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www.ildialogo.org Domenica 18a Tempo Ordinario -C-1 agosto 2010-,di Paolo Farinella, prete

Domenica 18a Tempo Ordinario -C-1 agosto 2010-

di Paolo Farinella, prete

Volendo sintetizzare l’annuncio profetico di questa domenica 18a del tempo ordinario-C, parafrasando Erasmo di Rotterdam (1466-1536) potremmo dire «Elogio del limite». E’ questo il senso primario del termine «vanità» della 1a lettura. Ogni giorno ciascuno di noi sperimenta un divario incolmabile tra il desiderio esistenziale di felicità e le conquiste concrete che riesce a realizzare nel quotidiano. Questa distanza tra l’ideale e il reale è la «vanità» che in uno sviluppo armonico della personalità può diventare stimolo di crescita perché affronta le ambiguità e le contraddizioni della vita come elementi che devono essere vissuti all’interno di un contesto di realizzazione «umana». La «finitezza» è la condizione privilegiata della persona saggia e adulta perché riconoscendo il proprio limite, impara a non limitare la libertà degli altri. In una persona immatura affettivamente e spiritualmente, l’esperienza della «vanità» e lo scontro con le assurdità che la vita porta in sé, proprio perché è umana cioè limitata, può diventare depressione, rassegnazione e aridità spirituale. Da qui nascono illusione, delusione, rassegnazione, disimpegno, senso di inutilità, regressione spirituale[1]. Avere il senso del limite è il primo atto pienamente umana e decisamente il primo passo della fede.
Al sapiente Qoèlet che espone il suo pessimismo radicale[2] sulla vacuità della vita, del lavoro e dell’amore, risponde Gesù nel vangelo di oggi. Nel rifiutare la mediazione in una questione di eredità, Gesù rimanda alle proprie responsabilità di autonomia nelle cose che riguardano l’amministrazione dei beni materiali che non dovrebbero impegnare molte più energie di quanto non siano necessarie. Molte persone vivono intere esistenze, completamente buttate via, imperniate in questioni di eredità: fratelli che diventano nemici, amici che diventano ostili, figli contro padri e madri contro figlie per banali interessi che vengono giustificati sempre con motivazioni superiori proprio perché tutti sanno che non vi è congruenza tra il «bene» e i mezzi messi in atto per ottenerlo. Tutti infatti dicono che «non è per questioni di interesse, ma per principio e per legami affettivi».
Al sapiente Qoèlet si oppone lo stolto ricco che è talmente piegato su se stesso da non riuscire a vedere la sua morte imminente: tutto è centrato su di sé, nulla esiste al di fuori di sé. Quest’uomo parla in termini di eternità come se fosse Dio, non si accorge che la sua ricchezza è frutto del lavoro degli altri che magari egli ha sfruttato e non pagato a sufficienza o ha ritardato la paga dovuta; non sa che il suo benessere dipende dalla povertà di tutti coloro che lo hanno preceduto e che hanno accumulato per lui.
 
«Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti. Anche questo è vanità. 10Con il crescere delle ricchezze aumentano i profittatori e quale soddisfazione ne riceve il padrone se non di vederle con gli occhi? 11Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire» (Qo 5,9-11).
 
L’uomo stolto del vangelo non si rende conto di essere figlio del suo passato e premessa del futuro altrui. Vive per sé, vide da sé, vive solo con sé. E’ un illuso che le sue ricchezze non sapranno difendere dalla morte improvvisa. Come il figlio maggiore della parabola del «figliol prodigo» (cf Lc 15,11-32), non sa nemmeno godere delle sue ricchezze perché è talmente colmo di avarizia da perdere la dimensione del reale. Respira fisicamente, ma è morto come persona perché il suo cuore è là dove è il suo tesoro (cf Lc 12,34). Chi costruisce ricchezze per sé a scapito della vita e del lavoro altrui, sfruttando l’esistenza e la dignità degli operai o mettendo in atto il ricatto del licenziamento o creando a fini di guadagno il precariato permanente o servendosi del lavoro nero che è peccato due volte, raddoppia l’esistenza dell’inferno perché uno solo è insufficiente a smaltire il male operato.
            Per sfuggire a questa trappola, Paolo nella 2a lettura prospetta il criterio di discernimento nel binomio «lassù-terra» (cf Col 3,1-2). E’ vero noi viviamo in tensione: siamo sulla terra, ma in cammino verso «lassù»; conosciamo un punto di partenza e anche quello di approdo, ma non conosciamo il tempo e le modalità. Ciò che intercorre tra questi due punti è lo spazio della valutazione e anche della fede perché è semplicemente lo spazio della responsabilità della vita. Diverse volte abbiamo già detto che non esiste la vita eterna, se separata da quella che chiamiamo vita terrena; non esiste un al di qua e un al di là. Dio ha creato per ciascuno di noi una sola vita che viviamo una sola volta che ha un inizio nel tempo, ma non avrà fine perché la soglia della morte non è il passaggio da una vita ad un’altra, ma solo il transito da un modo di vita ad un altro modo. Noi viviamo in Dio sulla terra e continueremo a vivere in Dio anche «lassù».
La conseguenza è logica: mentre viviamo il modo terreno della vita noi sperimentiamo ogni sorta di limite, facciamo errori, sbagliamo valutazioni, poniamo premesse per scelte giuste o sbagliate, c’illudiamo spesso perché identifichiamo la felicità col possesso di una persona, di una cosa, di denaro, di potere. Quando siamo golosi di ciò che sperimentiamo, siamo capaci di stritolare tutto e spezzare anche i legami di amore. La gelosia non appartiene all’amore, ma alla insicurezza e al dubbio dell’amore. Chi ama è affidabile e si fida; chi non ama cerca sempre un preteso per «possedere», imprigionare, manipolare. La gelosia è fonte di instabilità, di insicurezza, di immaturità affettiva e priva della libertà necessaria per essere persone autentiche. Paolo ci offre una prospettiva: la dimensione della libertà umana nasce dalla certezza che siamo «con-morti» con Gesù e «con-resuscitati» con lui costituito Signore della storia. Sapere di essere morti e risorti non per merito, ma per grazia ci dà la chiarezza dell’anima per vedere «impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (Col 3,5). Non lasciarsi dominare dallo spirito della terra, significa rifiutare qualsiasi idolatria che s’incarna nell’esercizio del potere, nella presunzione di possedere la verità, nella religione quando diventa strumento di auto-glorificazione e non occasione di purificazione e di sottomissione a coloro ai quali siamo mandati.
Nella Chiesa il più grave peccato è l’idolatria del culto della personalità che si profonde in rituali esteriori che celebrano le persone a scapito dell’interiorità. Quale gloria supplementare può arrecare a Dio un vescovo o un papa vestiti come satrapi persiani mentre si ostentano alla folla che li ammira nei loro sgargianti vestiti? «Hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,2.5.16; cf 11,7; Lc 7,24). Nella Chiesa espressa dalla gerarchia paganeggiante, non si guarda il valore delle persone o la loro santità, ma la loro capacità di servilismo in nome di una carriera, di una promozione, di un titolo, di un incarico. Il potere infatti ha bisogno di sostegni e, pur di appartenere a quel mondo perverso, gli uomini sono disposti non solo a fare, ma ad essere schiavi per la vita. Basta vedere le bardature del clero effeminato per rendersi conto che gli ecclesiastici sono fuori del mondo di cui però hanno conservato intatto lo spirito perverso. E’ più grave però che essi siano anche fuori dalla vita e dalla fede.
In un mondo dove una parte della Chiesa stessa, la gerarchia che dovrebbe esercitare il ministero della guida e della testimonianza «fino al sangue», il popolo abbandonato a se stesso è facile preda di ogni lupo rapace che circuisce e corrompe dilettando. Quante persone infatti ragionano dicendo: «lo ha detto la televisione, lo ha detto il giornale», come se la televisione e il giornale fossero i nuovi padri della Chiesa che parlano perché amanti solo della ricerca della verità. Siamo schiavi di un sistema di vita che ci trasforma in segmenti di «mercato», prede da catturare e sfruttare in forza della logica del consumo che vive solo dell’etica del «vendere» ingannando e imbrogliando. La domanda di senso che si fa oggi non è «che cosa è la verità?», ma banalmente: «a che serve?». Il criterio della vita non è l’«essere», ma l’«utilità», cioè la convenienza, cioè il ricavo economico.
Per arrivare a questa tragedia, santificata sull’altare del «mercato» che è l’anti-Dio in assoluto perché frutto del capitalismo demoniaco perverso in se stesso senza possibilità di aggiustamento, è determinante esaltare, inneggiare e diffondere la logica dell’apparire: esiste ciò che appare in tv; è vero ciò che dice la tv. In questo modo, senza nemmeno faticare troppo, si riesce a manipolare le persone, a declassare il pensiero, a scartare il merito e a privilegiare la finzione, la corruzione e la «bellezza» estetica che però è solo a tempo, perché ha il difetto di passare presto con gli anni. Ciò comporta la golosità: arraffare più che si può nel più breve tempo possibile perché tutto passa e «tutto è vanità».
Essere cristiani significa non perdere mai la capacità di discernimento per essere ferocemente contrari e opposti a questo stile di vita, se vogliamo costruire una società e una Chiesa dove non « non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3,11), ma perché Cristo sia «tutto in tutti», è necessario che noi conosciamo il nostro limite come dimensione della libertà degli altri e li accettiamo come parte di noi stessi perché la vita comincia quando sperimentiamo e viviamo che gli altri sono la parte migliore di noi. Senza distinzione di nazionalità o cultura, di nascita o di residenza, di colore o di religione. Questa è la comunità cristiana. Questa è civiltà. Nulla di più. Nulla di meno. Sediamo alla mensa della scuola eucaristica per imparare a vedere la vita con gli occhi di Dio nella prospettiva della speranza, facendo nostre le parole dell’antifona d’ingresso: «O Dio, vieni a salvarmi. Signore, vieni presto, in mio aiuto. Tu sei mio aiuto e mio liberatore: Signore, non tardare» (Sal 70/69,2.6).
 
Spirito Santo, tu la gloria di Dio che vanifica in noi ogni vanità esteriore,                Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sostieni il nostro impegno e il nostro lavoro fatti per amore,                       Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu guidi la nostra speranza che supera ogni depressione e rassegnazione,       Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu convochi i popoli attorno alla Roccia che è il Cristo signore,                      Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu guidi i nostri passi alla presenza del Signore per adorarlo,              Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu circoncidi i nostri cuori perché possiamo amare come tu vuoi,                   Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu come maestro ci guidi al gusto delle cose di lassù anche sulla terra,           Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la garanzia che siamo morti e risuscitati in Cristo Signore,                     Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu trasformi l’uomo vecchio nella novità del mistero pasquale,                      Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu c’inviti alla purificazione per essere liberi di amare e servire,                     Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu non dividi tra noi eredità terrene, ma quella del regno che è il Cristo,         Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci proteggi dalla cupidigia della ricchezza, del superfluo colpevole,           Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci insegni che i beni accumulati sono sempre vanificati dalla morte,          Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci educhi a vedere la morte come metro e spessore della vita,                    Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu accumuli in noi il tesoro della fede, della speranza e dell’agàpe,    Veni, Sancte Spiritus.
 
Entriamo nel santuario dove tutti i popoli sono già convenuti dietro l’invito del salmo invitatorio: «Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio» (Sal 95/94,6-7). Venire davanti a Dio significa accettare che egli stia davanti a noi, non per guardarci esteticamente, quanto per conoscerci e amarci e diventare insieme ospiti della vita come pellegrini che hanno fame di verità e autenticità. Dio ci dà l’obiettivo finale, noi gli strumenti di realizzazione. L’altare, simbolo di Cristo «pietra angolare»[3]del valore delle altre. Quasi sempre ciò che non si vede è più importante e vero di ciò che si sperimenta. , è la soglia tra la terra e le cose che sono di lassù: qui prendiamo coscienza del limite delle une e
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
Il cristiano non si lascia scoraggiare facilmente perché la sua vita poggia sulla roccia della Parola di Dio (Lc 6,47-48). Egli sa che tutto ciò che è vive ed esprime come successi, fallimenti, fatiche e leggerezze sono comandamenti che portano in sé il cuore di Dio. Per imparare a leggere con l’alfabeto della Scrittura è necessario essere liberi non solo da se stessi (presunzione), ma anche dalla cose (schiavitù). Il perdono eucaristico è la rivelazione della paternità di Dio che manifesta tutta la sua tenerezza nel volto di Gesù. Con questa fiducia esaminiamo la nostra coscienza e lasciamo libero Dio di fare pulizia secondo il suo cuore.
 
[Sono necessari alcuni momenti veri di silenzio e raccoglimento per un vero esame di coscienza]
 
Signore, ci siamo lasciti prendere dalla vanità dell’apparenza, liberaci dal male,                  Kyrie, elèison!
Cristo, che sei venuto sulla terra per aprirci la prospettiva di lassù, salvaci da noi,   Christe, elèison!
Signore, siamo schiavi dall’idolatria della cupidigia e dell’avere, redimici dal bisogno,        Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente, che scruta il cuore e i reni, che ci apre all’intelligenza della verità di tutto ciò che viviamo e sperimentiamo, che ci educa alla misura del limite e della povertà, per i meriti dei santi Patriarchi che si sono fidati della sua Parola, per i meriti dell’apostolo Paolo che annuncia l’orizzonte della libertà, per i meriti di Gesù che ci porta con sé «lassù» dove è con il Padre e lo Spirito, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. [breve pausa 1-2-3]
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Dio, principio e fine di tutte le cose, che in Cristo tuo Figlio ci hai chiamati a possedere il regno, fa’ che operando con le nostre forze a sottomettere la terra non ci lasciamo dominare dalla cupidigia e dall’egoismo, ma cerchiamo sempre ciò che vale davanti a te. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Mensa della Parola
Prima lettura Qo 1,2; 2,21-23. Del libro del Qoèlet, la liturgia riporta solo quattro brani in tutto il ciclo triennale e uno è quello di oggi, segno della difficoltà di proporre un testo che può apparire scandaloso per il suo pessimismo radicale che rasenta l’ateismo nichilista: se il destino della vita è la morte a che serve fare il bene o il male? Tutto è vanità. L’autore usa la forma letteraria del contraddittorio che si usa in tribunale, ma è lui stesso che pone le domande e dà le repliche. Se tutto finisce nella morte indistinta, perché fare il bene oppure il male? L’uno e l’altro sono indifferenti? Cosa c’è dopo la morte per chi fa il bene e per chi opera il male? Se le cose saranno come durante l’esistenza, veramente, tutto è vanità! Il testo risente dell’influsso della filosofia greca del sec. III a.C. ma è anche una filone di pensiero di transizione che permea il dopo esilio e si sta costruendo un mondo nuovo. In fondo mancano poco più di due secoli alla fine del 1° millennio a.C. L’autore anonimo[4] è un credente che non giudica come Dio regge il mondo, ma in questo abisso di disperazione esistenziale fatalista, egli apre uno spiraglio: abbandonarsi a Dio e alla sua volontà. Poiché invita al distacco dei beni materiali e nega la felicità ai ricchi (cf Qo 5,12-15), egli ci prepara al discorso fondativo di Gesù: «Beati voi poveri» (cf Lc 6,20; cf Mt 5,1-8).
 
Dal libro del Qoèlet 1,2; 2,21-23
1,2 Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. 2,21 Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. 22 Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? 23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 90/89, 3-4; 5-6; 12-13; 14.17. Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio. Con il salmo 90/89 inizia il 4° libro del Salterio che si conclude con il salmo 106. In questo libro, la tradizione giudaica attribuisce direttamente a Mosè i salmi dal 90 al 100 che contengono complessivamente undici benedizioni, una per ogni tribù d’Israele, esclusa quella di Simeone che, secondo una tradizione, indusse il popolo alla lussuria in occasione del vitello d’oro (Es 32). In questo salmo un saggio, profondo conoscitore delle Scritture[5], medita sulla inconsistenza della vita e sulla fragilità umana, descritte con immagini efficaci: polvere, turno di veglia nella notte, erba del campo, soffio. Il peccato, cioè l’opposizione a Dio, è visto come un accorciamento dell’esistenza che è un soffio di fronte all’eternità di Dio. Prendendo coscienza del nostro limite, sperimentiamo gli stessi sentimenti del salmo con cui anche Gesù e gli apostoli hanno pregato nella loro vita terrena. Facciamo nostro l’anelito del v. 14 partecipando a questa Eucaristia per saziarci al mattino con il suo amore perché possiamo essere in grado di esultare con gli uomini e le donne che incontriamo nella Storia.
 
Rit. Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
1. 3 Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
4 Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte. Rit.
3. 12Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
13Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi! Rit.
4. 14Saziaci al mattino con il tuo amore:
2. 5Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l’erba che germoglia;
6 al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca. Rit.
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
17Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda. Rit.
 
Seconda lettura Col 3,1-5.9-11. Nell’ultima parte della lettera ai Colossesi, Paolo riflette sulle conseguenza che la regalità di Cristo ha nella vita dei cristiani. Non s èi cristiani a compartimenti stagno: quando si è in pubblico e quando si sta in provato. Il cristiano è sempre un testimone nel segreto del suo cuore e nella piazza affollata perché la dimensione della sua vita non è l’apparenza, ma l’essere in tutta la sua consistenza. Paolo non invita ad una vita «ascetica» come si è evoluta nei secoli successivi, ma descrive l’opposizione tra due mondi: quello dello spirito e quello della carne, qui espressi con termini come «lassù » e «terra». La spogliazione che comporta il battesimo genera una persona «nuova» che vive la dimensione totale della libertà: non più esclusioni di razza o di religione o di ruolo, ma «Cristo tutto in tutti» (v.11).
 
Dalla lettera di Paolo apostolo ai Colossesi 3,1-5.9-11
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni 10 e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato.
11 Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. - Parola di Dio.
Vangelo Lc 12,13-21. Una forma primitiva della parabola del ricco stolto si trova al n. 63 dell’apocrifo «Vangelo di Tommaso» (tra il 50 e il 100) e ciò è prova della sua antichità. Lc l’ha adattata al suo uditorio, aggiungendo l’introduzione che fa riferimento all’eredità dei due fratelli (v. 13), l’invito morale al distacco dalle cupidigie (v. 15) e la conclusione etica sull’opposizione tra due ricchezze: per sé e davanti a Dio (v. 21). Prima di ascoltare la parabola ci basti questa osservazione statistica: la parabola in greco si compone di 59 parole. L’uomo stolto ne pronuncia 48 (= 82%), in cui per 13 volte ricorre il concetto di «mio/possesso» (cioè il 27%). Questo è il vero ateismo: contrapporre l’io a Dio, come se sulla terra ognuno di noi vivesse da solo, come se la morte non fosse il criterio della vita. Alla scuola del vangelo, impariamo dal Signore che la vera ricchezza è l’amore degli altri come espressione dell’amore di Dio. L’uno e l’altro che sono un «solo amore» non avranno mai fine.
 
 
Canto al Vangelo Mt 5,3: Alleluia, alleluia. Beati i poveri in spirito, / perché di essi è il regno dei cieli. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca 12,13-21
In quel tempo, 13 uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17 Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18 Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19 Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20 Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21 Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
«Elogio del limite»[6]. Con questa espressione abbiamo sintetizzato tutta la liturgia di oggi: il pessimismo invincibile di Qoèlet, la prospettiva escatologia di Paolo, il delirio di onnipotenza del ricco del vangelo. La domanda che ci poniamo è questa: abbiamo coscienza del nostro limite, dei nostri limiti? Che cosa significa avere coscienza del proprio limite? Il tempo in cui viviamo è un tempo gonfiato per cui non è facile pensare o riflettere. La superficialità impazza ed è ricercata e subita come necessità dei tempi moderni. Gli strumenti sempre più avanzati in campo digitale, riducono sempre più il bisogno di leggere e il tempo di lettura, ma anche il lavoro manuale con conseguente aumento della disoccupazione. I ragazzi a scuola hanno enormi problemi perché si distraggono facilmente, pretendono di studiare con la musica a tutto volume o presumono di imparare la lezione la sera prima dell’interrogazione. Tutto si accorcia e tutto è a portata di mano con sempre meno apparente fatica, perché tutto ciò che è vissuto in modo passivo porta ad una fatica di vivere che diventa sempre più pesante.
Sconfinare dal proprio limite significa smarrirsi nella dispersione: si somiglia all’acqua versata che non si può più raccogliere e ricomporre. La crisi della nostra società è una crisi interiore perché tutti vogliono ghermire il tempo, lo spazio, il corpo, la volontà, la coscienza, il denaro degli altri senza fatica, ritenendo i propri bisogni primari sui diritti altrui. E’ una struttura di società fondata sulla finta libertà assoluta, ma che sperimenta la schiavitù delle cose, dei bisogni indotti perché la nostra è una generazione che ha bisogno di generare bisogni per potere soddisfare e sorreggere una economia indecente che è basata sulla «crescita» come se questa non potesse avere fine. Invece di guardare alla coesistenza del creato e alla sua sostenibilità, si adora il mercato governato da chi non sa cosa significhi lavorare e mantenere una famiglia; tutto è scontato e dovuto: tutto deve crescere tranne l’intelligenza, il sapere e la maturità delle persone. Basta che la tv annunci un prodotto ultimo modello, più falso che utile e prima ancora che finisca l’annuncio c’è già una coda chilometrica davanti al negozi. Si esiste se si possiede e se si possiede se si ha più degli altri. Si è, se si appare.  
Di fronte ad una questione di eredità Gesù rivendica il suo diritto di non intervento per il semplice motivo che ben altro urge nel suo cuore: il Regno è vicino, Dio è già qui e noi camminiamo verso la morte come ingresso nella pienezza della vita perché tutto è provvisorio e il tempo che abbiamo è corto, mentre la grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. I due fratelli, invece, stanno a perdere tempo su come dividersi una eredità: cioè un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarla. La consuetudine al tempo di Gesù assicurava la compattezza del patrimonio: il figlio maggiore che ne era il custode e il primo beneficiario vuole mantenere l’eredità indivisa secondo tradizione; il figlio più giovane invece vorrebbe la sua parte per spenderla a suo piacimento.
Ne abbiamo un illustre esempio in Lc 15,11-32 nella parabola comunemente conosciuta come «figliol prodigo»[7]. Di fronte a questa diatriba puramente giuridica, Gesù afferma di non avere ricevuto alcun mandato dall’autorità competente. Egli non si occupa di affari e transazioni. In questo modo afferma la laicità delle questioni che non incidono direttamente sulla fede. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza: rivolgetevi a quelle che ne hanno la competenza. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche lui ha un limite e non vuole superarlo, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologo», ma di non essere professionalmente adeguato. E’ importante questa affermazione di Gesù perché ci dice qual è il senso che egli ha della sua autorità e qual è il «limite» di questa autorità. Egli è giudice non alla maniera umana, ma come il Figlio dell’Uomo che viene alla fine Storia per prendere in carico la fatica e gli sforzi degli uomini e delle donne che hanno attraversato l’esodo della loro esistenza per accingersi a vivere il Regno finale.
 
Nota teologica. Anche Dio è condizionato dal suo limite. Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo. Legandosi indissolubilmente alla natura umana ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» umana, adeguandosi al passo del metodo degli uomini e delle donne che si basa sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione. Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento eclatante a beneficio di poveri increduli. Più avanza la conoscenza umana di se stessi e del mondo inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio perché egli non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che si ritrae. Lascia spazio e ne riconosce l’autorità. E’ la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino ad ogni essere umano (cf Fil 2,6-7). La limitatezza di Dio è così determinante e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Nel rispetto del suo limite si assoggetta anche alla legge naturale, a quella psicologica e a quella della fede: «cresceva in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52; cf 2,40). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?
 
La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha un «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica deve cioè indicare non tanto la strada, ma la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei più bei documenti dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che ti rende appassionato del mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
 
Lc è l’evangelista della povertà come categoria dell’anima e per questo mette in guardia dalla cupidigia aggiungendo di suo pugno un versetto: «E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15) che rafforza le ragioni del suo rifiuto a giudicare: tutti i beni della terra sono nel segno degli strumenti, non del fine. Sta qui la relativizzazione delle cose della terra che in una scala di valori non occupano il primo posto: prima dell’amore, prima della libertà, prima della solidarietà, ecc. Per dare forza alle sue ragioni Gesù prolunga la sua riflessione con la parabola dell’uomo stolto che è molto antica perché si trova nella sua essenzialità anche nel vangelo apocrifo di Tommaso[8].
Con questa parabola, Lc non vuole spaventare i suoi lettori con il fantasma della morte improvvisa che pone fine ai progetti di una vita. Sarebbe un espediente di basso conio. Egli al contrario pensa e si muove all’interno di un pensiero più ampio che abbraccia la Storia intera, la sua fine e quindi la valutazione che ciascuno di noi dà della sua vita di fronte al fatto che tutti siamo incamminati verso una mèta dove le cose materiali non hanno senso né scopo se non sono a mero servizio della dignità e della maturazione. Chi vive per la ricchezza consuma la propria vita in povertà; chi pensa solo ad accumulare non ha tempo per godere la bellezza della vita; chi si preoccupa solo del suo benessere non ha tempo per amare e muore atrofizzato di solitudine. Siamo nati per essere felici, impegniamo tutta la vita a vivere da infelici e … ci riusciamo anche molto bene.
Il ricco della parabola è un uomo posseduto dal demonio dell’«avere» e quindi sconfina da sé: entra in un delirio di onnipotenza, si crede superiore a Dio, anzi si crede Dio stesso perché pensa che il grano sia frutto della sua bravura. Non pensa che il grano è cresciuto ed è stato abbondante per la pioggia, per il vento, per il sole che esulano dalla sua competenza e capacità perché egli non li può comprare. Dimentica che la terra ha prodotto e germogliato anche quando lui dormiva: la madre terra a cui lui tutto deve. Forse ha anche guadagnato speculando sulla paga degli operai. Non ha il senso della misura. I ricchi sono ricchi non per bravura personale perché la loro ricchezza nasce dall’inganno, dal furto, dal sopruso, dal raggiro, dallo sfruttamento della povertà altrui e dalla cupidigia che si annida nel cuore umano. Nessuna ricchezza può essere strumento di pienezza umana perché la ricchezza del mondo poggia le sue fondamenta sulle spalle dei poveri del mondo. Per ogni accumulo c’è da qualche parte un nugolo di poveri che ne pagano le conseguenze. E’ la logica della «crescita»: se si cresce da una parte si deve recedere da un’altra parte. La vita tranquilla di un gruppo dipende dalla miseria e della sofferenza di altri.
Che cosa sono la migrazione epocale, l’esodo biblico che l’inizio del terzo millennio sta sperimentando a livello planetario se non la conseguenza di una economia fondata sul mercato, che a sua volta si nutre di speculazione finanziaria e di squilibrio di condizioni previe? Il mercato, da che mondo è mondo, risolve i problemi che esso stesso crea con licenziamenti o imponendo contratti da schiavi. Le sovvenzioni che i paesi ricchi dànno a sostegno dei beni prodotti nei propri paesi, impediscono ai paesi del fatidico terzo mondo a competere alla pari, in forza cioè del prodotto in sé. Il cosiddetto «libero mercato» è una invenzione del capitalismo per foraggiare se stesso, facendo pagare i costi ai poveri, imponendo le sue regole, le sue leggi e i suoi tempi.
L’uomo ricco è «solo» e pensa da «solo» come se sulla terra non ci fosse nessun altro che lui. Nella didascalia del vangelo abbiamo detto che su 48 parole pronunciate dal ricco, ben 13 volte, quasi un terzo, ricorre il concetto di «mio/possesso». E’ questa l’insensatezza: poiché crede di essere stato il «solo» a produrre, crede di essere il «solo» a doverne beneficiarne. E’ un dannato prima ancora di morire: egli è già nell’inferno che riempie la sua vita. Il fatto di costruire granai più grandi è probabilmente in vista di accumulare il grano in attesa di potere speculare sui prezzi, magari con gli stessi operai che hanno zappato e seminato.
            Ognuno di noi è un essere in relazione e tutti e ciascuno dipendiamo dagli altri di cui abbiamo sempre bisogno. Avere coscienza di questa interdipendenza significa avere già cominciato a superare «il limite» come confine per aprirsi alla trasfusione della relazione vitale, affettiva, creativa e di fede. Chi non è capace di vivere relazioni umane pienamente umane e quindi anche deboli e fragili, non può pretendere di entrare in relazione con Dio che si limita nella Parola, nel Pane e nel Vino per rendersi accessibile nella Vita. Pane che si spezza sull’altare del Regno per tutte le genti. E’ necessario pertanto lasciare qui davanti all’altare la nostra offerta e andare prima a verificare e sanare le nostre relazioni generanti e poi possiamo tornare per entrare nel santuario dell’Eucaristia dove impariamo che anche Dio è «limitato» perché si lega alla nostra vita per creare una relazione d’amore senza fine.
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
[Pausa: 1-2-3]

Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. [Pausa: 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. [Pausa: 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale [intenzioni libere]
MENSA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte).Santifica o Dio i doni che ti presentiamo e trasforma in offerta perenne tutta la nostra vita in unione alla vittima spirituale, il tuo servo Gesù, unico sacrificio a te gradito. Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
PREGHIERA EUCARISTICA III[9]
(Prefazio V del Tempo Ordinario:La creazione loda il suo Creatore)
 
Il Signore sia con voi.                        E con il tuo spirito.     In alto i nostri cuori.             Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.                 É cosa buona e giusta.


 
E’ veramente cosa buona e giusta renderti grazie e innalzare a te l’inno di benedizione e di lode, Dio onnipotente ed eterno.
«Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (Qo 1,2)
 
Tu hai creato il mondo nella varietà dei suoi elementi, e hai disposto l’avvicendarsi dei tempi e delle stagioni.
E fu sera e fu mattina… Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (cf Gen 1,31). I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli.
 
All’uomo, fatto a tua immagine, hai affidato le meraviglie dell’universo, perché, fedele interprete dei tuoi disegni, eserciti il dominio su ogni creatura, e nelle tue opere glorifichi te, Creatore e Padre, per Cristo nostro Signore.
«Dio creò l`uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1,27).
 
E noi, con tutti gli angeli del cielo, innalziamo a te il nostro canto, e proclamiamo insieme la tua gloria:
 
Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli. Kyrie, elèison! Christe, elèison! Pnèuma, elèison!
 
Per mezzo di lui si allietano gli angeli e nell’eternità adorano la gloria del tuo volto. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci:
 
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Santo Santo, Santo, il Signore Dio dell’universo. Osanna nell’alto dei cieli. Gloria nei cieli e pace sulla terra. Kyrie, elèison! Christe, elèison! Pnèuma, elèison!
 
Padre veramente santo, a te la lode da ogni creatura. Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, nella potenza dello Spirito Santo fai vivere e santifichi l’universo, e continui a radunare intorno a te un popolo, che da un confine all’altro della terra offra al tuo nome il sacrificio perfetto.
«Acclamiamo la roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia»(Sal 95/94,1-2).
 
Ora ti preghiamo umilmente:manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri.
Ascoltiamo la sua voce, lo Spirito Santo, che guarisce il nostro cuore da ogni tentazione (cf Sal 95/94,8-9).
 
Nella notte in cui fu tradito, egli prese il pane, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Siamo risorti con Cristo: cerchiamo le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio (cf Col 3,1).
 
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
«Noi siamo morti e la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio!»(Cf Col 3,3).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
«Cristo nostra vita è risorto e noi vediamo al sua gloria di Unigenito dal Padre (Col 3,4).
 
Mistero della fede.
Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta.
 
Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo.
Non diciamo menzogne gli uni gli altri. Ci siamo svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni 10 e abbiamo rivestito il nuovo (cf Col 3, 9-10).
 
Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito.
Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria e andiamo incontro al Cristo che è, che era e che viene (cf Col 3,5; Ap 1,4).
 
Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri, e tutti i santi, nostri intercessori presso di te.
Non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. (Col 3,11).
 
Per questo sacrificio di riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero. Conferma nella fede e nell’amore la tua Chiesa pellegrina sulla terra: il tuo servo e nostro Papa …, il Vescovo …, il collegio episcopale, il clero, le persone che vogliamo ricordare…N.N.… e il popolo che tu hai redento.
«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15).
 
Ascolta la preghiera di questa famiglia, che hai convocato alla tua presenza nel giorno in cui il Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale.
«Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?» (Lc 12,16-17).
 
Ricongiungi a te, Padre misericordioso, tutti i tuoi figli ovunque dispersi.
«Farò così – disse [l’uomo ricco] -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!"» (cf Lc 12,18-19).
 
Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo; ricordiamo tutti i defunti… N.N. … concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria, in Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene.
«Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»  (Lc 12, 20-21).
 
Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo,  ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico: idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione Lc 12,33: «Fatevi un tesoro sicuro nei cieli», dice il Signore.
 
Dopo la Comunione
Dal Vangelo apocrifo di Tommaso (n. 63):
«Gesù disse, “C’era un ricco che aveva molto denaro. Disse, Investirò questo denaro così che io possa seminare, mietere e riempire i miei magazzini con il raccolti, e che non mi manchi nulla. Queste erano le cose che pensava in cuor suo, ma quella stessa notte morì. Chi fra voi ha orecchie ascolti!”»
 
Da San Basilio, Omelia 31 sulla carità
“Che farò, si chiedeva il ricco stolto, di tutte le mie ricchezze?” (Lc 12,17). Chi non avrebbe pietà di un uomo così ossessionato? L’abbondanza lo rende triste: bisogna compiangerlo per i beni che già possiede e più ancora per quelli che spera... Ciò che accumula per sé non è una certa quantità di frutti, ma una quantità di preoccupazioni, di dispiaceri, di terribile ansia. Si lamenta proprio come i miserabili: non parla forse come chi è ridotto in ristrettezze dalla povertà?... Il fatto che tutti i suoi magazzini siano pieni non è per lui motivo di gioia. A rodere penosamente la sua anima è quell’eccesso di ricchezza che deborda dai suoi granai. E se per caso si spandesse al di fuori e procurasse un qualche vantaggio agli indigenti? Il male di cui soffre la sua anima mi sembra paragonabile a quello dei ghiottoni che preferiscono scoppiare a forza di ingordigia piuttosto che condividere ciò che resta con coloro che si trovano nel bisogno.(Basilio, Omelia 31 sulla carità).
 
Preghiamo. Accompagna con la tua continua protezione, Signore, il popolo che hai nutrito con il pane del cielo, e rendilo degno dell’eredità eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Benedizione e saluto finale
Il Signore che ci educa alla misura delle cose create, ci colmi della misericordia,                            Amen.
Il Signore che raduna i popoli sul monte di Gerusalemme, ci colmi della sua Pace              
Il Signore che attraverso le cose della terra ci conduce a sé, ci consacri nella libertà.   
Il Signore che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, ci protegga e ci sovvenga.         
Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarvi.                                                            
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.
Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolarci.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                Amen!
 
La messa come rito «è compiuta» nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia.
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
_________________________
© Nota: Domenica 18a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Genova, Paolo Farinella, prete 01/08/2010 – San Torpete – Genova


[1] I fautori del ritorno al Messale preconciliare appartengono alla categoria dei disadattati vanitosi: strutturalmente immaturi, sono incapaci di riconoscere il loro limite umano e la provvisorietà del tempo in cui si trovano a vivere. Essi hanno bisogno di un «assoluto» che identificano in un particolare momento storico che come tale invece è transitorio, mentre essi lo incoronano come definitivo, commettendo così un peccato di idolatria e dichiarando di essere scissi, fratturati nello struttura psicologica. Il loro meccanismo di difesa è semplice: identificano la loro disarmonia spirituale con l’ortodossia della Chiesa per cui il loro modo di pensare e di concepire Dio diventa il metro unico e assoluto che essi identificano non con il Dio di Gesù Cristo «Lògos incarnato» (cf Gv 1,14), ma con la proiezione che essi fanno di Dio. Il loro Dio è una costruzione mentale o per dirla con Marx, il loro Dio è un «oppio» che soporifera le coscienze con sicurezze psichedeliche fatte di incensi e merletti rituali, chiusi in se stessi, appagati solo del loro compiersi, non importa se il popolo capisce o non capisce: ciò che conta è la «perfezione estetica» del rito in sé. Essi sanno sempre ciò che Dio vuole e non vuole, quale Chiesa è autentica e quale no, quale papa è legittimo e quale illegittimo, quale concilio è ortodosso e quale eretico. Finché la Chiesa esprime ufficialmente il loro pensiero, essi sono «cattolici di acciaio», quando la Chiesa, anche nella sua istanza massima che è il concilio ecumenico, mette in evidenza il limite del loro pensiero, chiedendo cambiamenti, essi diventano «cattolici d’acciaio inossidabile» per cui la Chiesa sbaglia, mentre loro sono e restano i guardiani dell’autentica volontà di Dio perché credono solo ed unicamente in un Dio «creato a loro immagine e somiglianza».
[2] Nel suo atteggiamento profondo è molto vicino alle posizioni dell’esistenzialismo filosofico dell’Essere e il Nulla di Jean Paul Sartre (1905-1980), della Peste o dello Straniero di Albert Camus (1913-1960).
[3] Is 28,16; Zc 10,4; Sal 118/117,22; Mc 12,10; At 4,11; Ef 2,20; 1Pt 2,6.7.
[4] In ebraico «Qohelet» deriva dal verbo «qahàl – radunare/riunire» da cui proviene «assemblea/ekklesìa-chiesa». Grammaticalmente il nome ebraico è un participio femminile (forma segolata) e dovrebbe tradursi con «colei che è convocata/chiamata», una sorta di «animatrice» della comunità riunita. In greco è stato tradotto con il termine «Ekklēsiastês», reso quindi in italiano con «Ecclesiaste», nome con cui il libro è indicato nelle Bibbie fino al 1974 (1a edizione della Bibbia Cei), da quando viene chiamato con il nome originario ebraico. Il libro si trova tra gli scritti sapienziali. Il termine Qoèlet è al tempo stesso il titolo del libro, ma anche il nome dell’autore che dice di essere stato re d’Israele (1,12), identificandosi con Salomone, ma è una finzione letteraria. Per il suo forte pessimismo e il distacco dalle coese terrene è stato assunto come una guida autorevole nell’ascesi cristiana (cf il manuale tipico dell’ascesi monastica, l’Imitazione di Cristo [I, 1-2] che, citando l’incipit di Qoelet, intitola già il capitolo I: «L’imitazione di Cristo e il disprezzo di tutte le vanità del mondo».
[5] Cf v. 2 con Gen1,1; Pr 8,25; vv. 5-6 con Gb 14,1-2; 20,8; v. 10 con Gen 6,3; Pr 10,27; Sir 18,8-9 e l’intero Salmo con Dt 32.
[6] «Limite» deriva da «límes» (antico lícmes che significa via traversa) da cui sentiero che fa da confine/frontiera. I Romani chiamarono «Límites» le pietre che segnavano i confini: non potevano essere rimosse senza commettere un delitto penalmente perseguito perché erano considerate «sacre» e affidate alla protezione di una divinità particolare che si chiamava «Términus/Lìmite», a cui erano dedicate le feste «terminália».
[7] Sulla parabola lucana che riteniamo il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura moderna della parabola del Figliol Podrigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.
[8] Vedi, sotto, il testo «Dopo la comunione». Il vangelo di Tommaso o di Didimo Thoma un apocrifo gnostico del sec. II scritto in copto, forse su un testo greco più antico. Nel 1945 una copia in copto ma del sec. IV è stata trovata nei codici di Nag Hammadi in Egitto. E’ uno dei codici più antiche che possediamo e serve quindi come riferimento per la datazione.
[9] La Preghiera eucaristica III è stata composta ex novo su richiesta di Paolo VI in attuazione alla riforma liturgica voluta dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Non ha un prefazio proprio, ma mobile e per questo, forse, ha finito per essere scelta, nella pratica, come la preghiera eucaristica della domenica.


Venerd́ 30 Luglio,2010 Ore: 14:47
 
 
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