesso ritmo della 1a lettura: «il tuo popolo che tu hai fatto uscire» (Dio a Mosè); «il popolo che tu hai fatto uscire» (Mosè a Dio); «questo tuo figlio» (il maggiore al padre), «questo tuo fratello» (il padre al figlio): è il rimando a riappropriarsi della propria identità relazionale.
Non sempre quelli che stanno nella chiesa sono i migliori. Spesso le grettezze, le avarizie, le discriminazioni razziali sono pane quotidiano di chi frequenta, somigliando più al figlio maggiore per il quale non c’è speranza, nonostante l’amore del padre. Il figlio minore peccò, uccise il padre, ma si lasciò anche sommergere dall’amore travolgente del padre e riprese una nuova vita insieme al suo padre che lo rigenerò due volte.
La parabola di Lc è frutto della predicazione di Paolo che annuncia il Vangelo sia agli Ebrei che ai Pagani: è l’universalità della fede che si afferma e nessuno (figlio minore) può essere escluso dalla salvezza in nome di privilegi (figlio maggiore). I Greci evangelizzati da Paolo hanno gli stessi diritti degli Ebrei anche se davanti a questi possono sembrare dissoluti e degeneri perché non provengono dalla «tradizione giudaica». Dio è libero e chiama chi vuole, ad ogni ora come gli operai della vigna (cf Mt 20,1-16) e come il pubblicano e il fariseo nel tempio (cf Lc 18,9-14).
Nessuno può essere tanto disperato da pensare che per lui non ci possa essere salvezza o perdono. Il mestiere di Dio è proprio il perdono, sempre, comunque. Questo è il Dio che ci ama, che ci chiama, che ci manda nel mondo a testimoniare con la nostra vita che non si è ancora stancato di questa umanità smarrita, nonostante le ingiustizie, le guerre, le violenze, i soprusi, gli efferati delitti di cui siamo testimoni e di cui inorridiamo. Questo è il Dio che dobbiamo gridare in questo tempo senza speranza e in questa Chiesa smarrita perché la gerarchia fornica con i figli maggiori, opportunisti e per opportunismo. E’ la sola speranza che ci salva: Dio è il padre che ci ama sempre, senza condizione, oltre noi stessi. Il segno? Ecco davanti a noi la Parola che si fa Pane per nutrirci in questo viaggio difficile, ma determinato verso Gerusalemme, verso la verità della vita che passa attraverso la morte. L’Eucaristia è il sacramento della tenerezza, della compassione, del perdono: il sacramento in cui Dio si fa grembo di Padre-Madre di ciascuno. Nessuno escluso. Al contrario, chi si sente indegno, si senta anche il prediletto perché il banchetto è preparato per lui, per lei. Sempre.
 
PROFESSIONE DI FEDE
Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra? Credo.
Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre?           Credo.
Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna?     Credo.
Questa è la nostra fede. Questa è la fede della Chiesa. Questa è la fede che noi ci gloriamo di professare, in Cristo Gesù nostro Signore. Amen.
Preghiera universale[intenzioni libere][21].
 
Preghiamo (sulle offerte).Accogli con bontà, Signore, i doni e le preghiere del tuo popolo, e ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA DELLA RICONCILIAZIONE Il
Prefazio proprio
Il Signore sia con voi.             E con il tuo spirito.    In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.                                 È cosa buona e giusta.
 
È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore.
Tu sei «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).
 
Egli consacrò l’istituzione del tempo penitenziale con il digiuno di quaranta giorni, e vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegnò a dominare le seduzioni del peccato, perché celebrando con spirito rinnovato il mistero pasquale possiamo giungere alla Pasqua eterna.
Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto nel nome del Signore colui che viene. Kyrie, elèison! Christe, elèison!
 
E noi, uniti agli angeli e ai santi, proclamiamo senza fine l’inno della tua lode:
Christe, elèison! Pnèuma, elèison! Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Kyrie, elèison! Christe, elèison! Pnèuma, elèison! Osanna nell’alto dei cieli.
 
Noi ti benediciamo, Dio onnipotente, Signore del cielo e della terra, per Gesù Cristo tuo Figlio venuto nel tuo nome: egli è la mano che tendi ai peccatori, la parola che ci salva, la via che ci guida alla pace.
Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e di Gesù Cristo, loro discendenza, che tu mandi a noi a presiedere questa santa Assemblea (cf Es 32,13).
 
Ci siamo allontanati da te, ma tu stesso, o Dio nostro Padre, ti sei fatto vicino ad ogni uomo; con il sacrificio del tuo Cristo, consegnato alla morte per noi, ci riconduci al tuo amore, perché anche noi ci doniamo ai nostri fratelli.
Rendici la gioia della tua salvezza, o Signore, Dio di tenerezza che ci generi da sempre e ci partorisci per sempre con amore viscerale di madre(cf Sal 51/50, passim).
 
Per questo mistero di riconciliazione ti preghiamo di santificare con l’effusione dello Spirito Santo questi doni che la Chiesa ti offre, obbediente al comando del tuo Figlio.
Crea in noi, o Dio, un cuore puro, rinnova in noi uno spirito saldo(cf Sal 51/50,12).
 
Egli, venuta l’ora di dare la vita per la nostra liberazione, mentre cenava, prese il pane nelle sue mani, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Signore apri le nostre labbra e la nostra bocca proclami la sua lode: Benedetto sei tu che vieni, Pane disceso dal cielo (cf Sal 51/50,17; Gv 6,41).
 
Allo stesso modo, in quell’ultima sera egli prese il calice e magnificando la tua misericordia lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA,VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Il calice della benedizione che noi benediciamo, è comunione con il tuo sangue, o Cristo (cf 1Cor 10,16).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Alzeremo il calice della misericordia e invocheremo il nome del Signore (cf Sal 116/115,13).
 
Mistero della fede.
Tu ci hai redenti con la tua croce e la tua risurrezione: salvaci, o Salvatore del mondo.
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, noi ti offriamo, o Padre, il sacrificio di riconciliazione,
che egli ci ha lasciato come pegno del suo amore e che tu stesso hai posto nelle nostre mani.
 
Accetta anche noi, Padre santo, insieme con l’offerta del tuo Cristo, e nella partecipazione a questo convito eucaristico donaci il tuo Spirito,
perché sia tolto ogni ostacolo sulla via della concordia, e la Chiesa risplenda in mezzo agli uomini come segno di unità e strumento della tua pace.
 
Lo Spirito, che è vincolo di carità, ci custodisca in comunione con il nostro Papa …, il Vescovo …, il collegio episcopale,i presbiteri, i diaconi, le persone che amiamo… N.N. … i bambini nati nelle ultime e prossime ventiquattro ore, le persone innamorate, coloro che servono, quanti soffrono in ogni luogo e regione del mondo e tutto il popolo cristiano.
Un cuore contrito e affranto, tu, o Dio, non disprezzi perché Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori (cf Sal 51/50,19; 1Tm 1,15).
 
Accogli nel tuo regno i nostri fratelli, che si sono addormentati nel Signore… N.N. … e tutti i defunti dei quali tu solo hai conosciuto la fede.
Dice il Signore che in cielo c’è più gioia per un peccatore pentito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di perdono. Accetta, Signore, il sacrifico di lode del nostro cuore contrito (cf Lc 15,7; Sal 51/50,19).
 
Tu che ci hai convocati intorno alla tua mensa, raccogli in unità perfetta gli uomini di ogni stirpe e di ogni lingua, insieme con la Vergine Maria, con gli Apostoli e tutti i santi nel convito della Gerusalemme nuova, per godere in eterno la pienezza della pace.
Anche quando siamo lontani da te, tu, o Padre, ci vedi e scosso nelle tue viscere materne ci corri incontro e cadi sul nostro collo per rigenerarci figli della tua misericordia e del perdono (cf Lc 15,20).
 
[Dossologia conclusiva: il momento più importante dell’Eucaristia, il vero offertorio]
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico: idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

 
Antifona alla comunione Lc 15,23.24
«Facciamo festa, perché mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Dopo la comunione
Da Dietrich Bonhoeffer, Memoria e fedeltà
Credere alla grazia di Dio significa non indugiare a rovistare nella nostra miseria, nella nostra colpa, ma uscire da noi stessi e volgere lo sguardo alla croce, là dove Dio ha preso su di sé e ha portato la miseria e la colpa, effondendo così il suo amore su tutti coloro che hanno pesi gravosi da portare. Miseria e colpa dell’uomo, grazia e amore misericordioso di Dio: sono realtà che si richiamano a vicenda. Dove sono presenti in grande quantità miseria e colpa, proprio là sovrabbondano più che mai la grazia e l’amore di Dio. Dove l’uomo è piccolo e debole, là Dio ha manifestato la propria gloria… “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12, 10). [...] Quanto più l’uomo è debole, tanto più è forte Dio, questo è certo; così come è certo che sulla croce di Cristo si incontrano l’amore di Dio e l’infelicità umana, ed è certo che la croce di Cristo ha spezzato l’equazione “religione = felicità”. “Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta nella debolezza” (2Cor 12,9).
 
Un’amica carissima, Margherita Maltagliati di Milano, di ritorno dall’Inghilterra invia questa preghiera che ha trovato nella cattedrale di Westmister e che proponiamo agli amici e amiche della Liturgia. La preghiera è attribuita a San Benedetto (480-547).
 

O Padre, santo e amabile
O Gracious and Holy Father
Donaci la Sapienza per intuirti,
give us Wisdom to perceive You,
la perseveranza per cercarti,
Diligence to seek You,
la pazienza per aspettarti,
Patience to wait for You,
donaci occhi per  guardarti,
Eyes to behold You,
un cuore per essere assorti/immersi in te,
A Heart to meditate on You,
e una vita per celebrarti,
and a life to proclaime You;
attraverso la forza dello Spirito
Through the power of the Spirit
di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
of Jesus Christ our Lord. Amen.

 
Preghiamo. La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore Dio di pietà, lento all’ira e ricco di grazia e verità,ci colmi della sua misericordia,          Amen.
Il Signore che si pentì di volere distruggere Israele, ci ha rinnovati nel suo perdono.
Il Signore che inviò Gesù Cristo a chiamare i peccatori, ci doni il vangelo della pace.
Il Signore che gioisce per ogni peccatore pentito, ci consoli con la fraternità accogliente.
Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci.
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.
Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolarci.
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                Amen.
 
La messa è finita come celebrazione: comincia ora nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia. 
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
 
_________________________
© Nota: Domenica 24a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Genova, Paolo Farinella, prete 12/09/2010 – San Torpete – Genova
 


[1] «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?» dice l’Innominato al card. Borromeo che risponde: «Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?» (A. Manzoni, I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, Gruppo Editoriale l’Espresso SpA, Roma, 2004, 372).
[2] Lo stesso senso si ha in altre lingue: in francese (par-donner/par-don), in spagnolo (per-donar/per-don), in portoghese (per-doar/per-dão), in tedesco (Ver-geben/Ver-gebung), in inglese (for-give/fo-rgiveness/par-don). Un esempio in questo senso si trova nella colletta della domenica 26adel tempo ordinario-A (nel messale di Pio V corrisponde alla domenica 10a dopo Pentecoste): «O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua ad effondere su di noi la tua grazia…» che non traduce esattamente il testo latino più espressivo: «Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas, multiplica super nos misericordiam tuam – (trad. lett.:) O Dio, che manifesti la tuaonnipotenza in sommo grado perdonando e avendo misericordia, moltiplica su di noi la tua misericordia…».
[3] Purtroppo il traduttore ufficiale non ha capito la valenza enfatica del testo che mette in evidenza la contrapposizione dell’espressione «tuo popolo» che Mosè si rimpalla con Dio e che bisogna mettere in rilievo con il pronome personale, altrimenti il testo resta debole e il contrasto sbiadito e non radicale come invece è: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che [tu] hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito» a cui Mosè ribatte: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che [tu] hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? … Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo» Es 32,7.11-12).
[4] «11E dissero a Mosè: “È forse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, portandoci fuori dall’Egitto? 12Non ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”?» (Es 14,11-12). «2Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. 3Gli Israeliti dissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine”» (Es 16,2-3).
[5] «Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso» (Es 34,14; cf 20,5; Dt 4,24; 5,9; 6,15; 32,21; Gs 24,19; Ez 39,25; Na 1,2)
[6] Il sommo sacerdote portava un mantello sulle spalle che aveva proprio la funzione di «scudo»: difendere il popolo e difendersi dall’«assalto dell’onnipotenza di Dio» perché la divinità può contaminare (un residuo di ciò è rimasto nei pontificali, quando dopo la Comunione, il vescovo di lava le mani. Il gesto non riguarda eventuali residui di pane (senso deformato nel Medioevo), ma il fatto che si è toccato l’onnipotenza.
[7] Per i popoli antichi, gli «dèi» non avevano potere oltre i confini del popolo di riferimento. Il Dio d’Israele è l’unico che ha dimostrato di essere Dio anche in Egitto, per cui se distruggesse il popolo che ha appena liberato, dimostrando di essere più grande degli «dèi» egiziani, nessuno potrebbe credergli, perché la sua «potenza» sarebbe diabolica: non libera dalla schiavitù per amore, ma per distruggere. Nessun popolo accetterebbe un dio del genere.
[8] Credo che Gesù pensasse a questo comportamento di Mosè, quando dice: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12); la violenza qui ha il senso di opposizione decisa e senza compromessi alla «non verità»; è l’energia impegnata a realizzare il paino di Dio anche contro Dio stesso, se questi si discosta dalla sua fedeltà. E’ evidente che è un argomento «per absurdum». In questo contesto, la preghiera è la forza con cui si esige da Dio di essere sempre Dio, cioè Salvatore e Liberatore: nell’omelia approfondiremo il senso del comportamento di Mosè che ci apre al mistero della preghiera.
[9] La Chiesa corre spesso lungo la storia il rischio di cadere nel tranello della «religione civile» come tavola di salvezza in momenti di crisi. E’ il segno che la Chiesa, o quanto meno i suoi governanti, hanno paura di perdere consenso e potere e quindi abbandonano la profezia per allearsi con i potenti, offrendo la religione come supporto del potere corrente, anche se corrotto e immorale, diventando così complice di apostasìa. Noi sappiamo che molta parte del clero è non credente, ma vive la propria condizione come «status» e usa la religione come strumento per fini personali, economici e sociali. I pagani moderni fanno la corte a questo clero e offrono un fronte comune sui «valori cristiani», sapendo che così il clero viene coinvolto in una religione civile senza Cristo e senza profezia: funzionari miscredenti a libro paga di miscredenti atei.
[10] Cf sotto, nota 16.
[11] Al momento della discussione se includere o no il Cantico nel canone dei libri ispirati nel concilio di Javne (fine sec. I), Rabbì Aqiba disse a quelli che ne negavano l’ispirazione per il suo contenuto ritenuto lascivo: «Dio me ne liberi! Nessuno ha dissentito dagli altri riguardo al Cantico, sostenendo che esso non contamini le mani [= è impuro, cioè è libro ispirato], poiché il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico fu dato a Israele, perché tutti i Ketubim [i libri sapienziali] sono santi, ma il Cantico è santissimo» (Mishnàh, Jodayim, II,5).
 
[12] Accade che, a volte, e anche spesso, piccoli clericali lussuriosi, dopo avere tramato e strisciato e pagato, sono nominati vescovi di una piccola diocesi, ritenendosi «sprecati» per il loro talento di amministratori «di anime», fanno di tutto vendendosi anche al diavolo per essere trasferiti a sedi più importanti e notorie, meglio se sedi cardinalizie: tutto logicamente è fatto per servire meglio il Signore e la Chiesa. Costoro, a cui nulla importa di Dio e tanto meno delle anime, sono stati consacrati con un rito strutturato sul simbolo della nuzialità, espressa anche nei segni esterni (anello); ma poiché sono bigami per natura non gli importa di abbandonare la donna-chiesa con cui si sono legati per la vita e la morte, ma non vedono l’ora di divorziare per fornicare con un’altra chiesa-femmina più ricca e importante. Nel rito dell’ordinazione episcopale la consegna dell’anello è accompagnata da queste parole: «Ricevi l’anello, segno di fedeltà, nell’integrità della fede e nella purezza della vita custodisci la santa Chiesa, sposa di Cristo».
[13] In ebraico il termine «dabàr» significa contemporaneamente «detto» e «fatto»: la parola è un evento e chi la consegna ad un altro stabilisce un «fatto» irreversibile che non si può cancellare perché la parola è sacra e impegna la persona nella sua verità e credibilità.
[14] In ebraico il verbo «Zakàr» significa «fare memoria sperimentando quello che si ricorda» e quindi rendere presente il passato. Da questo verbo deriva il termine «zikkaròn-memoriale» che noi applichiamo anche alla Eucaristia.
[15] Nella liturgia cattolica si ha la stessa intensità teocentrica nella preghiera/inno «Gloria a Dio nell’alto dei cieli», quando l’Assemblea nella prima strofa canta: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente». Cinque azioni espresse dai verbi per una sola ragione: «per la tua gloria immensa». Quante volte siamo passati sopra a questo vertice e non ci siamo accorti di lambire il cuore stesso di Dio, mentre ci siamo affrettati a rotolare le parole senza nemmeno renderci conto del senso? E’ questo il motivo per cui noi pretendiamo una pausa di tre tempi: per spezzare la fretta e per costringere la superficialità a gustare ogni parola/evento perché gli occhi che leggono abbiano il tempo accorgersi di essere penetrati nella «teo-loghìa», divenuta afflato di preghiera e di intimità senza tornaconto. «Per la tua gloria immensa», cioè per te stesso, perché meriti di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché tu sei Dio e noi carne e sangue della tua divinità. Non siamo in Chiesa per adempiere un dovere, ma per partecipare al banchetto dell’amore e lasciarci immergi nel pozzo dell’amore di Dio che la sua Gloria, la sua Kabòd/Dòxa. Quando preghiamo, infatti, se preghiamo nello Spirito, noi siamo abitati da Dio che ci accoglie nella tenda del suo amore per svelarci il suo nome, il suo volto e il suo cuore. Pregare è vedere Dio che vede noi.
[16] Abbiamo commentato la parola evangelica in due anni e mezzo sulla rivista «Missioni Consolata» che, su richiesta di molti lettori, abbiamo trasformato il testo rivisto, integrato e riformulato in un libro a cui rimandiamo per gli approfondimenti sia esegetici che teologico-spirituali: P. Farinella, Il padre che fu madre. Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010, pp. 314. Per la consultazione in rete cf il sito web < http://www.missioniconsolataonlus.it/home.php >, cliccando a destra sulla rubrica «Così sta scritto» o sulla caricatura dell’autore.
[17] Il «midràsh» è un metodo esegetico giudaico. Letteralmente significa «ricercare» [il senso] di un verso o di una parola attraverso i sensi di altri versetti e di altre parole. In parole molto semplici si potrebbe definire come il metodo che spiega la Scrittura con la Scrittura. In ebraico midràsh (plurale midrashìm) deriva dal verbo «daràsh» che nell’AT e a Qumran significa ricercare/scrutare/esaminare/studiare. La tradizione rabbinica l’ha utilizzato come metodo d’interpretazione della Scrittura: si parte dal senso letterale per giungere a quello profondo e nascosto per attualizzarlo adattandolo ai bisogni nuovi e trarne applicazioni pratiche per la vita. In altre parole, si legge la Sacra Scrittura alla luce della situazione nuova che si viene a creare attraverso il richiamo di una parola o di un detto.
[18] Ger 31,10-14 presenta il Signore come un pastore premuroso alla ricerca delle pecore «disperse» per radunarle in un solo ovile con un cambiamento radicale della situazione: il lutto è cambiato in gioia e tutti partecipano al nuovo «Eden» (Ger 31,12). Ispirandosi a questo testo Lc 15,4-7 parla di un pastore che va alla ricerca di una pecora perduta per riportarla nel gregge messo al sicuro. Nel profeta e in Lc esplode la gioia dei radunati (Ger 31,12) e del pastore che festeggia la salvezza della pecora ritrovata e l’unità del suo gregge. Il profeta parla della matriarca Rachele, una donna, che piange i suoi figli perduti come esuli in terra d’esilio, dove moriranno. Il disegno di Dio, però, non è questo: i figli dispersi ritorneranno e compiranno così la speranza della madre: rivederli di nuovo dentro i confini della casa/Israele. L’immagine di afflizione disperata diventa in Lc la donna che perde un «tesoro», ma non dispera di ritrovarlo fino a quando non lo avrà trovato. Il profeta Geremia parla di Efraim, il figlio minore di Giuseppe e Asenèt sua sposa egiziana (Gen 41,52; 46,20; Nu 26,28). Efraim riceve la primogenitura al posto del fratello maggiore Manasse (Gen 48,1-22 [specialmente vv. 14.17-19]). Questo procedimento secondo cui il figlio minore subentra al fratello maggiore ribaltando i diritti naturali della primogenitura è una costante nella Bibbia da formarne una ossatura (esamineremo questo aspetto più avanti, nel commento della parabola del padre e dei due figli). Efraim dichiara il suo smarrimento e il suo desiderio di ritornare, pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio-Padre risponde con accenti di tenerezza, dichiarandolo non solo «figlio prediletto» (v. 20), ma evidenziando la commozione delle sue viscere.
[19] Di seguito la prima parabola doppiata: «Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA»
Lc 15,4-7: il Pastore
Lc 15,8-10: la Donna
4«“Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?
5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice:
Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».
10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
 
Leggendo in parallelo la prima parabola (vv. 4-7) e il suo prolungamento (vv. 8-10) scopriamo «visivamente» che vocabolario e messaggio sono gli stessi. La parabola vera e propria (l’uomo/pastore) è composta di quattro versetti, per un totale, in greco, di 81 parole, mentre il commento illustrativo (la donna) si compone di tre versetti, per un totale di 51 parole, cioè 28 in meno, rispettando così anche un rapporto proporzionale tra parabola primaria e l’aggiunta di rafforzamento.
 
[20] E’ impossibile non fare a questo punto una applicazione ecclesiologica: se i vescovi cattolici, i parroci, i preti somigliassero solo un poco a questo padre, la Chiesa sarebbe una vera famiglia di Dio, in attesa del Regno. Purtroppo il clero vive nella paura dei laici che «sente» come antagonista, un pericolo  per la propria autorità. Ecco il punto il clero difende la propria autorità che afferma ad ogni occasione, dimenticandosi che la sua «natura» è servire e spartire la vita ai figli. Quando i vescovi scenderanno dal loro piedistallo di «satrapi persiani» e usciranno dalla loro regge pagane perché ricche e sontuose, quel giorno la Chiesa potrà annunciare al mondo Dio come «Padre che è Madre».
[21] Sulla preghiera universale o dei fedeli il Concilio insegna [sottolineature nostre]: «Nella preghiera universale, o preghiera dei fedeli, il popolo risponde in certo modo alla parola di Dio accolta con fede e, esercitando il proprio sacerdozio battesimale, offre a Dio preghiere per la salvezza di tutti. È conveniente che nelle Messe con partecipazione di popolo vi sia normalmente questa preghiera, nella quale si elevino suppliche per la santa Chiesa, per i governanti, per coloro che portano il peso di varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo (Sacrosantum Concilium 53). La successione delle intenzioni sia ordinariamente questa: a) per le necessità della Chiesa; b) per i governanti e per la salvezza di tutto il mondo; c) per quelli che si trovano in difficoltà; d) per la comunità locale. Tuttavia in qualche celebrazione particolare, per esempio nella Confermazione, nel Matrimonio, nelle Esequie, la successione delle intenzioni può venire adattata maggiormente alla circostanza particolare. Spetta al sacerdote celebrante guidare dalla sede la preghiera. Egli la introduce con una breve monizione, per invitare i fedeli a pregare, e la conclude con un’orazione. Le intenzioni che vengono proposte siano sobrie, formulate con una sapiente libertà e con poche parole, ed esprimano le intenzioni di tutta la comunità» (Ordinamento Generale del Messale Romano, Introduzione, nn. 69-71)


Giovedì 09 Settembre,2010 Ore: 11:53
 
 
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