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www.ildialogo.org Domenica 17a Tempo Ordinario -C- 25 luglio 2010,di Paolo Farinella, prete

Domenica 17a Tempo Ordinario -C- 25 luglio 2010

di Paolo Farinella, prete

Il tema della preghiera come intercessione domina sia la prima lettura che il vangelo di questa 17a domenica del tempo ordinario-C. Pregare è un mistero: intercedere per l’altro supera le leggi della natura perché il disinteresse e l’altruismo non nascono dalla carne e dal sangue (cf Gv 1,13). Quando però si ha coscienza che l’altro commette il male o vive fuori dai canoni di moralità e di giustizia comunemente condivisi, pregare diventa anche una forma di martirio che fa violenza alla indignazione istintiva di regolare i conti.
Per l’AT, come abbiamo visto nella 15a, il concetto «di prossimo» era circoscritto agli appartenenti al proprio popolo, escludendo anche i confinanti «Samaritani» (cf Gv 4,9). Nel NT è il sistema stesso della religione che viene messo in discussione perché trasferisce l’attenzione della persona dal rito da osservare e dalle norme da eseguire alle ragioni del cuore e alle motivazioni delle scelte. In questo senso si può dire che la religione interessa gli individui che messi insieme formano «massa», mentre la fede riguarda solo ed esclusivamente le «persone» che insieme formano «popolo» e «assemblea».
Abramo in forza della «benedizione» che lo ha reso fecondo di una moltitudine di popoli (cf Gen 12,1-4), vive fino il fondo il dramma dell’intercessione. Egli non assume su di sé il male di Sodoma e Gomorra, ma si fa solidale con gli eventuali giusti che vivono nelle due città dominate dal male degli abitanti. Egli sa che esse meritano il castigo, ma sa anche e ancora più profondamente che la giustizia di Dio è più grande di qualsiasi castigo. Si comincia già a prospettare nella preghiera di Abramo lo sviluppo della mediazione come sarà vissuta dai suoi discendenti e specialmente dai profeti e dagli uomini di Dio: egli anticipa Samuele, Amos e Geremia[1], ma più di tutti egli previene l’intercessore di tutti i tempi che è Mosè[2].
            Nella sua supplica, Abramo si deve fermare al numero «dieci» perché dal diluvio si salvò solo Noè e la sua famiglia, in tutto otto persone, che non furono sufficienti a salvare il mondo (cf 1Pt 3,20; cf Gen 7,1). Mosè spera anche che Lot e la sua famiglia riescano a raggiungere il numero dieci. Più tardi al tempo di Gesù si consoliderà la tradizione che vedrà nel numero di dieci maschi il numero minimo (minyan) per la preghiera rituale pubblica[3].
            Il profeta Isaia presentando la figura misteriosa del «Servo di Yhwh» (Is 53,1-12) e la teologia del post-esilio (sec- IV a.C.) supera il limite di Abramo perché il «Servo» non si limita ad intercedere per i suoi simili, ma si carica le loro iniquità e opera «la teologia della sostituzione» sacrificale perché si offre al posto dell’umanità peccatrice (cf Is 53,12). Gesù va ancora più avanti e sulla croce non si limita ad intercedere e a caricarsi dei peccati dell’umanità, ma prega per i suoi carnefici: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
            La preghiera d’intercessione non è il solo tema della liturgia di oggi, perché vi è presente anche l’altro fondamentale: il merito dei giusti che abbiamo già anticipato domenica scorsa, commentando Gen 18 e l’accoglienza di Abramo ai tre/uno misteriosi personaggi alla quercia di Mambre (Gen 18,1-10). Il merito dei giusti può essere sintetizzato così: l’umanità tutta è solidale nel bene e nel male, così che un piccolo numero di giusti può determinare la salvezza di molti. Ciascuno di noi è parte di un tutto (questo è il senso ultimo di Chiesa-Ekklesìa) e tutto si regge su ogni singola parte: ciò che viviamo come scelte, parole, gesti, liturgie, atteggiamenti, sentimenti, tutto supera la dimensione individuale per diventare strumento di corresponsabilità collettiva.
La tradizione ebraica tramanda una leggenda conosciuta come i Trentasei giusti[4]sapendo che non possono cambiare nulla: ciascuno di lo «sa» e sperimenta la lacerazione del male, ma non ha potere di cambiare le cose. Il loro dolore per il male è così grande che Dio stesso ne soffre intimante e ogni tanto per alleviarne l’atrocità sposta in avanti di un minuto l’orologio del tempo del mondo perché ai Giusti sia risparmiato almeno un minuto di pena ogni tanto. . Ogni generazione ha trentasei giusti ignoti a tutti e anche a se stessi: vivono in tutto uguale agli altri individui tranne che nella passione straziante di amore per gli altri. Finché nel mondo esisterà questo amore totale e disinteressato per gli altri, Dio ne permetterà l’esistenza e non lo distruggerà. Il loro amore è straziante perché vivono l’angoscia del male
Essi sono trentasei come gli anni di Isacco quando accetto di farsi legare (aqedàh/legatura) dal Padre per essere offerto in sacrificio a Dio (Gen 22,1-14). Per i meriti dell’obbedienza del patriarca Isacco, Dio fa sorgere in ogni generazione un giusto per ogni anno della sua vita. Essi hanno il compito di tenere legata alla terra la Shekinàh/Dimora di Dio e impedire che il peccato dell’umanità possa sconfiggere la misericordia e attirare solo la giustizia. Ogni volta che un giusto muore, nello stesso istante ne nasce uno in qualche parte del mondo[5].
Nel vangelo, lo vedremo meglio nell’omelia, Gesù insegna a pregare: non insegna una formula, ma indica un atteggiamento e sposta l’attenzione dalla persona di chi prega al cuore e alla natura di Dio: «Padre» che in Matteo diventa «Padre nostro», dove s’intersecano in forma indissolubile le tre dimensioni della relazione umana: padre-figlio-fratello. Per Gesù pregare è essere presenti e sapersi abituare a ricevere per essere in grado di condividere. Quando preghiamo per gli altri non sperimentiamo solo parte dell’angoscia del male che sovrasta, ma assumiamo l’impegno di volere essere presenti a coloro che sono schiacciati, sapendo che non potremmo mai risparmiare loro la porzione di dolore che la vita porta con sé: nessuno può togliere la sofferenza a nessuno. Siamo impotenti, ma presenti; muti, ma attenti; consapevoli e per questo rispettosi della dignità di ciascuno.
Ognuno di noi può essere, anche senza saperlo, uno di questi trentasei giusti. Ognuno di noi può avere ricevuto la vocazione di sorreggere il mondo, nonostante il male, il dolore e le ingiustizie. Ognuno di noi può diventare degno d’intercedere per gli altri, dimenticandosi di se stessi perché «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). Ognuno di noi può essere il sostengo necessario a cui Dio ha affidato la vocazione della preghiera che si compie in una dinamica di intimità e di amore che trova la sua espressione più alta nella preghiera come perdere tempo per la persona amata qui Dio e il popolo del quale abbiamo il dono di essere figli.
 
Spirito Santo, tu vuoi che tutti gli uomini siano salvi nel Nome del Signore Gesù.    Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu suscitasti in Abramo il mistero dell’intercessione per il perdono,    Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu hai visitato Sodoma e Gomorra perché si convertissero al Signore,            Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu intercedi per tutta l’umanità attraverso il merito dei Giusti,                         Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu animi e il cuore di chi si appresta a rendere grazie a Dio nostro Padre,       Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ispiri il rendimento di grazie per la fedeltà della misericordia di Dio,         Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci custodisci come opera della sua mano che Dio mai abbandona,             Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu nel battesimo ci generi «con-sepolti» e con-risuscitati» con Cristo,            Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci liberi dalle opere delle Legge per essere figli della redenzione,  Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei il maestro che ci insegna a pregare il Padre nel Nome del Figlio,           Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu suggerisci a noi il Nome di «Padre» perché lo santifichiamo nella vita,      Veni, Sancte Spiritus
Spirito Santo, tu sei l’amico che ci accoglie anche di notte per nutrire la fame di Dio,         Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu apri quando bussiamo e fai trovare quando cerchiamo il Nome di Dio,     Veni, Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la forza e il sostegno perché possiamo osare di pregare il Signore,        Veni, Sancte Spiritus.
 
Pregare è illimpidirsi lo sguardo per imparare a vedere la vita con gli occhi di Dio. L’Eucaristia è «la» preghiera per eccellenza perché contemporaneamente riceviamo in dono il Figlio nel cui Spirito lo restituiamo al Padre. Il momento culminante dell’Eucaristia non è la consacrazione che rischia di diventare un momento magico, mentre fa parte del racconto del memoriale con cui riviviamo ciò che Gesù ha fatto. Il momento supremo della preghiera eucaristica è la «dossologia» trinitaria «Per Cristo, con Cristo e in Cristo…» momento supremo in cui siamo certi che la Parola ascoltata diventa il Pane mangiato e il Sangue versato, cioè la vita stessa del Signore risorto. Questa è l’intercessione cristiana: presentare al Padre il Figlio suo Gesù perché il mondo abbia ancora l’occasione (il kairòs) di conoscerlo, amarlo e seguirlo. Per questo ‘assemblea comincia sempre nel segno trinitario:
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
Cristo Gesù è il Giusto che come Isacco si è offerto «volontariamente alla sua passione» (Preghiera eucaristica II) e alla morte. Egli è il Giusto sul cui copro è costruito il tempio della nuova umanità. Per i suoi meriti siamo stati tutti salvati e in forza del suo Spirito siamo inviati nel mondo testimoni della sua tenerezza di misericordia. Per compiere questa missione dobbiamo essere liberi da ogni condizionamento e da ogni egoismo. Per questo la Chiesa ci chiede di domandare perdono che è la sorgente della libertà. Esaminiamo la nostra coscienza.
 
[Sono necessari alcuni momenti veri di silenzio e raccoglimento per un vero esame di coscienza]
 
Signore, Dio dei nostri padri, noi ti preghiamo, esaudisci e abbi misericordia,                      Kyrie, elèison!
Cristo, che intercedi per noi presso il Padre, abbi misericordia di noi,                                  Christe, elèison!
Signore, per l’intercessione dei Giusti, esaudisci e abbi misericordia,                                   Pnèuma, elèison!
 
Dio onnipotente, supplicato da Abramo di salvare i peccatori in forza del merito dei Giusti, ravvivi in noi la fede, la speranza e l’agàpe perché possiamo fare nostro l’anelito di salvezza del mondo intero e presentarlo al Padre nel Nome del Signore Gesù che con il suo Spirito ci abilita a celebrare la santa Eucaristia, benedizione sparsa sul mondo intero. Sorga in ogni generazione una comunità di Giusti che impetrino al misericordia e la fedeltà del Padre che nella sua misericordia perdoni i peccati e guidi alla vita eterna. Convertici, o Spirito del Signore, e noi ci lasceremo convertire ora e per sempre. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. [breve pausa 1-2-3]
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi.  [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3] Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). Rivelaci, o Padre, il mistero della preghiera filiale di Cristo, nostro fratello e salvatore e donaci il tuo Spirito, perché invocandoti con fiducia e perseveranza, come egli ci ha insegnato, cresciamo nell’esperienza del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Mensa della Parola
Prima lettura Gen 18,20-21.23-32. Il brano proposto appartiene al blocco dei cc. 18-19 di Gen che è frutto di diverse tradizioni amalgamate in modo non soddisfacente nel testo attuale. La liturgia riporta una parte di questo blocco che contiene tre insegnamenti. a) tutte le nazioni, comprese le città di Sodoma e Gomorra, sono sotto il segno della benedizione di Dio (cf Gen 12,3), se solo manifestassero una fede e una conversione almeno iniziali; b) l’intercessione degli uomini di Dio che si fanno scudo di protezione dei peccatori[6] che esprime il senso della corresponsabilità; c) il merito di alcuni pochi può diventare salvezza per molti: è la circolarità della grazia che tutti avvolge perché tutti siamo figli dello stesso Padre. Sentirsi ed essere parte di un tutto è la condizione per accedere alla salvezza perché nessuno si salva da solo.
 
Dal libro della Genesi 18,20-21.23-32
In quei giorni, 20 disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. 21 Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». 22 Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. 23 Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? 24 Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? 25 Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». 26 Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». 27 Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: 28 forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». 29 Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». 30 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». 31 Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». 32 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 138/137, 1-2a; 2bcd-3; 4-6; 7ab-8. Ringraziamento a Dio per un favore ottenuto (vv. 1-3), il salmo è un invito ai re della terra perché glorifichino Dio (vv. 4-6), l’unico a cui di addice la fiducia (vv. 7-8). I salmi hanno spesso questo andamento: quando il singolo prega si sente parte di una realtà più ampia e mentre nella richiesta è ripiegato in sé, nel ringraziamento associa e invita l’universo intero perché risulti una preghiera corale, di popolo. E’ la logica della santa assemblea liturgia, che non si rivolge mai a Dio con il pronome singolare «io», ma sempre con quello plurale «noi». Anteporre gli altri al proprio interesse personale anche nella preghiera, è avere realizzato sulla terra il comandamento dell’amore.
 


Rit. Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto.
 
 


1. 1 Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
2 mi prostro verso il tuo tempio santo. Rit.
2. Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore
e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
3 Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza. Rit.
3. 6 Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
7 Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita;
contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano. Rit.
4. La tua destra mi salva.
8 Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani. Rit.


 

 
Seconda lettura Col 2,12-14. Il tema di oggi[7]di questa primazìa diventa comunione di vita nel battesimo che accomuna alla morte e alla risurrezione del Signore. E’ questo il «mistero» nascosto nei secoli che si rende presente attraverso «il suo corpo che è la Chiesa». Affermare che la Chiesa è il compimento del «mistero» di Dio («il suo corpo») è un’affermazione ardita e sconvolgente nella cultura dell’epoca. Nessuna religione ha mai detto né potrà mai dire ciò che Gesù ha detto e fatto in tutta la sua singolarità sull’intima comunione tra Dio e l’umanità intera. è il contrasto tra la centralità di Cristo e i tentativi dei Colossesi di fare una sorta di religione comune mettendo insieme elementi diversi di tutte le religioni (sincretismo). Paolo afferma il primato di Cristo che non può essere confuso con filosofie e sistemi morali, anche se degne di rispetto. Il segno
 
Dalla lettera di Paolo apostolo ai Colossesi 2,12-14
Fratelli, 12 con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. 13 Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e 14 annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. - Parola di Dio.
 
Canto al Vangelo (cf Lc 11,9; 12,30). Alleluia. Avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, / per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre! Alleluia.
 
Vangelo Lc 11,1-13. Il brano del vangelo è un vero piccolo trattato sulla preghiera, al cui centro sta la versione lucana del «Padre nostro» (vv.2-4), illustrato dalla parabola dell’amico importunato (vv. 5-8) e da una serie di considerazioni sull’atteggiamento fiducioso da tenere nella preghiera (vv. 9-13). Troppo spesso si parla della «preghiera del Signore» come di una novità del NT, mentre il suo contenuto proviene per intero dalla preghiera di Israele, in cui Gesù è stato formato ed educato. Egli prega da Ebreo che insegna ad Ebrei a rivolgersi a Dio sintetizzando l’anima della preghiera giudaica (v. più avanti Tracce di omelia). Questa preghiera centrale per noi potrebbe essere un punto di partenza per il dialogo religioso con l’Ebraismo. Fra poco anche noi pregheremo il «Padre nostro» nella lingua materna di Gesù, diventando così intimi del Signore che fu e resta Ebreo per sempre e dietro di lui, anche noi spiritualmente, lo siamo come discepoli.
 
Dal Vangelo secondo Luca 11,1-13.
1 Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 2 Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; 3 dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, 4 e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». 5  Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, 6 perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; 7 e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, 8 vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 9 Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10 Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 11 Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12 O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13 Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». - Parola del Signore.
 


 

Spunti di omelia
Premessa. Ciò che segue non è un’omelia nel senso tecnico: cioè una lettura del nostro «oggi» alla luce della Parola proclamata che diventa così criterio di discernimento per la nostra vita di fede. Questo è il compito di ogni comunità che celebra perché non vi sono due posti dove si possa fare la stessa omelia. L’omelia è prima di tutto ascolto della parola, che si fa silenzio interiore, che diventa coscienza illuminata davanti a Dio che si traduce in scelte di vita, politiche, comunitarie, sociali, ecc. E’ l’incarnazione della Parola, non una predica.
Ciò che segue, in modo particolare oggi, è uno studio ampio, anche se incompleto, sulla preghiera del Signore nella versione lucana che ci dice come sia importante non improvvisare mai la spiegazione della Parola di Dio per due motivi: Dio è una persona seria e deve essere trattato da persona seria; il popolo di Dio ha diritto ad avere il meglio degli studi e degli approfondimenti sulla Parola di Dio. Questo diritto gli deriva dalla unzione battesimale e dalla sua natura di popolo sacerdotale, regale e profetico.
Per questi succinti motivi, appena accennati, chi usa queste pagine può trovarvi l’ispirazione, uno spunto, una comprensione dei testi non usuali, ma in chiave ebraica e patristica, ancora del tutto assenti nella formazione cristiana, ma assolutamente essenziali per capire l’anima vera del Vangelo che l’ebreo Gesù.
 
Il vangelo di oggi come abbiamo già annunciato nella breve introduzione alla proclamazione può essere considerato un piccolo trattato sulla preghiera in quanto l’evangelista ci insegna non il modo di pregare, ma il contenuto della preghiera. Tutti abbiamo fatto l’esperienza che spesso abbiamo la sensazione di parlare con noi stessi piuttosto che parlare con Dio e molte persone ammettono con semplicità: «non so pregare». Altri invece vanno veloci e recitano, recitano, recitano formule su formule pensando evidentemente alla preghiera come a qualcosa di meccanico perché concepiscono il rapporto con Dio come qualcosa di «rituale»: basta compiere bene ciò che è prescritto perché la preghiera sia valida[8].
Ci fermeremo sulla preghiera di Gesù[9] cercando di capirne l’anima e le fonti giudaiche da cui proviene. In genere si dice che essa, specialmente nella versione di Matteo sia la novità cristiana, mettendo l’accento sull’intimità che è insita nella preghiera stessa attraverso l’appellativo confidenziale «Padre» in ebraico e aramaico «Abbà». Questo termine è usuale in Palestina e si usa nel linguaggio familiare sia dai bambini che dagli adulti. Non ha quindi alcuna valenza vezzeggiativa come spesso qualcuno dice, del tipo «babbo, papà, daddy». Non è nemmeno una preghiera cristiana e tanto meno una novità. Gesù è un ebreo osservante che conosce la Scrittura e la tradizione orale che due secoli dopo sfocerà nella Mishnàh scritta e quattro secoli dopo nel Talmud scritto.
Della preghiera insegnata dal Signore abbiamo quattro versioni: due sono nei vangeli canonici (Mt 6,9-13 e Lc 11,2-4) e probabilmente derivano da una fonte comune, rielaborata da due evangelisti secondo la loro particolare visione. Mettiamo a confronto le due versioni
 

(Lc 11,2b-4)
(Mt 6,9b-13)
Didachè 8,2[10]
2b Padre,
9b Padre nostro che sei nei cieli,
Padre nostro che sei in cielo
sia santificato il tuo nome,
sia santificato il tuo nome,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
10 venga il tuo regno;
venga il tuo regno;
 
sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.
sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.
3 Il pane nostro quotidiano continua a dare
a noi ogni giorno
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
4 e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ai nostri debitori
12 rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
rimetti a noi il nostro debito come noi lo rimettiamo ai nostri debitori,
e non farci entrare/esporci in tentazione.
13 e non farci entrare/esporci a tentazione,
13 e non farci entrare/esporci a tentazione,
 
ma liberaci dal male
ma liberaci dal male,
 
 
perché tuo è il regno e la gloria per tutti i secoli

 
Ci rendiamo conto delle differenze. Mt s’inserisce nella dinamica del compimento della Toràh ebraica e quindi presenta la preghiera all’interno del 1° discorso di Gesù, quello della Montagna, detto anche discorso programmatico, dove Gesù viene presentato come il nuovo Mosè di cui è superiore. E’ improbabile che Gesù abbia insegnato la preghiera all’inizio del suo ministero. In Mt la preghiera del Signore si oppone alla mentalità ebraica e pagana di moltiplicare le parole (Mt 6,7-8) perché essa è centrata nel cuore stesso di Dio. Non a caso materialmente il «Padre nostro» di Mt occupa il centro di tutto il discorso della montagna. L’evangelista Lc già al v. 1 ci presenta il contesto prossimo[11]: «Gesù si trovava in un luogo a pregare» che in Lc è una circostanza ricorrente[12]. Gesù prega a lungo e sempre ogni volta che si profila una svolta nella sua vita (v. nota 12). 
La preghiera del Signore è la sintesi/riassunto di tutta la sua predicazione, secondo la felice espressione del padre della Chiesa Tertulliano «breviarium totius evangelii»[13]Mettiamo invece in evidenza da dove Gesù ricava questa preghiera, quali sono le fonti ebraiche perché possiamo cogliere l’anima ebraica di Gesù che deve ispirare anche la nostra preghiera di Chiesa pellegrina ed escatologica..
Il Paternoster è una sintesi di formule ebraiche che per loro natura sono secche, brevi ed essenziali. Si può anzi dire che la preghiera di Gesù è una preghiera giudaica che affonda le sue radici nei contenuti del «Kaddish-Santo», preghiera in lingua aramaica che al tempo di Gesù e ancora oggi si dice nel giorno del funerale del genitore[14]. Ci limitiamo solo alla versione di Luca, rimandando il commento alla versione di Matteo a suo tempo.
 
«Padre»
L’invocazione di Dio come Padre non è una novità cristiana, ma è un uso costante ebraico di considerare Dio Padre d’Israele, suo figlio primogenito. Già nella Toràh Yhwh è esplicito a riguardo: «Voi siete figli per il Signore, vostro Dio» (Dt 14,1) a cui fa eco il profeta Geremia: «Voi mi chiamerete: Padre mio» (3,19). Israele risponde con le parole del profeta Isaia: «Tu, Signore, sei nostro padre» (Is 63,16)[15]. Ogni giorno l’Ebreo i rivolge a Dio chiamandolo col nome di «Padre» nella preghiera detta «Amidàh/In piedi»:[16]
-          nella 5a benedizione si prega: «Riportaci, o nostro Padre, sotto la tua Toràh e avvicinaci, o nostro Re, al tuo servizio»;
-          nella 6a benedizione si prega: « Padre nostro, noi abbiamo peccato; facci grazia, o nostro Re».
Nei giorni che intercorrono tra Rosh-hashanàh (Capodanno) e Yom Kippùr (Giorno di espiazione), alla preghiera precedente si aggiunge la seguente preghiera composta da ventotto invocazioni litaniche che cominciano con l’espressione «‘avinu, Malkènu – O nostro Padre, o nostro Re».
Nella 2a benedizione, detta «Ahabah rabbah - Amore grande», che si recita dopo lo Shemà Israel, si invoca Dio come «Padre». Di questa benedizione si hanno due versioni: quella scoperta nel sec. XIX nella Ghenizàh (ripostiglio) del Cairo che però riporta preghiere molto antiche e quella del «Siddur Rav Amram» (Libro [di preghiera] del Rabbino Amram)sec. VIII d. C.). Le riportiamo tutte due:
 
 

Versione breve (Ghenizàh-Ripostiglio del Cairo)
Siddur Rav Amram
Padre nostro, padre misericordioso, facci misericordia e donaci di custodire, mettere in pratica, studiare e insegnare tutte le parole dell’’insegnamento della tua Legge con amore
Nostro Padre, padre misericordioso, facci misericordia e donaci un cuore per (1) discernere, (2) comprendere, (3) ascoltare, (4) studiare, (5) insegnare, (6) custodire, (7) compiere, (8) e mettere in pratica tutte le parole dell’insegnamento della tua Legge con amore

 
Nella preghiera del mattino Dio è invocato con le parole: «Abìnu shebashammàim - Padre nostro che sei nei cieli».
Luca omette il pronome possessivo plurale «nostro», probabilmente per non urtare la sensibilità dei Greci perché per gli Ebrei Dio è Padre d’Israele in modo diretto e unico. Gli altri popoli sono figli di Dio in quanto egli è il Creatore e Provvidenza si prende cura e sostiene i popoli della terra[17]mio»[19] Lc omette anche l’espressione «che sei nei cieli» che abbiamo visto è tipicamente ebraica[20]. . Usando il termine assoluto «Padre» senza alcuna limitazione ne afferma la paternità universale e quindi restringe l’esclusività israelita[18]. Oltre alla forma collettiva «Padre nostro» nella Scrittura si trova anche la forma individuale «Padre
 
«Sia santificato il tuo Nome»[21](in gr. haghiasthêtō tò onoma sou).
Nella preghiera del Kaddish (che abbiamo riportato sopra alla nota 14) infatti si prega espressamente: «Sia magnificato e santificato il tuo Nome grande (in aramaico: Itgaddàl weitqaddàsh shemach rabbà). Anche nella preghiera del mattino si implora che «il tuo Nome, o Signore Dio nostro, sia santificato (ebraico: Shimchà Adonai Elohenu itqaddàsh). Nella Bibbia «santificare - qadàsh» è l’esatto opposto di «profanare – halàl per cui «santificare il Nome di Dio» significa renderlo immune da ogni profanazione. La profanazione maggiore è l’idolatria, il disprezzo delle norme della Toràh da parte d’Israele o l’insulto dato a Dio dagli oppressori durante l’esilio[22]. Anche Sant’Agostino parla di «non spregiare» il Nome di Dio[23].
Nella tradizione posteriore, quando gli Ebrei cominciarono ad essere perseguitati in quanto Giudei, «santificare il Nome di Dio» acquista il senso proprio di «martirio», cioè essere pronti a dare la vita per il Nome del Signore (cf Sifra, Emor XIII).
 
«Venga il tuo regno» (in gr. elthèthō hē basilèia sou)
Gesù ha iniziato la sua predicazione con l’annuncio del Regno di Dio: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi/cambiate mente e credete al vangelo» (Mc 1,15). Nella Bibbia, l’espressione «Regno di Dio»[24] indica sia un territorio geografico governato da un re, sia una qualità (durata) che comprende un periodo di tempo. Israele non dovrebbe avere bisogno di un re perché solo Dio è il suo Re: la monarchia, concessa da Dio a malincuore (1Sa 8,4-7; 10,18-19; 12,12), non attecchisce e infatti dura meno di tre secoli ed è solo fonte di guai e di distruzione. La monarchia dei re è incompatibile con il Regno di Dio. Nell’apocrifo «Ascensione di Mosè» che è contemporaneo di Gesù la «venuta del regno di Dio» significa la liberazione d’Israele da ogni dominio[25], per cui possiamo pensare che anche per Gesù il Regno di Dio fosse la liberazione dell’intera umanità da ogni forma di schiavitù.
Se in genere nell’AT il regno di Dio aveva i confini della Palestina (cf Gs 3,11; Sal 97,5; Zc 14,9), c’è pure il senso più universale perché Dio regna sulle nazioni (Sal 47,8), su tutti i popoli (Sal 82,8), sulle grandi isole (Sal 96,13; 97,1), sul mondo e i popolo (Sal 18,9). Il regno quindi ha una dimensione universale che sarà il cuore della predicazione di Isaia, Geremia e infine di Gesù e di Paolo. Per Gesù il Regno di Dio è sulla linea della netta opposizione con il regno terreno: nessun regno terreno può pretendere di identificarsi con il Regno di Dio che per sua natura si deve estendere a tutti i popoli e a tutto il creato[26]. Per Gesù il regno di Dio «è vicino» dunque è in cammino e deve ancora giungere: il Regno è la sua persona e il suo messaggio a cui bisogna prepararsi con la disponibilità dell’animo e la conversione del cuore[27].
Marcione (85-160 ca.), contemporaneo di Lc, non ammettendo una continuità tra Antico Nuovo Testamento, ma opponendoli in modo esasperato, traduce il versetto «venga il tuo regno» con «venga il suo Santo Spirito e ci purifichi» che è una vera e propria ideologizzazione del vangelo.
Nella preghiera ebraica del «Kaddish» si prega con queste parole: «Regni il suo regno durante la nostra vita, nei giorni nostri, durante la vita di tutta la famiglia d’Israele»; così pure nella preghiera di «Amidàh» nella 11 a benedizione: «Fa tornare i nostri Giudici come una volta, i nostri consiglieri come nei tempi antichi. Liberaci dall’afflizione e dalla tristezza. Regna tu solo su di noi, o Signore, ed estendi su di noi la tua grazia, la tua misericordia e la tua giustizia». Nel rituale ebraico, alla preghiera del mattino, nella parte finale, detta «‘allenu – a noi», al secondo paragrafo «‘al-ken – così», si prega: «Per la venuta del tuo regno divenga dritto [= perfetto] il mondo, o Onnipotente. Tutti i figli di carne [= ogni vivente] invocherà il tuo Nome».
 
«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (omessa da Lc)[28] .
 
«Il pane di noi quotidiano continua a dare a noi ogni giorno» (gr. ton àrtōn hēmôn tôn epioúsion dìdou hemîn to kath’hemèran)
Nelle due precedenti invocazioni che riguardano Dio (il suo Nome , cioè l’onorabilità e il suo Regno, cioè la sua sovranità), all’inizio della frase è messo il verbo per dare importanza all’azione in movimento; nella terza invocazione che riguarda gli uomini, Lc cambia e pone il sostantivo prima del verbo, mettendo in evidenza quindi il «pane» in se stesso: «il pane di noi quotidiano». L’espressione «quotidiano - epioúsion» è usata sia Mt (6,11) che da Lc e si trova solo qui e quindi non si hanno testi di riferimento[29]. Nessuna soluzione prospettata dagli studiosi è soddisfacente e tutte le soluzioni sono insufficienti, per cui anche noi non ci avventuriamo in interpretazioni suggestive.
La richiesta riguarda certamente il pane della mensa perché è chiesto per «noi» e potrebbe riguardare quanto è necessario per la vita[30]diversa da quella di Mt perché Lc aggiunge l’espressione «giorno per giorno». Troviamo qui un riflesso del sapiente che prega: «Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: tieni lontane da me la falsità e la menzogna, non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: Chi è il Signore? Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio» (Pr 30,7-9). La preghiera di Gesù può anche essere una risposta all’invito sapienziale: «Non ti vantare del domani, / perché non sai neppure che cosa genera l’oggi» (Pr 27,1-2)[31].. La versione di Lc è
Cosa dobbiamo pensare quando ci riferiamo al pane quotidiano? Alla luce della vita di Gesù e del mistero pasquale, possiamo dire che si tratta del pane della mensa, memori che il Signore ci ha insegnato ad abbandonarci alla Provvidenza di Dio, sull’esempio degli uccelli e dei gigli perché il «Padre vostro sa che voi avete bisogno di tutte queste cose» (cf Lc 12,22-30, qui 30) che comprendono tutto ciò che è necessario alla vita: il buon nome, la dignità, la libertà, l’amore, il vestito, la casa, il lavoro, la conoscenza, l’amicizia, la propria realizzazione, ecc. E’ il pane dell’eucaristia come è descritto in dettaglio in Gv 6, dove è Gesù stesso a presentarsi come pane: «Io sono il Pane della vita» (Gv 6,35).
Con questa identificazione che Gesù fa di sé con il pane si pone sulla scia della Sapienza che invita alla sua mensa: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,5; cf Sir 24,20-21). Per il Siracide l’Israelita che accoglie la Toràh e la vive, somiglia alla sposa accolta dallo sposo, sarà nutrico «con il pane dell’intelligenza» e berrà l’acqua della sapienza (cf Sir 15,1-10, qui 3).
Il pane necessario significa anche che dobbiamo cercare ciò che è sufficiente per noi che significa esplicitamente lasciare che anche gli altri abbiano il necessario, altrimenti noi viviamo di superfluo e gli altri muoiono per mancanza del necessario. E’ la misura della nostra interdipendenza mondiale perché la questione del pane che comprende anche l’acqua è una questione che riguarda l’umanità intera e non solo una parte che si appropria di privilegi che nessuno le ha concesso né poteva concedere.
Nel rituale ebraico, nelle benedizione che precedono e seguono i pasti, il capofamiglia prega: «Padre nostro, Nostro Dio, dacci il nostro nutrimento e provvedi alle nostre necessità» (cf Es 16,15-19; Talmud, Sotàh 48b).
 
«E perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ai nostri debitori»
Anche in questa richiesta vi sono alcune varianti tra Lc e Mt (6,12). Lc parla di «peccati», Mt di «debiti». La Toràh nell’istituzione del «giubileo» prevedeva il condono di tutti id ebiti ogni sette anni e in modo particolari ogni settanta settimane di anni, cioè ogni mezzo secolo (Dt 15,1-11) perché così s’impediva l’accumulo terriero e affermava che gli uomini sono usufruttuari della terra, non padroni. A queste scadenze si azzeravano tutti i debiti e tutte le proprietà tornavano ai proprietari di prima. Questo teoricamente, praticamente si trovavano le scappatoie per non osservare questo precetto. che pochi anni prima che nascesse Gesù il rabbi Hillel aveva dichiarato decaduta. Il termine «debito» ha una valenza sociale perché richiama una relazione, mentre il termine «peccato» ha un senso più religioso e personale.
In aramaico, la parola «hobayyàh» significa tanto debito quanto peccato. Sia Mt che Lc dipendono dalla stessa fonte, ma mentre Mt mantiene la traduzione letterale per i Giudei che conoscono la Toràh, Lc ne dà una versione comprensibile ad un uditorio che non sa nulla della Toràh: per i Greci è più facile comprendere il senso del peccato come scelta consapevole in contrasto con il vangelo che non di debiti in relazione al giubileo[32]. Nell’AT c’è una costante richiesta a Dio di perdonare i peccati e i torti ricevuti[33]. L’invocazione della preghiera di Gesù è molto vicina al Siracide: « 2 Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. 3 Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? 4 Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?» (Sir 28,2-9, qui 2-4). Nel Midrash «Sifré» a Dt 13,18 si legge: «Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te».
Nella 6a benedizione della preghiera per eccellenza «Amidàh/ in piedi o Shemòne Esre [Diciotto benedizioni] l’ebreo prega:«Perdonaci, Padre nostro, noi abbiamo peccato; facci grazia, o nostro Re, perché abbiamo peccato. Tu sei buono e misericordioso».
Un’altra differenza tra Lc e Mt sta nella motivazione di fondo della richiesta di perdono. Mt prega: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12), dove il perdono di Dio è commisurato al perdono degli uomini, in forza anche del dettato «col giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,2). In sostanza si autorizza Dio a non esercitare il perdono se prima non vi è eseguito dagli uomini che diventa così misura del perdono di Dio. Lc invece usa la doppia congiunzione «kài gàr» (che alla lettera significa «e infatti») con valore causale che potrebbe tradursi con «affinché»: «perdonaci affinché possiamo perdonare». In questo senso il perdono di Dio diventa causa e forza per il perdono vicendevole che non è possibile o quanto meno è difficile senza il perdono di Dio. Si chiede perdono «perché» si abbia la forza di perdonare. In questo modo il perdono degli uomini diventa il «sacramento», il segno del perdono di Dio. Un atto di amore ricevuto e condiviso.
 
«E non ci indurre in tentazione» (Bibbia-Cei [2008]: «Non abbandonarci alla tentazione»)
Espressione dura che ha sempre creato qualche problema di interpretazione come se fosse Dio stesso a «condurre» in tentazione. Una probabile spia di questa difficoltà si trova, nella lettera attribuita san Giacomo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce» (Gc 1,13-14).
Per capire il termine «peirasmòn» che viene tradotto con «tentazione» bisogna rifarsi al contesto del tempo di Gesù. La Palestina è occupa dai Romani e di tanto in tanto sorgono insurrezioni e rivolte. Sono tempi difficili in cui coloro che sono in attesa del Regno di Dio pensano che coinciderà con la liberazione dall’oppressione e dal dominio straniero. Chiunque fosse sospettato poteva essere arrestato, torturato e costretto a rinnegare anche il Nome di Dio.
In questo contesto il senso della frase «Non c’indurre in tentazione» significa soltanto «non permettere che siamo indotti in tentazione» (Marcione, Vetus Latina, S. Cipriano, S. Ambrogio, S. Agostino), oppure potrebbe significare «nel momento della tentazione non permettere che soccombiamo»[34]Chi è vicino a me è vicino al fuoco. Chi è lontano da me, è lontano dal regno»[35]. Stare con Gesù significa esporsi alla persecuzione e anche all’arresto e quindi potrebbe essere un riferimento a ciò che sta per accadere fino alla morte violenta. Il padre della Chiesa Origene attribuisce a Gesù un detto che non si trova nei vangeli: «
            In ogni modo un fatto resta certo: Gesù ci parla della tentazione come di una realtà che appartiene alla vita umana e alla esperienza di fede per cui l’invito: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Egli stesso è tentato e sopraffatto da sentimenti profondi di solitudine nelle tentazioni del deserto dove è lo Spirito a «spingerlo» dentro le tentazioni di Satana (Lc 4,1-2; Mt 4,1; Mc 1-12-13) e di tristezza e panico poco prima della morte (Mt 26,37-38); anche i suoi discepoli vivono il momento della prova molto grave se Gesù deve pregare perché Pietro non perda la fede e possa confermare i suoi fratelli (Lc 22,31-32).
Oggi siamo tentati in vari modi e specialmente sul non-senso di Dio. Il mondo vive come se Dio no ci fosse e i cristiani si adeguano a questo mondo senza Dio e ordinano la loro vita secondo modelli di consumo che gridano vendetta di fronte alla giustizia e sono un’offesa del Nome di Dio: essi non sentono più di essere dentro una sfida, ma sono vittime e causa della insignificanza di Dio e quindi di se stessi. Dio è superfluo, la vita è gioco, varietà, superficialità. Bisogna adeguarsi. «Non permettere che soccombiamo alla tentazione» potrebbe significare di chiedere la coerenza dello spirito perché quando il Figlio dell’Uomo tornerà sulla terra possa trovarci ancora capaci di credere e di sperare: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra» (Lc 18,8).
 
«Ma liberaci dal male-poneroû»
Da un punto di vista grammaticale può significa sia «male»[36] che «maligno». Gesù è troppo concreto perché possa esprimere qui un concetto astratto, e nello stesso tempo si deve escludere la personificazione del male, il Maligno, perché è fuori da ogni contesto. In base a Gen 2,9, il male è il peccato da bisogna convertirsi e al tempo di Gesù come ancora oggi, nessuna preghiera ebraica chiede la liberazione dal Maligno. La chiave di comprensione di questa ultima richiesta nella versione di Lc si ha nel Sal 140/139,2: «Salvami, Signore, dall’uomo malvagio- poneroû ». E’ possibile che il «malvagio» possa essere sia il sodato romano che il Giudeo collaborazionista che veniva indicato come «pubblicano» e quindi peccatore per eccellenza perché tradiva il suo popolo, collaborava con l’oppressore, angariava la sua gente riscotendo le tasse e si arricchiva anche facendo tutto questo male. In bocca a Gesù questa richiesta poteva significa: libera il mio popolo da ogni malvagità sia esterna (dominazione romana) sia interna apostasia della fede.
Sulle cinque richieste di Lc le prime due sono centrate in Dio (la prima riguarda l’onorabilità del suo Nome-Persona; la seconda il Regno) e tre sulla persona del richiedente (pane, perdono, fedeltà). Questo stesso ordine si trova molto spesso nelle preghiere ebraiche. La versione della Didachè ha un’aggiunta in forma di lode (dossologia): «perché tuo è il regno e la gloria per tutti i secoli» che si ispira a 1Cr 29,11 dove Davide innalza la sua preghiera con queste parole: « Tua, Signore, è la grandezza, la potenza, lo splendore, la gloria e la maestà: perché tutto, nei cieli e sulla terra, è tuo. Tuo è il regno, Signore: ti innalzi sovrano sopra ogni cosa». Molte preghiere ebraiche terminano con l’espressione «le’olàm wa’ed – nei secoli, in eterno». Anche Francesco di Assisi s’inserisce in questa tradizione nel Cantico delle creature: «Tue so’ le laudi, la gloria et l’honore».
Il Padre nostro diventa così un punto di partenza nel dialogo tra Cristianesimo ed Ebraismo, perché simile è la preghiera del cuore formulata spesso, come abbiamo visto, con identiche parole. In un tempo in cui molti si affannano a parlare di «radici cristiane» senza sapere di cosa parlano, è importante scendere in profondità e pescare nel pozzo profondo della Tradizione che non si ferma né al concilio Vaticano I, né a quello di Trento, ma va molto indietro fino alle origini, come si ha insegnato ed educato il concilio ecumenico Vaticano II che ha restituito ai credenti l’integrità della Parola di Dio e l’amore per il popolo ebraico. Da questo popolo provengono il Signore, la Madre, gli apostoli e le apostole della fede cristiana che noi ci gloriamo di professare nella Chiesa «sacramento universale di salvezza» come è stato dipinto e descritto dal concilio ecumenico Vaticano II.
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

 
[breve pausa 1-2-3]
 
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.  [breve pausa 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti.         [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale [intenzioni libere: è il momento in cui l’assemblea espone coralmente a Dio le richieste dei partecipanti]
 
Preghiera sulle offerte. Accetta, Signore, le offerte che la tua generosità ha messo nelle nostre mani: il tuo Spirito, operante nei santi misteri, santifichi la nostra vita e ci guidi alla felicità senza fine. Per Cristo nostro Signore. Amen.
PREGHIERA EUCARISTICA IV[37]
   
Il Signore sia con voi.             E con il tuo spirito.    In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.        È cosa buona e giusta.
   
E’ veramente giusto renderti grazie, è bello cantare la tua gloria, Padre santo, unico Dio vivo e vero: prima del tempo e in eterno tu sei, nel tuo regno di luce infinita.
Benedetto è il regno del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen. (dalla Liturgia di San Basilio il Grande).
 
Tu solo sei buono e fonte della vita, e hai dato origine all’universo, per effondere il tuo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della tua luce.
Benedetto l’ingresso dei tuoi santi. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel Nome del Signore. Kyrie elèison! Christe, elèison. Pnèuma, elèison.
 
Schiere innumerevoli di angeli stanno davanti a te per servirti, contemplano la gloria del tuo volto, e giorno e notte cantano la tua lode.
Signore, Dio nostro, tu hai costituito nei cieli schiere ed eserciti di angeli e arcangeli per la liturgia della tua gloria: insieme ad essi entriamo nella Santa Assemblea e glorifichiamo insieme la tua bontà. Osanna nell’alto dei cieli (cf Liturgia di San Basilio il Grande).
 
Insieme con loro anche noi, fatti voce di ogni creatura, esultanti proclamiamo:
Santo Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. Poiché a te spetta ogni gloria, onore e adorazione: al Padre, e al Figlio, e al santo Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen (cf Liturgia di San Basilio il Grande).
 
Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza: tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore.
Amiamoci gli uni gli altri, affinché in concordia di animi possiamo confessare che tu, o Dio, sei il Signore creatore e Padre che hai inviato il tuo Figlio Gesù che ci ha dato il suo Spirito. Noi ti lodiamo, Santa Trinità, unico Dio (cf Liturgia di San Basilio il Grande).
 
Atua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani operose hai affidato l’universo perché nell’obbedienza a te, suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato.
Ti rendiamo grazie, Signore, al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà perché non abbandoni mai l’opera delle tue mani (cf Sal 138/137,2.8).
 
E quando, per la sua disobbedienza, l’uomo perse la tua amicizia, tu non l’hai abbandonato in potere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare.
 Il nostro padre Abramo pregava per i giusti perché i loro meriti salvassero anche i malvagi, anticipando così il vangelo del perdono annunciato da Cristo (cf Gen 18,23.24).
 
Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza, e per mezzo dei profeti hai insegnato a sperare nella salvezza.
Tu, o Signore, promettesti ad Abramo: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo» (Gen 18,26).
 
Padre santo, hai tanto amato il mondo da mandare a noi, nella pienezza dei tempi, il tuo unico Figlio come salvatore.
«Abramo riprese e disse: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città» (Gen 18,27.28).
 
Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo ed è nato dalla Vergine Maria; ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana.
«Rispose [il Signore]: “Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque”» (cf Gen 18,28).
 
Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia.
«Abramo riprese ancora a parlargli e disse: “Forse là se ne troveranno quaranta”. Rispose: “Non lo farò, per riguardo a quei quaranta”» (Gen 18,29.30).
 
Per attuare il tuo disegno di redenzione si consegnò volontariamente alla morte, e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.
«Riprese [Abramo]: “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta”. Rispose: “Non lo farò, se ve ne troverò trenta”» (Gen 18,30).
 
E perché non viviamo più per noi stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi, ha mandato, o Padre, lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione.
«Riprese [Abramo]: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti”. Rispose: “Non la distruggerò per riguardo a quei venti”» (Gen 18,31).
 
Ora ti preghiamo, Padre: lo Spirito Santo santifichi questi doni perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, nostro Signore, nella celebrazione di questo grande mistero, che ci ha lasciato in segno di eterna alleanza.
«Riprese: “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci”. Rispose: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”» (Gen 18,32).
 
Egli, venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine; e mentre cenava con loro, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.
Con Cristo siamo stati con-sepolti nel battesimo, in lui siamo anche stati con-risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti (cf Col 2,12).
 
Allo stesso modo, prese il calice del vino e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati.
Con lui Dio ha dato vita anche a noi, che eravamo morti a causa delle colpe, perdonandoci tutte le colpe … Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce (Col 2,13.14).
 
Fate questo in memoria di me.
Noi celebriamo il memoriale del Signore Gesù morto e risorto che dona lo Spirito di Dio.
 
Mistero della fede.
Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta.
 
In questo memoriale della nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo, dove siede alla tua destra; e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.
Gesù si trovava in un luogo a pregare: tu, Padre, sei in me e io in te. Ecco io vengo per fare la tua volontà.
 
Guarda con amore, o Dio, la vittima che tu stesso hai preparato per la tua Chiesa; e a tutti coloro che mangeranno di quest’unico pane e berranno di quest’unico calice, concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo, diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria.
Un discepolo disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (Lc 11,1).
Ora, Padre, ricordati di tutti quelli per i quali noi ti offriamo questo sacrificio: del tuo servo e nostro Papa Benedetto, del nostro Vescovo Angelo, del collegio episcopale, di tutto il clero, di coloro che si uniscono alla nostra offerta, dei presenti e del tuo popolo e di tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero.
«[Il Signore] disse: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno” (Lc 11,2).
 
Ricordati anche dei nostri fratelli che sono morti nella pace del tuo Cristo, e di tutti i defunti, dei quali tu solo hai conosciuto la fede.
«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11,3-4).
 
Padre misericordioso concedi a noi, tuoi figli, di ottenere con la beata Maria Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e i santi, l’eredità eterna del tuo regno, dove con tutte le creature, liberate dalla corruzione del peccato e della morte, canteremo la tua gloria, in Cristo nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene.
«[Il Signore concluse]: “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”» (Lc 11,13).
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,  a te, Dio Padre onnipotente,  nell’unità dello Spirito Santo,  ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

 
Antifona alla comunione Mt 5,7-8
Beati misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
 
Dopo la Comunione
 
Oggi come riflessione dopo la Comunione non troviamo parole più belle e complete di quelle di dom Pedro Casaldaliga, profeta del nostro tempo e coscienza limpida di tutta l’America Latina, vescovo emerito di São Felix de Araguaia in Brasile. 
 
«Fratelli nostri che vivete nel primo mondo: affinché il suo nome non venga ingiuriato, affinché venga a noi il suo Regno, e sia fatta la sua volontà, non solo in cielo, ma anche in terra, rispettate il nostro pane quotidiano, rinunciando, voi, allo sfruttamento quotidiano; non fate di tutto per riscuotere il debito che non abbiamo fatto e che vi stanno pagando i nostri bambini, i nostri affamati, i nostri morti; non cadete più nella tentazione del lucro, del razzismo, della guerra; noi faremo il possibile per non cadere nella tentazione dell’odio o della sottomissione, e liberiamoci, gli uni gli altri, da ogni male.  Solo così potremo recitare assieme la preghiera della famiglia che il fratello Gesù ci insegnò: «Padre nostro, Madre nostra, che sei in cielo e sei in terra.» 
 
Preghiamo.O Dio nostro Padre, che ci hai dato la grazia di partecipare al mistero eucaristico, memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio, fa’ che questo dono del suo ineffabile amore giovi sempre per la nostra salvezza. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore è con voi ora e sempre.      E con il tuo spirito.
Il Signore vi benedica e vi preservi in nome della fedeltà e dei meriti del Patriarca Abramo,           Amen.
Il Signore ci manifesti il suo volto in nome della fedeltà e dei meriti del Patriarca Isacco.        
Il Signore rivolga il suo volto si di voi in nome della fedeltà e dei meriti del Patriarca Giacobbe.
Il Signore che dona la pace al popolo dell’alleanza, Israele e la Chiesa, benedica il mondo.
Il Signore sia sempre davanti a voi per guidarvi.                                                                  
Il Signore sia sempre dietro di noi per difenderci dal male.
Il Signore sia sempre accanto a voi per confortarvi e consolarvi.                  Amen.
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.             Amen.
 
La messa come rito «si compie» nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia.
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
 
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© Nota: Domenica 17a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
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Genova, Paolo Farinella, prete 25/07/2010 – San Torpete – Genova
 
Appendice
Per la maturazione personale
Premessa
Qualcosa di simile all’intercessione di Abramo è avvenuto con i sette monaci trappisti, cistercensi di stretta osservanza, sequestrati e uccisi da un commando fondamentalista islamico in Algeria a Médéa, il 21 maggio ‘96. Conoscerli e imparare da essi è forse il modo più giusto per dare senso al nostro tempo. Monaco in greco monos, significa unico/solo. Sempre, abbiamo almeno vagamente pensato che si trattasse di una vocazione di separazione dal mondo, di isolamento in una interiorità mistica alla ricerca dell’Unico, dell’Assoluto. Dimentichi del mondo e delle sue cure.
 
Da «I sette monaci di Tibhirine» Intervento di don Sergio Sala sulla Rivista «Una Città», all’indirizzo: www.unacitta.it/paginericordarsi/ ricdonsergio.html
 
Leggendo i diari di padre Christian [il superiore del monastero] siamo contraddetti: «Ho dato la mia vita a Dio e a questo paese». Un monaco innamorato di un popolo, di cui condivide fino in fondo le prove e la storia. Fino a legarsi religiosamente con un voto di stabilità al luogo e alla comunità, con una fedeltà che costerà tutto, fino all’accettazione della morte. Un altro di loro, padre Christophe, giovane rivoluzionario del maggio francese del ‘68, aveva scritto: “Un monaco è notturno. Come giungere all’intercessione se non smetto di preoccuparmi di me stesso?” Anche per lui la vita aveva senso solo se donata; il Dio del silenzio e della notte rinvia sempre agli uomini del giorno, della vita. Anche se questo dono di sé dev’essere consumato nella pazienza del quotidiano: “Noi abbiamo dato il nostro cuore ‘all’ingrosso’ a Dio, e ci costa molto che ce lo prenda al dettaglio”. Per comprendere la profondità di questo impegno, conviene leggere il testo della lettera che padre Christian intendeva inviare a Sayat-Attya, il capo del Gia (gruppo islamico armato) che si era presentato al monastero la notte di Natale del ‘93. “Fratello, permetti che mi rivolga anche a te, da uomo a uomo, da credente a credente. Nel conflitto che il paese vive attualmente, ci sembra impossibile prendere partito. La nostra condizione di monaci ci lega alla scelta che Dio ha fatto di noi, che è per noi la preghiera e la vita semplice, il lavoro manuale, I’accoglienza e la condivisione con tutti, soprattutto i più poveri. Queste ragioni di vivere sono una scelta libera per ciascuno di noi. Esse ci impegnano fino alla morte. Voi mi capirete. E che l’Unico di ogni vita ci conduca! Amen”. Quando il gruppo si era presentato armato, il padre priore l’aveva affrontato: “Questa è una casa di pace, mai nessuno è entrato qui con le armi. Se volete parlare con noi, entrate, ma lasciate le armi fuori”. Così, si tirarono in disparte e si misero a parlare vicino al portone che dava sulla via esterna. Il gruppo armato cercava di obbligarli a “collaborare” richiedendo aiuto medico, appoggio economico e logistico: “Noi non vogliamo questo governo, che è corrotto e senza religione. Bisogna instaurare un governo islamico”. E padre Christian aveva risposto: “Frère Luc potrà curare i malati o i feriti che verranno al dispensario, per questo non c’è difficoltà, perché Frère Luc cura tutti quelli che hanno bisogno, senza differenze. E per le medicine, egli dà a ogni malato ciò che gli è necessario”. Dopo questa prima visita, conclusa con un “ritorneremo” che non lasciava dubbi, il prefetto di Médéa aveva offerto una protezione armata, ma i monaci avevano rifiutato perché volevano essere un segno di pace per tutti. Avevano solo accettato di chiudere le porte dalle 17,30 alle 7,30 del mattino e di avere una linea telefonica collegata all’abitazione del guardiano. Già in precedenza, il Nunzio Apostolico li aveva invitati a trasferirsi per sicurezza alla nunziatura, ma anche allora avevano rifiutato. Questa volta però il pericolo era divenuto più immediato e concreto. E più terribile: si sapeva bene che Sayat-Attya, dieci giorni prima, aveva dato l’ordine di sgozzare dodici croati cristiani come rappresaglia per i musulmani maltrattati in Bosnia. In comunità era maturata in tutti la ferma decisione di non partecipare in alcun modo alla lotta e di riconfermare la scelta religiosa di stabilità. Un segno chiaro di vicinanza e condivisione al popolo algerino e una testimonianza di comunione per la piccola chiesa locale: restare come profeti disarmati e non protetti per via del Vangelo. Aveva scritto padre Christian: “Presenza della morte. Tradizionalmente essa è una compagna assidua del monaco. Questa compagnia ha acquistato una incisività più concreta con le minacce dirette e gli assassinii avvenuti nelle vicinanze, certe visite... Si offre a noi come un test di verità utile, e non molto comodo”. Sapevano bene che non potevano partire perché il popolo aveva bisogno di speranza. Moussà glielo aveva ricordato: “Se voi partite, il vostro sperare ci mancherà, e noi perderemo il nostro”. La speranza contro la paura dell’indomani, della morte, della guerra civile; dell’islam di quei credenti tentati dall’intolleranza. Si è arrivati così al marzo del ‘96, quando un commando di una ventina di terroristi è entrato nel monastero e ha sequestrato i sette monaci. Un mese dopo, con il comunicato n.43, l’emiro del Gia afferma: “I monaci che vivono con la gente la allontanano dal cammino di Dio, incitandola ad abbracciare il Vangelo”. Poi viene l’avvertimento: se i prigionieri del Gia non verranno liberati, i monaci saranno uccisi. “A voi la scelta. Se voi mettete in libertà, noi metteremo in libertà. Se voi rifiutate, noi sgozzeremo. Lode a Dio”. Davanti alla nettezza spietata di questo messaggio, torna alla mente quanto padre Christian aveva scritto poco più di un anno prima: “Non c’è amore più grande che donare la vita per coloro che si amano. Queste parole di Gesù non illuminano solo l’ultimo giorno della vita. Nelle nostre relazioni quotidiane, scegliamo apertamente il partito dell’amore, del perdono, della comunione, contro l’odio, la vendetta, la violenza” (lett.15.5.94) “La vita del monaco non è che una lunga educazione alla logica del Regno di Dio. Non c’è vero amor di Dio, senza acconsentire, senza riserve, alla morte” (19.3.95). E con maggior forza, le splendide parole del suo testamento. Erano monaci preparati alla morte e pronti al perdono. Infine, il comunicato n.44, l’ultimo: “Il Presidente francese e il suo Ministero degli affari esteri hanno dichiarato che non avrebbero dialogato, né negoziato con il Gia. Essi hanno interrotto quello che avevano cominciato e noi abbiamo tagliato la gola ai sette monaci, fedeli al nostro impegno. Lode a Dio. Ciò è stato eseguito questa mattina, 21 maggio 1996”. La durezza di questo testo non ci deve impedire di ascoltare la voce più alta delle vittime. Proprio il giorno prima di essere sequestrato, Frère Luc, il medico del gruppo, aveva scritto: “Qui la violenza è sempre allo stesso livello. Come venirne fuori? Non penso che la violenza si possa estirpare con la violenza. Non possiamo esistere come uomini se non accettando di farci immagine dell’Amore, quale si è manifestato nel Cristo che ha voluto subire la sorte dell’ingiusto”. I sette monaci erano quindi consapevolmente pronti a seguire l’esempio delle altre vittime degli ultimi anni: dodici croati, quattro suore, quattro Padri Bianchi, poi ancora due suore e infine due “piccole sorelle di Gesù”. Voci che gridano più forte dei loro assassini, e che dicono a tutti: “Basta col sangue!”.
L’offerta dei monaci, la loro volontà di rimanere in quella terra anche a rischio della vita, non può assolutamente essere letta come atto di accusa per nessuno. I martiri non reclamano vendetta, chiamano a cambiar vita; trascendono i nostri modi di vedere, vedono più in là di noi. Meno che mai, poi, questi martiri d’Algeria si fanno accusatori di un popolo: i terroristi non sono quel popolo che poi ha seguito commosso i funerali, semplici e prudenti, che hanno sepolto quei corpi nel giardino del monastero. Musulmani che piangevano cristiani: “So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti”. E ancora: “Ecco che potrò, se piace a Dio, contemplare con Lui i suoi figli dell’islam come Lui li vede, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione giocando con le differenze”. E questo vale anche per i cristiani d’Europa.
 
Testamento di frère Christian de Chergé monaco trappista nel monastero di Tibhirine, in Algeria, redatto dopo la prima minaccia di morte (Comunità di Bose, a cura di, Più forti dell’odio, Piemme Edizioni, Casale Monferrato, 1997).
Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah. Christian. Algeri, 1 dicembre 1993 - Tibhirine, 1 gennaio 1994.
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© Nota: Supplemento a Domenica 17a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
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Genova, Paolo Farinella, prete 25/07/2010 – San Torpete – Genova
 


[1] Cf 1Sa 7,5; 12,19-23; 15,11; Ger 7,16; 11,14; 15,1; Am 7,1-9.
[2] Cf Es 32,30-34; Nm 11,2.11-15; 6,20-24; 14,13-19; 21,4-7.
[3] Per dare forza agli sviluppi successivi se ne ascrive l’origine nella vita del fondatore per cui qui abbiamo l’esempio di uno sviluppo all’indietro, proiettando nella vita del patriarca ciò che Israele ha codificato nei secoli successivi.
[4] Midrash Genesi Rabbàh XLIX,3 (per altre fonti cf L. Ginzberg, Le Leggende degli Ebrei, vol. II, Adelphi, Milano 1997, 259 nota 162. In Midrash Genesi Rabbàh XLIX,14; Midrash Tanhuma B. (o Yalammedènu Rabbenu C’insegnarono i nostri padri ), I,92-93; ‘Avot di Rabbi Natan (ARN),33 e altri passi si dice che la Shekinàh rimase presso Abramo fino alla fine della sua intercessione a favore dei peccatori, per cui Gen 18,22 deve intendersi così: «Il Signore rimase davanti ad Abramo».
[5] La leggenda nasce da un passo del Talmud (trattato Sanhedrin/Sinedrio 97b e Sukkàh/Capanna 45a): «Rabbi Abaye disse: “Nel mondo non ci sono meno di trentasei persone giuste per ogni generazione sui quali resta la Shekinàh; per questo è scritto [Is 30,18]: Beati coloro che sperano in lui. Quest’ultima parola, il pronome lui, in ebraico si scrive con consonanti lamed e waw = «L-W» che hanno il valore numerico di «36» («L» = 30 e «W» = 6). Il trattato della Cabbalàh Tikkuné Zohar (cap. XXI) invece va oltre e in base a Os 10,2 (“Il loro cuore [ebr. lebam] è diviso”) deduce che l’espressione «loro cuore/lebam» ha il valore numerico di 72 [L = 30; B = 2; M = 40] cioè il 36+ 36. Ciò significa che vi sono nel mondo 72 giusti: 36 nella Terra santa e 36 fuori di essa, nella Diaspora.
[6] Esempi straordinari di intercessione sono Samuele (1Sa 7,5; 12,19-23; 15,11); Amos (7,1-9), Geremia (7,16; 11,14; 15,1), ecc. Su tutti si erge Mosè, l’intercessore per eccellenza (Es 32,30-34; Nm 11,2.11-15; 6,20-24; 14,13-19; 21,4-7). Un intercessore a sé è il Servo di Yhwh che anticipa l’ultima e definitiva intercessione del Figlio del Padre (cf Is 53,12; Lc 23,34).
[7] La città di Colosse, di cui rimangono solo rovine, è situata nell’antica Frigia, oggi una regione sud-occidentale della Turchia sulle rive del fiume Lico, affluente del Meandro (Büyük Menderes). Cittadina in declino durante l’occupazione romana, ma punto strategico di congiunzione tra Efeso (km 200 a ovest) e le province orientali dell’Eufrate (km 500 a est), Colossi era un luogo di passaggio e quindi incrocio di molte culture, da cui la tendenza al sincretismo religioso che Paolo combatte. La lettera ai Colossesi, che è un canovaccio dottrinale della lettera agli Efesini (opera dello stesso autore), risponde alle notizie portate da èpafra, originario di Colosse e collaboratore di Paolo.E’ scritta nell’estate del 62 durante la prima prigionia di Paolo secondo i fautori della paternità paolina oppure dopo il 67 (anno della morte di Paolo) da un discepolo dell’apostolo che ne continua l’insegnamento, secondo gli studiosi che negano la paternità paolina. Questa seconda ipotesi è la più probabile sia per il vocabolario che per la dottrina che non appartengono direttamente alla penna di Paolo.
[8] Il ritorno al Messale di Pio V in contrapposizione a quello di Paolo VI che attua la riforma liturgica conciliare, è legata a questa seconda visione della liturgia: assistere, anche passivamente e compiere con esattezza «le rubriche», stare raccolti nel proprio intimismo ed estraniarsi da ogni altra presenza circostante. In una chiesa così, anche se fosse piena, sarebbe vuota di popolo e carica di individualità separate: è lo psicologismo della preghiera come formula magica, non è la voce corale della Chiesa celebrante. La liturgia di oggi pertanto ci apre alla dimensione cristiana e cristologica della preghiera.
[9] J. Carmignac, Recherches sur le Notre Père, Paris 1969; J. Dupont-P. Bonnard, «Le Notre Père: notes exégétiques» in La Maison-Dieu 85 (1966) 7-35; J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1972, spec. 222-233); R.Fabris, Padre nostro, preghiera dentro la vita, Roma 1984; B. Maggioni, Padre nostro, (Sestante 7), Milano 1995. H. Schürmann, Il Padre Nostro alla luce della predicazione di Gesù, Roma 1967.
[10] E’ il primo catechismo cristiano databile intorno al 50 d. C. quindi o anteriore agli stessi vangeli scritti o almeno contemporaneo: è quindi un testo preziosissimo che rivela la «mens» della primissima comunità cristiana proveniente dal giudaismo.
[11] La versione di Lc è posteriore alla forma lunga di Mt (6,9-13) che risente più direttamente del vocabolario e della mentalità ebraica. Lc probabilmente conserva il contesto più storico perché la preghiera presuppone un certo tempo di predicazione. Egli infatti segue la colloca lungo il «viaggio», un po’ prima di arrivare a Gerusalemme dove si compirà la volontà del Padre che si manifesterà a Gerusalemme. Lc espone il suo testo dopo la parabola del Samaritano che esprime l’agàpe (Lc 10.29-37) e dopo l’ospitalità di Betania di Marta e Maria che esprime la necessità di ascoltare la Parola (Lc 10,38-42) e chiude con la preghiera del «Padre» (Lc 11,1-4). In questa successione vi è una pedagogia: agàpe-carità, ascolto della parola e preghiera sono espressioni di una sola realtà. Non possiamo dilungarci sulle questioni letterarie o esegetiche sull’esame nel testo greco che pure sarebbe interessante, rimandando tutto ad un incontro specifico di approfondimento fuori della liturgia. Diciamo solo che la versione breve di Lc è più antica sia per la forma che per il contenuto, mentre quella di Mt più originaria perché ha parole più arcaiche. La liturgia e la catechesi se ne sono appropriate e la versione di Mt è diventata la formula liturgica, il segno di riconoscimento della preghiera cristiana.
[12] Cf Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.28; 11,1; 22,41.45. Se una persona o una comunità o un gruppo vogliono fare un esperimento possono sottolineare nel 3° vangelo tutte le volte che Gesù si trova in preghiera o c’è un atteggiamento di preghiera, o qualcuno prega qualcun altro: si scoprirebbe l’intenzionalità di Lc che scrive a ragion veduta «una vangelo della preghiera», sparso all’interno del vangelo/viaggio.
[13]De oratione 1,6 (=CCSL 1,258). Lo stesso concetto si trova trattato in modo più diffuso in Cipriano, De oratione dominica 9 (=CSEL 3, 1, 272). Anche Sant’Agostino ritiene il Pacre Nostro come la sintesi di tutta la rivelazione: «Se passi in rassegna tutte le parole delle preghiere contenute nella Sacra Scrittura, per quanto io penso, non ne troverai una che non sia contenuta e compendiata in questa preghiera insegnataci dal Signore» (Epistula 130, 12, 22: CSEL 44, 66 [PL 33, 502]). Tertulliano però si colloca sul versante della «novità evangelica» e ciò si spiega anche con il suo antisemitismo. Egli infatti afferma: «L’espressione Dio-Padre non era mai stata rivelata a nessuno. Quando lo stesso Mosè chiese a Dio chi fosse, si sentì rispondere un altro nome. A noi questo nome è stato rivelato nel Figlio: questo nome, infatti, implica il nuovo nome di Padre Tertulliano (De oratione, 3, 1: CCL 1, 258-259 [PL 1, 1257]. In modo alquanto inspiegabile, sulla stessa linea di Tertulliano e quindi per la «novità neotestamentaria» si colloca anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC, n. 2780).
[14] «Sia innalzato e santificato il suo Nome grande (aramaico: Itgaddàl veitqaddàsh shemèch rabbà’) nel mondo da lui creato secondo la sua volontà (be’olmà’ di-bera’ kire’utech). Faccia regnare il suo regno (veyamlìk mal’ kutèch) nella vostra vita e nei vostri giorni e nella vita di tutta la casa d’Israele, ora e sempre, E dite: Amen. Benedetto il nome del Signore, sulla terra e nell’eternità. Sia benedetto, lodato, onorato, esaltato, magnificato e glorificato il Nome del Santo, sia egli benedetto, oltre ogni benedizione e ogni canto, oltre ogni lode e ogni consolazione che si pronunciano in questo mondo, E dite: Amen, Siano ricevute le preghiere e le suppliche di tutto il popolo d’Israele, davanti al loro padre che è nei cieli (‘avichem shebashamaim). E dite: Amen, Benedetto il nome di Dio, ora e sempre - una grande pace del cielo e la vita sia su noi, e su tutto Israele, e dite: Amen. Ogni aiuto mi viene da Dio che fece la terra e i cieli, Colui che fa la pace nei cieli, su di noi faccia la pace e su tutto Israele, E dite: Amen». Il testo può essere consultato sul sito:
www.nostreradici.it/Qaddish_Pater.htm#nref4; cf anche A. Lipman: Origines juives de l’Oraison dominicale, p. 28.
[15] Altri testi: Es 4,22; Dt 32,6.18.19.20; Sal 73/72,15; Is 1,2; 30,1; 64,7; Ger 3,4.19; 4,22; 31,9,20; Os 1,10; Ez 16,20.21; Ml 1,6; 2,10; Sir 23,1.4; 51,10; Sap 2,16; 14,3; Tb 13,4; 3Mac 5,7; 6,8; Letteratura giudaica: Libro dei Giubilei 1,24.25.28; Testamento di Giuda 24,2; di Levi 18,6; Hodayot 9,35-36; Yoma 85; Taanit 25.
[16] E’ detta anche «Shemone Esre» cioè «Le diciotto» [benedizioni].
[17] Per Dio creatore cf: Gen 1-2; Es 20,11;31,17; 2Re 19,15; Ne 9,6; Sal 102/10125; 115,15; 124,8;133,3; 148,6; Is 42,5; 45,18; Ger 32,17. 26. Per Dio Provvidenza che estende la sua protezione non solo sugli Ebrei, ma su tutti i popoli, cf: Egiziani e Assiri (Is 19,25), Etiopi, Filistei e Aramei (Am 9,7); Dio si prende cura anche degli animali (Gb, 38,39-41; Sal 147,9) e ama tutte le sue creature (Sal 145,9,16; Sap 11, 24-26). Il sal 68,5 chiama Dio «Padre degli orfani».
[18]Una conferma di ciò la troviamo nella genealogia di Gesù che Mt fa risalire fino ad Abramo (Mt 1,1-16), mentre Lc va oltre la storia d’Israele fino al principio dell’umanità, fino ad Adamo ed Eva (Lc 3,23-38). La questione è più grave nel IV vangelo che omette del tutto la preghiera di Gesù parla degli Ebrei non come di figli prediletti da Dio, ma di «figli del diavolo» (8,39-44). In Gv Gesù non ha genealogia perché è l’unigenito (1,14.18; 3,16-18).
[19]Sal 89/88,27 Ger 2,27:3,4.19; Sir 51,10.
[20] Qui osserviamo solo che in greco «cielo-uoranòs» è singolare, mentre in ebraico «shammaim» e in aramaico «shemmayah» sono plurali, per cui la versione di Mt riflette un sottofondo ebraico/aramaico.
[21]Il verbo «haghiàzō – io santifico» non esiste nel greco classico, ma è il verbo che utilizza la Bibbia greca, detta Lxx, con cui traduce l’ebraico «qadàsh-egli santifica».
[22] Lv 18, 21; 19,12; 20,3; 21,6; 22,32; Am 2,7; Is 52,5; Ez 43,7.8; 36,26,4; 39,7.25; Ml 1,11-12; Sal 111,9, ecc..
[23] Questa richiesta di «santificare il Nome di Dio» potrebbe anche essere in riferimento ad un fatto di cronaca riguardo ad un atto di profanazione che ha suscitato lo sdegno di tutto il popolo: Pilato aveva ordinato alla legione romana di stanza a Cesarea di portare nella Città Santa le insegne romane che erano dedicate agli dèi e davant alle quali i soldati offrivano i loro sacrifici propiziatori (cf Flavio G., Guerra Giudaica VI,6,1; Svetonio, Caligola XIV, Tacito, Annali I, 39; Tertulliano, Apologetico XVI,162. Per gli Ebrei fu una profanazione del «Nome di Yhwh» inaccettabile anche a costo della vita. Gli Ebrei supplicarono Pilato di desistere, ma egli per affermare la sua autorità fece circondare il gruppo, minacciandoli di morte immediata. Non si aspettava certo la reazione deli Ebrei, i quali si distesero per terra, scoprirono il collo e si offrirono alla morte piuttosto che vedere violato il «Nome santo di Dio». Pilato impressionato da tanta audacia e determinazione, temendo una rivolta in tutta la Palestina, desistette e fece portare via le insegne della legione romana (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XVIII, 3, 1; Guerra Giudaica II, 9, 3).
[24] Così in aramaico (malkàh) ebraico (malkùt), in greco (basilèia) in latino (regnum) in italiano (regno); l’inglese invece distingue kinkdom - territorio da reign – periodo del regno; anche il francese ha royaume – territorio e regne – durata.
[25] «Allora comparirà il Suo regno per tutto il Creato. Allora l’Accusatore avrà fine, e la tribolazione sarà tolta via con lui… Ché il Celeste sorgerà dal trono del Suo regno e uscirà dalla Sua santa dimora con indignazione e ira pei Suoi figlioli. La terra tremerà: sarà scossa fino ai suoi confini, e le montagne saranno abbassate e squassate e le valli saranno alzate. Il sole non farà luce e le corna della luna saranno oscurate e rotte, e tutta la luna si muterà in sangue, e l’orbita delle stelle sarà sconvolta, e il mare cadrà nell’abisso. Le sorgenti dell’acque si seccheranno e i fiumi inaridiranno. Perché il Dio Altissimo, l’Eterno, il Dio unico si leverà e si manifesterà per punire le nazioni e per distruggere i loro idoli. Allora sarai felice tu, o Israele,  salirai sul collo e sull’ali dell’aquila e i giorni del tuo dolore termineranno. Dio ti esalterà, e ti solleverà fino al Cielo delle stelle al luogo della Sua dimora. Allora tu guarderai dall’alto e vedrai i tuoi avversari sulla terra e li riconoscerai e ti rallegrerai, e renderai grazie e riconoscenza al Creatore».
[26]Quando nel 7 d. C. i Romani fecero della Giudea una provincia inviando Quirino a fare il censimento per imporre tasse, si trovarono davanti ad una reazione feroce perché gli Ebrei si considerarono ridotti in schiavitù. Mentre il sommo sacerdote Joazar invitò alla sottomissione, Giuda il Galileo istigò il popolo alla ribellione e a proclamare Dio unico sovrano in Israele. Egli con i suoi seguaci si rifugiò nella cittadina di Gamala (nella Galilea in posizione strategica), ma furono sopraffatti, torturati, scaraventati giù dal monte e sgozzati (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XVIII, 1,6; Guerra Giudaica II, 8,1). Anche Giuseppe di Arimatea, membro del Sinedri, attendeva il regno di Dio in pace e senza violenza, come testimonia Marco (XV,53). Per l’opposizione tra Regno di Dio e poteri terreni cf. Gv 18,36; Mc 10,42-25; Gv 15,18-19; 17,11-16).
[27] Mc 9,1 = Lc 9,27; Mc 14,25 = Mt 25,29 e Lc 22,16-18; Mt 8,11; 22,41.
[28] Riportiamo per curiosità un testo ebraico del Talmud: «Abbai dice: “L ‘uomo deve associare nella sua preghiera tutta la comunità, e dirà per esempio: sia fatta la tua volontà, Signore nostro Dio, di dirigere noi tutti verso la pace”» (Berakòt/Benedizioni, 30a).
[29] Quando un termine o una frase si trovano solo una volta in tutta la Scrittura o in un blocco di scritti o in un solo autore si usa l’espressione tecnica greca «hàpax legòmenon – una sola volta detto».
[30] Se si prende il testo greco con apparato critico, cioè con tutte le varianti delle singole parole riportate in tutti i codici esistenti, si nota che nella versione di Mt 6,11, le varianti sono moltissime: San Gerolamo nella sua Volgata traduce con «sovrastanziale», riferendosi al pane celeste e quindi all’Eucaristia, quello di cui parla Gesù in Gv 6. Sulla stessa linea si colloca la versione siriaca invece traduce con «perpetuo» quindi un pane eterno. Un’altra versione siriana ha «necessario» per dire il pane indispensabile e anche sufficiente, come la manna che bastava per un solo giorno. La traduzione della Bibbia detta Vetus latina (la più antica versione della Bibbia in latino prima della Volgata di San Gerolamo e che è la traduzione della versione della Lxx, avvenuta tra i secc. II e V), traduce «quotidiano» come anche oggi la versione della Cei che noi seguiamo in mancanza d’altro. La versione sahidica traduce con «che viene»; una versione copta traduce con «il pane di domani» come a dire che gli operai che vivono alla giornata e ricevendo la paga alla sera possa avere il pane del giorno dopo come fa ipotizzare la parabola dei lavoratori nella vigna, chiamati a tutte le ore (cf Mt 20,1-16).
[31] Durante il regno dell’imperatore Domiziano (81-96) Rabbi Eliezer, contemporaneo quindi degli scritti lucani e giovannei, soleva dire: «Chiunque ha pane nel paniere e domanda: Che cosa mangerò domani? è un uomo di poca fede» (Sota 48) che è un insegnamento simile a quello di Gesù: «Non affannatevi per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietitudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,34) Non pensate alla vita vostra, che mangerete e che berrete....... Non vi preoccupate dunque per il domani” ( Matteo VI, 25-34). E’ difficile quindi che Gesù pensasse al pane del giorno dopo.
[32] Vi sono altri passi dei Vangeli (In diversi passi del NT la parola «debito» ha il significato di «peccato»(Mt 18, 23-35, Lc 7,37-39).
[33] Per i peccati, cf Es 10,17; 32,32; 34,7-9; Nm 14,19; 1Re 8,30. 34.50; Am 7,2; Dn 9, 19; Sal 25,11.18; 32, 5; 51,2; 79,9; 86,3-5; 130,3.4.8; per i torti, cf Gen 45, 4-15; 50,15-21; Es 23,4-5; Lv 19,17-18.34; 1Sa 25,28-34; Gb 31,29: Sal 18,24-25; Pr 20,72; 24,29; 25,21-22.
[34] La nuova versione della Bibbia-Cei (3a edizione), non ancora pubblicata addolcisce il testo evangelico con «non abbandonarci nella tentazione».
[35] In Jerem. hom. lat. XX, 3.
[36] In greco, l’aggettivo neutro può avere valore di nome astratto.
[37] La Preghiera eucaristica IV, che s’ispira ad antiche anafore orientali, come quella di San Basilio, è stata formulata ex novo nella riforma liturgica di Paolo VI e può considerarsi un frutto genuino del concilio Vaticano II. La sua struttura è unitaria e anche il prefazio non può essere cambiato perché nell’insieme espone la storia della salvezza o meglio la Salvezza di Dio che si fa storia. La preghiera eucaristica è il rendimento di grazie che presenta a Dio nel Nome di Gesù col, sostegno dello Spirito suo questa Storia salvata eppure ancora bisognosa di redenzione. Usandola, volgiamo essere riconoscenti a Dio per il dono del Concilio e della riforma liturgica che superando la visione tridentina della ritualità centrata sulla persona del prete, ci ha apre alla dimensione salvifica del Cristo che si attua nell’Assemblea orante, espressione sacramentale dell’intera Chiesa «cattolica», «sacramento o segno dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, 1).


Marted́ 20 Luglio,2010 Ore: 11:05
 
 
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