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www.ildialogo.org Domenica 15a Tempo Ordinario -C- 11 luglio 2007-,a cura di Paolo Farinella, prete

Domenica 15a Tempo Ordinario -C- 11 luglio 2007-

a cura di Paolo Farinella, prete

La liturgia di questa domenica 15a del tempo ordinario-C ci pone di fronte ad un interrogativo che è centrale per la fede: perché Dio non si fa vedere «fisicamente» e non dà segni tangibili della sua Presenza? In che modo possiamo essere sicuri della presenza di Dio? Certo, qualcuno potrebbe pensare che sarebbe bella un’apparizione inequivocabile di Dio, magari con qualche gioco di prestigio impressionante da costringere tutti a convertirsi e a credere a lui! Questa tipologia di divinità appartiene al gruppo delle religiosità che sono «oppio dei popoli», perché un Dio impressionante, magico e teatrale è solo un giochino nelle mani di uomini esperti di marketing religioso. Non così il Dio di Gesù Cristo, che sceglie la via lunga e tortuosa dell’incontro nella vita e per farsi riconoscere esige che ciascuno percorra tutta la propria esistenza dalla parte più esterna al livello più intimo per giungere ad ascoltare il silenzio di Dio che è la Parola più sublime e più alta che il cuore possa percepire.
La Bibbia ci parla di un Dio «Presenza assente» perché mentre si manifesta si cela e non impone. Tutta la storia di Israele e della Chiesa mette in evidenza questo metodo: Dio si adatta al passo delle persone per diventare compagno di cammino e di ricerca. Certo un «miracolo» (di quelli strepitosi) sarebbe un bel colpo contro l’incredulità! – così pensano gli uomini di poca fede che all’occorrenza non crederanno mai nemmeno davanti ai miracoli, perché avranno sempre bisogno di un altro miracolo –. Il vangelo di Giovanni non parla mai di «miracoli», ma solo di «segni», perché il modo di rivelarsi di Dio è discreto, in punta di piedi, rispettoso del travaglio e dei dubbi di chi lo cerca con cuore sincero. Non si cerca Dio per essere convinti, ma per sperimentare il suo amore e la sua storia rivelata nel popolo di Israele e nell’ebreo Gesù, per imparare ad amare come lui e per andare nel mondo a cogliere i «segni di amore» disseminati dallo Spirito di Dio.
Il riformatore deuteronomista per bocca di Mosè ci dice che non dobbiamo affannarci a cercare Dio: non è necessario scalare il cielo, ne sprofondare negli abissi del mare. E’ sufficiente abituarsi ad abitare il proprio cuore per scoprire che Dio non è esterno a noi né ci è estraneo perché ha deposto in noi il germe della sua Parola che troviamo nella Toràh dei comandamenti e nella nostra coscienza. Per incontrare Dio è sufficiente ascoltare la vita che parla noi di lui attraverso quattro vie: gli avvenimenti della storia, le persone che incontriamo, la Parola di Dio che ascoltiamo e la coscienza con cui discerniamo le scelte, il bene e il male.
San Paolo riprende un antico inno battesimale che inneggia alla signoria di Cristo sulla prima creazione e sulla seconda creazione che è la redenzione, avvenuta nel dono della vita del Figlio di Dio che noi abbiamo potuto vedere, ascoltare e toccare (cf 1Gv 1,1-3). L’apostolo presenta il Cristo come «preesistente» a tutte le cose create (Col 1,15). Egli s’ispira alla tradizione giudaica, molto diffusa ai tempi di Gesù, che narra come ancora prima di creare il mondo, Dio avesse messo in serbo dieci cose, tra cui appunto il Messia, l’agnello, le lettere dell’alfabeto, ecc. Un elenco di queste cose si trova nella Mishnà, trattato Pirqè AvotMassime dei Padri (V, 6). Gesù stesso applicherà a sé questa tradizione, quando nella grande preghiera sacerdotale, chiede al Padre di dargli «quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5).
E’ un modo ebraico per affermare che Gesù appartiene alla stessa eternità del Padre e che attraverso l’incarnazione, questa eternità che conteneva l’invisibilità di Dio, si è piegata alle esigenze umane, facendosi sperimentare nel tempo attraverso l’esperienza unica di Gesù di Nazareth. Se Gesù è l’immagine visibile del Dio invisibile, significa che il peccato di Adam ed Eva nel giardino di Eva non è stato solo un peccato di orgoglio o di disobbedienza, ma il rifiuto cosciente e consapevole di accettare il Cristo come il capo di tutto il corpo, l’immagine perfetta del volto e della volontà di Dio. I progenitori non accettano Cristo mediatore, ma vogliono essere loro stessi, immagine unica e assoluta da sostituire a quella del Figlio che è «prima che il mondo fosse». Il peccato di Àdam ed Eva non è un peccato morale, ma un peccato cristologico. Rifiutano il Cristo e si ritrovano nudi d’immagine, di luce e di futuro.
Il Vangelo risponde alla domanda iniziale da un altro versante. Incontrare Dio nel proprio cuore e nella propria coscienza può essere anche una illusione perché non c’è alcuna misura e verifica di verità. C’è un modo infallibile per essere certi di incontrare il Dio di Gesù Cristo: stare sempre dalla parte dei poveri con spirito povero e cuore accogliente. Come il Samaritano. Quando uno si mette al servizio dei poveri, non deve preoccuparsi nemmeno di Dio, perché lo troverà alla fine del suo cammino come un premio naturale. Questo intendeva dire don Lorenzo Milani, quando nel suo testamento scrive: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze»[1] onorano solo se stessi e l’idea che essi hanno di Dio, non il Dio del volto di Gesù Cristo.. Chi cerca Dio nello scintillio delle liturgie sontuose che sembrano più una sfilata di moda che una adorazione della maestà di Dio,
Per vedere Dio, bisogna immergersi nella storia e nella storia dei poveri, non pensare al Dio che abita sopra le nubi, magari mentre passiamo sull’altro marciapiede per non vedere il povero moribondo. Gli specialisti della religione hanno talmente imprigionato Dio nei loro schemi etici e cultuali da identificarlo con se stessi: non vogliono sporcarsi dell’umanità sofferente e così rinnegano quel Dio che dovrebbero testimoniare e di cui sono garanti. Credono di dare gloria a Dio e invece gratificano solo se stessi cercando la propria vanagloria.
Celebrare l’Eucaristia significa incontrare Gesù che si fa samaritano nostro per insegnarci come dobbiamo essere ed agire sulle strade della vita: andando a casa, non ci resta che accogliere l’invito di Gesù al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Entriamo nella liturgia facendo nostre le parole del Salmista dell’antifona d’ingresso (Sal 17/16,15) che ci introduce nel cuore dello Spirito di Dio: «Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine».
 
Spirito Santo, tu ispiri l’Israele di ieri e di oggi all’obbedienza alla Parola di Dio,     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu predisponi i cuori a convertirsi con tutta l’anima al Signore,                       Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu rendi vicina la Presenza del Signore anche quando sembra lontana,           Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu alimenti la nostra coscienza perché rispecchi la legge del Signore, Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu purifichi lo sguardo del cuore con la giustizia della misericordia,  Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci educhi con fedeltà al timore del Signore che dona gioia profonda,         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu manifesti l’immagine del Signore Gesù, alla quale ci conformi,                 Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci doni la coscienza di essere membra del corpo di cui Cristo è capo,        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu riversi nei nostri cuori e nelle nostre scelte la pienezza di Cristo Gesù,       Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci custodisce nell’amore perché non mettiamo mai Gesù alla prova,          Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu scrivi nella nostra anima il comandamento dell’amore di Dio,                    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu scrivi nella nostra anima il comandamento dell’amore del prossimo,         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci guidi sulla strada perché non passiamo mai dall’altra parte,                    Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’olio della guarigione che Gesù versa sulle nostre ferite,                      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ti prendi cura di noi e ci affidi alla tenerezza della Madre-Chiesa, Veni, Sancte Spiritus!
 
La liturgia di oggi insiste sul tema dell’«immagine»: San Paolo in modo esplicito, la 1a lettura cercando di diluire quella di chi pensa che il Dio dell’AT sia un Dio lontano con l’immagine di un Dio molto vicino e infine il vangelo con l’immagine del Samaritano applicata a Dio. Questa insistenza ha un solo fine: evitare lo scoraggiamen-to. Come creature ogni giorno sperimentiamo ogni sorta di limite come insegna il Sapiente d’Israele: «Sette volte al giorno cade e si rialza il giusto» (Pro 24,16). La tentazione maggiore che un credente possa subire è diffidare della salvezza, cioè della paternità di Dio. Spesso siamo così superbi da pensare che il nostro limite e il nostro peccato possano essere superiori all’amore e consolazione di Dio. Noi sappiamo però che Dio è sempre più grande del nostro cuore (cf 1Gv 3,20). Con la certezza di credere in un Dio ostinato, entriamo nel cuore dell’Eucaristia nella comunione della Santa Trinità che ha posto la sua dimora in noi.
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
Signore, tu sei un Dio vicino e noi ci siamo allontanati da te, facci ritornare e ritorneremo,          Kyrie, elèison!
Cristo, tu hai svelato il volto paterno e materno di Dio, perdona ogni nostra superficialità,           Christe, elèison!
Signore, tu sei il Samaritano che cura le nostre ferite, fa’ che curiamo quelle che incontriamo,     Kyrie, elèison!
 
Dio onnipotente, Presente e Assente allo stesso tempo per darci modo di riconoscerlo nei volti anonimi dei nostri fratelli e sorelle, che si fa Samaritano premuroso, anche quando siamo storditi e privi di conoscenza, per i meriti di Mosè il profeta che parlava con Dio faccia a faccia, per i meriti di Gesù, immagine visibile del Dio invisibile che ci ha aperto la via della visione e della sperimentazione, per i meriti della Chiesa, corpo del Signore morto e risorto, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO NELL’ALTO DEI CIELI e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. [breve pausa 1-2-3]
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. [breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: [breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). Padre misericordioso, che nel comandamento dell’amore hai posto il compendio e l’anima di tutta la legge, donaci un cuore attento e generoso verso le sofferenze e le miserie dei fratelli, per essere simili a Cristo, buon samaritano del mondo. Egli è Dio, e vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 


Mensa della Parola
Prima lettura Dt 30,10-14. Il libro del Dt riporta tre discorsi di Mosè al popolo prima della sua morte e prima dell’ingres-so nella Terra Promessa (1,1-4,43; 4,44-28,68; 28,69,-33,29). Il brano liturgico odierno appartiene al 3° e ultimo discorso che affronta il tema esplicitamente morale delle «due vie» (cf 30,15-20), logico in un testo legislativo come il Deuteronomio. Nella scelta tra bene e male, non c’è lacerazione perché il fondamento della vita etica non sta nei principi o nelle regole, ma unicamente nella «Presenza vicina» di un Dio che annulla sua inaccessibilità per «farsi prossimo» di coloro che lo cercano. Non bisogna andare a cercare Dio in posti strani o lontani perché egli è più accanto a noi di quanto non lo siamo noi stessi. Questo brano, specialmente il v. 14 che è uno dei versetti più antichi di tutta la Scrittura) sta alla base della logica dell’incarnazione del Lògos che germoglierà completamente con Gv 1,14 passando attraverso la personalizzazione della Parola del libro dei Proverbi (8,22) e della Sapienza (7,22). Noi siamo immersi in questa vicinanza di Dio fino al punto che possiamo accostarci alla mensa della Parola che si fa Pane e saziarci a nostro piacimento.
 
Dal libro del Deuteronomio Dt 30,10-14
Mosè parlò al popolo dicendo: 10 «obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e quando ti sarai convertito al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. 11Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. 12Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. 13Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. 14Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 19/18, 8; 9; 10-11. Presso le culture orientali il sole era simbolo di giustizia (cf Ml3,20; Sap 5,6) perché regola con armonia ed equità il giorno e la notte. Il salmo è un inno che celebra Dio creatore specialmente del sole e allo stesso tempo autore della Toràh, il sole morale che illumina il cuore d’Israele. Il cosmo si riflette nella coscienza e la persona guardando dentro di sé scopre il fondamento dell’equilibrio del creato. La liturgia riserva questo salmo al Natale del Verbo di Dio, il «Sole di giustizia» che mai tramonta (Gv 1,9; Lc 1,78; cf Ml 3,20). Celebrando l’eucaristia, impariamo a lasciarci illuminare dalla giustizia di Dio per essere figli della luce.
 
Rit. I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
 


8 La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice. Rit.
9 I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi. Rit.
10 Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti,
11 più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante. Rit.


 
Seconda lettura Col 1,15-20. La lettera ai Colossesi e agli Efesini come il biglietto a Filemone sono scritti forse nello stesso periodo a Roma, durante la prigionia degli anni 61-63. Il brano di oggi riporta un inno a due strofe, forse preesistente a Paolo e utilizzato nella liturgia, in cui si celebra la regalità di Cristo sul duplice mondo: quello della prima creazione (vv. 15-17) e quello ri-creato nella redenzione di Cristo (vv. 18-20), costruite in modo parallelo cosicché ad una affermazione della prima strofa corrisponde un’affermazione della seconda strofa. Il primato messianico è descritto con tre immagini: Cristo è il primogenito (v. 17), egli è il capo del corpo-Chiesa (v.18); in lui è «ogni pienezza» (v. 19). L’inno è una professione di fede che l’innamorato Paolo fa di Colui che lo ha «afferrato» (Fil 3,12) e lo ha «con crocifisso con lui» (Gal 2,19).
 
Dalla lettera di Paolo apostolo ai Colossesi 1,15-20.
15 Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, 16 perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17 Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. 18 Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. 19 È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza 20 e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli. - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 10,25-37. La parabola del samaritano è esclusiva di Lc. Se si guarda l’insieme del capitolo 10, si vede subito che è disarmonico e non coerente. Alla domanda «Chi è il mio prossimo» Gesù risponde con una parabola sul «come» amare gli altri. Se consideriamo la parabola in sé, non legata a quanto precede, scopriamo che essa non ha un scopo morale, ma è solo una parabola del regno di Dio, come le parabole del regno (cf Mt 13). Il samaritano, nemico irriducibile per i Giudei, è l’immagine di Dio che non guarda i pregiudizi, ma unicamente a salvare il povero che incappò nei ladroni. Questa parabola ci mette al sicuro anche da noi stessi: se Dio è così, vale proprio la pena vivere e lasciarsi vivere dall’amore degli altri e per gli altri. Dio è invisibile nel tempo della storia perché l’amore di cui siamo capaci possa renderlo accessibile a coloro ai quali siamo mandati nel circuito della vita.
 


Canto al Vangelo Gv 13,34
Alleluia.Le tue parole, Signore, sono spirito e vita; / tu hai parole di vita eterna. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca 10,25-37
In quel tempo, 25 un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27 Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». 29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30 Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Oggi non c’è che l’imbarazzo della scelta per la ricchezza dei testi liturgici. Ognuno meriterebbe un’attenzione particolare che lo spazio di un omelia non può assolutamente esaurire. Potremmo dire l’essenziale dell’uno e dell’altro, ma impoveriremmo il testo. Bisogna scegliere. Vi propongo di assaporare il vangelo perché in esso è la risposta alla 1a lettura che ci parla di un Dio così vicino da sembrare lontano. Anzi se vogliano essere immersi nel cuore stesso di Dio non ci resta che vivere la proposta che ci viene oggi dal vangelo del «Samaritano che soccorre un Giudeo». Di fronte a questa affermazione, oggi nessuno reagisce, perché abbiamo perso il contesto giudaico del vangelo per cui facilmente trasformiamo l’atteggiamento del Samaritano in un atteggiamento morale. Per noi ha fatto la carità. Immaginate invece un ebreo ortodosso degli insediamenti che si prende cura di un palestinese ferito dall’esercito israeliano e lo porta in un ospedale, sfidando l’opinione corrente. E’ questa una pallida idea di quello che Gesù vuole raccontare con questa pagina di Lc. E’ stato buono. Dall’altra parte proviamo un senso di disgusto nei confronti del sacerdote e del levita che fanno al figura dei cattivi. Eppure non è così perché noi non conosciamo la Scrittura e l’ambiente dove è nata. Siamo superficiali che leggiucchiano la traduzione e la interpretano alla luce del loro sentire. Per capire il brano di oggi bisogna inserirlo nel suo contesto che ci svela tre momenti decisivi:
1.      Lc 10,21-23: Dopo l’invio dei Dodici senza frutto (Lc 9,1-6.10) e dopo l’invio dei Settantadue e il loro successo (cf domenica scorsa: Lc 10,1-12), Gesù dichiara la beatitudine degli Apostoli perché in quanto piccoli e insignificanti sono più privilegiati dei «dotti e dei sapienti» perché sono ammessi al mistero del Regno di Dio. Da una parte Gesù «loda» il Padre che si rivela i «piccoli» e dall’altra dichiara «Beati» i piccoli che sanno vedere oltre il già noto. Dio non sta dalla parte dei «sapienti e dei dotti» che credono di vedere, mentre sono accecati dalla loro presunzione: infatti «un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova» (Lc 10,25), non per incontrarlo o per capire.
2.      Lc 10,25-28 (1a parte del vangelo di oggi): discussione sul comandamento più grande che non si trova al suo posto qui, perché deve essere stato pronunciato a Gerusalemme nel contesto dell’ultima settimana, quando i, confronto con il potere ufficiale diventa estremo e decisivo fino alla morte (cf Mt 21,1. 22,34-40). L’inserimento del brano sul comandamento dell’amore in questo contesto lucano, spezza l’unità del racconto perché alla domanda del dottore della Legge «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29), Gesù risponde «come» si deve amare non il prossimo, ma il nemico.
3.      Lc 10,29-37 (2a parte del vangelo di oggi): la parabola vera e propria del Samaritano che non è un insegnamento morale, ma la descrizione della natura di Dio. Forse alla base del racconto di Lc c’è 2Cr 28,15, dove alcuni Samaritani usano pietà verso i Giudei, esattamente come il Samaritano della parabola lucana. Se le cose stanno così, ci troviamo anche qui davanti un midràsh cristiano del racconto del libro delle Cronache[2]. Con questa parabola, Lc invita a imitare Dio nel suo essere più profondo che Mt codificherà nel discorso della montagna: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
Il dottore della Legge è lo specialista della Parola, colui che la interpreta anche in nome di Dio. Egli è un competente che è chiamato a dare risposte definitive. Possiamo dire che è il rappresentante della religiosità ufficiale. Egli «si alzò per metterlo alla prova» (Lc 10,25) come dice la traduzione addolcendo alquanto il significato letterale dei due verbi. Il primo verbo greco è «anèstē» e indica l’atto del sorgere/risorgere (Mc 5,42), dunque un atteggiamento solenne, di autorità perché egli «sta in piedi» come colui cha ha l’ultima parola, consapevole del proprio ruolo di «dottore della Legge». Il secondo verbo dice lo scopo del «sorgere/risorgere»: il verbo «ekpeiràzōn» è un participio presente con valore finale o anche modale ed esprime un’azione continua. E’ il verbo della tentazione del diavolo oppure degli scribi e dei farisei e qui del dottore della Legge. Nel NT ricorre 27 volte e sempre nel senso di «io tento» come attività demoniaca. Il testo della traduzione liturgica è povero e non esprime la drammaticità che sottolinea Luca: «Un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù» (Bibbia Cei 1974, 1997, 2008). Lc dice: «Si alzò/sorse e continuando a tentarlo, disse». Bisogna mettere in evidenza questa persistenza diabolica: «persistendo nello sforzo di tentarlo»
E’ facile coglierne il sottofondo: il rappresentante ufficiale della religione, colui che dovrebbe mediare la volontà di Dio è equiparato a satana e ne diventa strumento efficace (v. la persistenza). Il suo dire è diabolico perché non mira a conoscere o a relazionarsi, ma ad indurre ad agire demoniacamente[3]«dottore» chiede cosa deve fare per «ereditare la vita eterna» (Lc 10,25): il suo orizzonte è rivolto oltre la storia, verso l’eternità. Forse perché pensa che qui sulla terra egli è nel giusto: vive nel tempio, osserva i comandamenti, cioè tutte le prescrizioni e vuole assicurarsi anche un posto al sole oltre la morte. Vuole avere l’ultima parola anche da morto, determinando così il giudizio di Dio. Attestarsi sull’orizzonte della vita eterna, significa estraniarsi dalla storia e dalla responsabilità che Dio stesso ci ha dato nel tempo in cui viviamo sulla terra in marcia verso il Regno di Dio che è la trasformazione di ciò che abbiamo vissuto, ma senza limiti. . E’ interessante, infatti, seguire lo svolgimento del racconto che è anche umoristico. Il
 
E’ la solito modo di procedere: si distingue tra «vita terrena» e «vita eterna», pretendendo di dare a quest’ultima una primogenitura in contrasto con la prima, come la «vita terrena» fosse una maledizione di Dio che dobbiamo sopportare. Questa visione non ha nulla da spartire con il messaggio del vangelo. Si dice: non bisogna mischiare le prospettive perché la fede educa figli per la vita eterna. I poveri devono avere pazienza perché poi avranno la «vendetta» nella vita eterna. La chiesa non si occupa di cose materiali, perché il suo obiettivo sono le coscienza e la salvezza dell’anima. Con questa mistificazione si è creata una frattura invincibile tra la vita di qua e la vita di là. E’ bene dirlo una volta per tutte, con chiarezza e senza equivoci: per la rivelazione cristiana, la vita eterna non esiste, come per la Bibbia non esiste l’anima. Esiste una sola vita incarnata nella persona viva che è la stessa quando vive di qua e quando continuerà a vivere di là, oltre la soglia della morte. La vita dopo la morte è solo un prolungamento trasformato dell’unica vita che Dio ci ha chiamato a vivere: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata» (Prefazio 1 della Messa dei Defunti). Al giudizio universale non saremo giudicasti sulla vita oltre la morte, ma sulla qualità di relazioni che abbiamo vissuto prima della morte. Saremo giudicati sull’amore (cf Mt 25,31-46). Gesù attraverso un processo psicologico sventa il Dottore della Legge e lo riporta alla sua dimensione di verità.
 
La risposta di Gesù è sferzante ed in due momenti. Primo: «Che cosa sta scritto nella Legge/Toràh?» (Lc 10,26). Fare una domanda simile ad uno specialista della Legge, significa metterlo davanti alla sua responsabilità perché è come se gli dicesse che lui non conosce la Legge. IL verbo che Gesù usa in greco è un perfetto indicativo passivo e questa volta la traduzione italiana è esatta: «Che cosa sta scritto», cioè in modo permanente e definitivo? Tradotto in altro modo significa: Hai mai preso in mano la Toràh, «quella di Dio» e non le tue opinioni che derivi dalle tue tradizioni? Gesù si riferisce al fatto che il dottore conosce bene la «tradizione» come il Talmùd o la Mishnàh orali e tutte le loro minuziosissime prescrizioni fatte passare spesso per Toràh, cioè Parola di Dio, mentre erano solo tentativi degli uomini di capire. Quando le tradizioni degli uomini prendono il sopravvento sulla Parola di Dio, Dio tace ed è rintanato in un cantuccio perché gli uomini presumono di prendere il suo posto, perpetuando la tentazione di Adamo ed Eva, come anche Gesù insegna: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).
Secondo: «Come leggi» (Lc 10,26). Non basta prendere in mano la Toràh, non basta conoscerla a memoria, bisogna anche comprenderla, farla propria, interiorizzarla. «Come» vuol dire: con quale criterio, mediazione, ideologia, presupposto e strumenti leggi la Parola? Non basta leggere la Scrittura, bisogna leggere la sua «mens» nel contesto in cui l’ha scritta l’autore. Qui c’è la frattura tra esteriore e interiore, tra fare le cose e capirle, tra andare a Messa e parteciparvi, tra religione e fede. La risposta del «dottore» è esatta formalmente perché cita il catechismo come lo insegnava lui, ad uso e consumo suo, credendo di trovarsi nel cuore della fede di cui si sente garante: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente» (Lc 10,27; cf Dt 6,5). Non basta perché egli conosce anche il seguito che si sviluppa sul piano sociale: «e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10.27; cf Lv 19,18). Quante volte abbiamo «sentito» questo passo e ne siamo rimasti ammirati! Eppure a scendere in profondità c’è qualcosa di sinistro che Gesù metterà in luce, smascherandola. Il «dottore» afferma due «amori» con qualità diverse. Uno per Iddio che deve essere totale: « con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente» e l’altro per il prossimo che deve essere «come te stesso», cioè limitato, secondo le possibilità agli appartenenti al suo popolo. Da qui nasce un duplice atteggiamento religioso e di conseguenza un comportamento di partecipazione sociale, ma circoscritto.
Dio si può amare separatamente dagli uomini, perché basta rinchiudersi nel cuore… anima… mente che descrivono il modo spiritualistico di vivere la religione fatta di formalismo, liturgie, incensi, astrazione e di «fare la carità» senza mai lasciarsi coinvolgere. Gli uomini si possono amare «come se stessi», ma noi facciamo ogni giorno l’esperienza del limite e della povertà e quindi non ci meravigliamo se ci accostiamo agli altri con limite e povertà. Siamo in grado di giustificare il nostro strabismo religioso perché tanto, poi, tutto si aggiusta nell’altra vita, in quella che pomposamente chiamiamo «vita eterna».
La parola «prossimo» al tempo di Gesù, ma anche prima di lui, aveva un significato specifico: non significa «l’altro» in senso generale, cioè qualunque persona. «Prossimo» per i semiti è «l’aderente, il confinante, l’attiguo», cioè l’appartenente al clan, alla famiglia, alla tribù. E’ uno «dei nostri». Nella parola non è compreso lo straniero, l’estraneo. Gesù farà esplodere questo significato modificando il termine di paragone: non più «ama il prossimo tuo come te stesso», ma: «Un comandamento nuovo do a voi affinché vi amiate gli uni gli altri [= reciprocamente], come [io] amai voi, perché anche voi vi amiate gli uni gli altri [= reciprocamente]» (Gv 13,34) La misura dell’amore non siamo più noi con il nostro limite e incapacità, ma la persona stessa di Dio perché compito della nostra testimonianza nel mondo è «imitare Dio» nell’essere e nell’agire: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). La novità che porta Gesù non è l’abolizione o il superamento della Toràh, ma farne esplodere le possibilità che in essa sono contenute (cf Mt 5,17).
Lo stile di Gesù è simile a quello di Socrate: conduce l’interlocutore a rendersi conto da sé delle sue contraddizioni. Non contesta apparentemente l’affermazione formale, ma lo invita a mettere in pratica quello che ha appena detto, dicendogli: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (Lc 10,28). Non lo ha giudicato, non gli ha detto che è cattivo, non gli ha rinfacciato di essere ottuso; gli ha solo detto: sii te tesso, se vuoi vivere. Il dottore chiedeva notizie sulla «vita eterna – zoên aiônion», Gesù lo rimanda soltanto alla dinamicità della vita perché, nella risposta, infatti, usa il verbo e non il sostantivo: «Fai questo e vivrai – zêsē(i)».
Il dottore capisce perfettamente, ma da uomo religioso e scaltro, abituato a manipolare gli altri, cerca di uscire dall’angolo del suo disagio e cambia discorso. L’evangelista è esplicito: «volendo giustificarsi» (Lc 10,29), chiede spiegazioni sul «suo prossimo», che è una richiesta comica sulla bocca di uno specialista della Legge. Probabilmente egli ha inteso perfettamente lo scopo che Gesù voleva raggiungere e prende tempo, cerca una scappatoia. Gesù non risponde con un ragionamento, ma con una parabola, lineare e dirompente, quasi blasfema per gli uditori del tempo di Gesù. Noi oggi leggiamo questa pagina senza problema perché non ne comprendiamo il contenuto rivoluzionario per gli uomini e per l’immagine che ci facciamo di Dio: travolge la religiosità tradizionale e apre una prospettiva nuova sul volto di Dio.
Proviamo a capire più profondamente. Gerusalemme era collocata su due colline, quella del tempio e quella di Sion:essa si trova a circa 800 m sopra il livello del mare, mentre Gerico che dista circa km 38 si trova invece a 390 m. sotto il livello del mare, con dislivello di quasi 1.200 metri in pochi chilometri lungo una strada che un continuo sali-scendi. La strada in se stessa è un’avventura perché manca il respiro continuamente a cui si aggiunge il caldo micidiale senza una fola di vento.
Gesù narra la disavventura, forse un fatto di cronaca nera recente: un passeggero, che forse è di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, viene assalito da un banda, derubato e violentato. Resta mezzo morto. La morte è certa col caldo e la depressione dovuti al dislivello. Non ha nemmeno la forza di gridare. Può solo pregare dolente il suo Dio di lasciarlo morire presto. Un altro elemento essenziale per la comprensione della parabola è il personaggio principale: il Samaritano. Tra Samaritani e Giudei vi è una inimicizia ancestrale: l’odio è radicato e risale almeno al dopo esilio, al tempo di Neemìa (sec. IV a.C.) quando ai Samaritani è proibito di offrire sacrifici al tempio e ai Giudei di sposare una Samaritana. Eppure Il Talmùd insegna che i Samaritani sono scrupolosi più dei Giudei nell’osservare la Toràh (trattato Houl 4a). Se un Giudeo offende un altro Giudeo chiamandolo «samaritano», commette un delitto punito con «i quaranta colpi meno uno», cioè con trentanove frustate[4].
Questo il quadro della situazione. Alla luce di queste informazioni possiamo capire alcune cose. Dicendo che un Giudeo è stato soccorso da un Samaritano, Gesù offende tutti i Giudei presenti ed è passibile di condanna. Non solo il suo paragone è scandaloso, ma egli gli attribuisce le qualità che la religione riconosce solo a Dio: «un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). In italiano l’espressione è innocua, in bocca a Gesù è un insulto per gli orecchi pudichi di chi ascolta borghesemente.
In greco Lc usa il verbo «esplanchnìsthē» che richiama l’ebraico «rèchem – l’utero materno». Questo verbo nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio e quella che prova Gesù (cf Mt 9,36; 14,14). In Lc questo verbo compare tre volte: per la risurrezione del figlio della vedova di Naim (cf Lc 7,13); per l’accoglienza del «padre che fu madre» del figliol prodigo (cf Lc 15,20) e qui per il Samaritano[5]. Tre situazioni di emarginazione e di impurità assoluta esprimono per Lc la purità e la giustizia di Dio. «Avere compassione» dunque dal punto di vista di Dio significa «protendersi al bisogno dell’altro per rigenerarlo a vita nuova».
Che la chiave di lettura (ermeneutica) sia di natura cristologica, lo si ricava da un altro dato. Il Samaritano non solo soccorre il malcapitato, ma fa di più. Al v. 35 promette il suo «ritorno» che non avrebbe senso se la il racconto deve finire con l’assistenza dell’uomo ferito. Una volta assistito, curato e pagato, ognuno per la sua strada. Per Lc le cose non stanno così perché il «ritorno» del Samaritano è una promessa-anticipo (tecnicamente si dice una prolèssi) del ritorno di Cristo, alla fine dei tempi, quando assumerà su di sé il volto del Samaritano per espandere la misericordia di Dio sull’umanità dolente che non saprà come ritornare a Dio.
Una cosa però è certa: Cristo non perderà nessuno «di quelli che mi hai dato» (Gv 18,9; cf 6,30; 10,29; 17,12). Se il primo verbo, «avere compassione» è un’attitudine di Dio nella sua relazione con l’umanità, il ritorno del Samaritano è un’evocazione del «ritorno di Cristo» alla fine della Storia, come sigillo alla Storia che si apre al Regno. Che questa sia l’interpretazione è spiegato anche dal fatto che il verbo usato da Lc «epanèrchesthai» (Lc 10,35) si trova in Lc un’altra sola volta e precisamente con questo identico significato escatologico. (cf Lc 19,15). Il Samaritano dunque è l’immagine di Yhwh che si scuote nelle viscere di fronte ai suoi figli ed è anche l’immagine di Gesù che deve tornare per prendere possesso della Storia al suo compimento.
Possiamo capire lo scandalo che dovette provocare una simile parabola, specialmente se il comportamento del Samaritano si confronta a quello di due Giudei super religiosi e praticanti, due specialisti del sacro e di Dio, quel Dio che hanno relegato dentro un recinto di canti e di incenso, facendolo prigioniero della loro religiosità: un sacerdote e un levita, un addetto al servizio del tempio. Tutti e due forse tornano a casa dopo il turno di servizio al tempio, quindi sono ancora in stato di purità legale e religiosa. Se avessero toccato il «mezzo morto» che forse scambiano per completamente «morto», avrebbero perso la loro purità. Non sono cattivi e non pensano male, sono soltanto due ottimi praticanti e rigorosi osservanti delle prescrizioni. Sono a disagio, ma devono scegliere. Praticano molto, ma nessuno gli ha insegnato ad amare. Cosa fare?
Tra il rischio di diventare impuri e la possibilità di incontrare l’uomo, scelgono se stessi e la loro religiosità fatta di riti e rituali. Salvano la faccia[6]. Non corrono il rischio: sia il sacerdote che il levita vedono il «mezzo morto» e sia l’uno che l’altro «passò oltre» (Lc 10,31-32). I Giudei timorati di Dio, «passano oltre» in nome della loro religione che può anche uccidere quando è chiusa in se stessa e non si protende al servizio della vita dell’umanità. Il Samaritano, nemico dei Giudei, indemoniato e impuro, invece, che non si sente legato a rituali e a religioni artificiali, che corre il rischio di scegliere tra l’appartenenza ad una setta religiosa e l’appartenenza ad una umanità senza barriere, scoprendo così che Dio stesso è laico e nessuna religione può imprigionarlo. Egli, Samaritano di nascita e di cultura, diventa il volto compassionevole di Dio che si accosta e si fa «prossimo» del suo nemico: anche dell’ebreo. Egli a rigore di logica avrebbe dovuto ammazzarlo, perché uccidere un Giudeo sarebbe stato un suo vanto. Al contrario, lo carica sul suo cavallo, e lo porta in una locanda che i Padri della Chiesa hanno sempre identificato con la Chiesa che cura e risana con i sacramenti dell’olio e del vino. Il Samaritano rivela l’amore di Dio e diventa anche l’espressione della Chiesa. Egli diventa «comunità» per l’uomo solo e moribondo.
Il Samaritano è simile al «pastore bello» che si fa carico delle pecore maltrattate e sfruttate (cf Gv 10,11-14) e al figlio del padrone della vigna venuto a riscuotere la sua parte (Lc 20,9-18). Come il figlio giunge dopo i profeti che Dio ha mandato inutilmente, ora il Samaritano giunge dopo il sacerdote e il levita che non hanno fatto il loro dovere, anzi non hanno esercitato il loro diritto di soccorrere in nome di Dio. Come abbiamo detto nell’introduzione, presentando il testo, forse il racconto lucano è un midràsh di 2Cr 28,15 (v. nota n. 2) che spiegherebbe anche la continuità tra i due Testamenti: abbiamo Samaritani ne Giudei nemici, le stesse cure, la cavalcatura, la stessa città di Gerico come mèta del cammino e della salvezza.
Quanti sentimenti sia agitano nel cuore leggendo questa parabola unica e rivoluzionaria che ci spinge a buttare all’aria la religiosità di consumo e di convenienza, quella che si nutre di processioni e di appariscenze, quella che crede di servire Dio, invece ingrassa se stessa con riti e rituali che sono solo l’espressione della vanagloria degli uomini addetti al sacro. Essi incensano se stessi e credono di onorare Dio, solo perché sono talmente ubriachi di egocentrismo da avere finito di identificare Dio con se stessi e il suo messaggio con le loro idee. E’ impressionante vedere cardinali e prelati vestiti di tutto punto con abiti dorati, che incedono come sopravvissuti àfani e trasognanti, mentre sono ammirati dagli uomini, credendo così di dare gloria a Dio (cf Mt 6,5; cf Gv 12,43). Questo mondo religioso è anche capace anche di uccidere in nome di Dio, magari convinti di fare la sua volontà pur di avere le scene del mondo e l’ammirazione degli uomini.
Al dottore che chiedeva notizie sulla vita eterna, Gesù lo rimanda all’uomo della strada, a quello che ha bisogno di soccorso e di aiuto, all’uomo che giace mezzo morto senza nemmeno un filo di voce per chiedere aiuto; al suo nemico per vivere un’avventura di vita e non una religione del rito. Se il cristiano vuole conquistare la vita eterna, deve prima conoscere e imparare ad amare la vita terrena e in essa come il Samaritano, lasciarsi incontrare dall’escluso, dall’impuro, gli unici che popolano la vita del Signore quando visse nella terra di Palestina. Uno straniero e un nemico è l’unico a sapere rappresentare il vero volto amorevole di Dio. Il dottore voleva scappare da se stesso tergiversando sulla nozione di «prossimo», e Gesù lo costringe ad accorgersi da sé che il «prossimo» è il suo nemico, è l’uomo senza etichetta perché il Dio dell’ebreo Gesù non è ebreo, non è samaritano, non è cattolico, non è religioso: è soltanto Dio nella pienezza della sua divina laicità.
Il dottore è costretto a dire che il «vero prossimo» è colui che ama senza contropartita, colui che si fa carico a perdere, colui che non ha steccati e strutture di divisione, colui che accoglie senza badare agli usi, alle religioni e al rischio: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Di questo spirito è testimone credibile il Samaritano, mentre il sacerdote e il levita, carichi di pratiche e sistemi religiosi ne sono la negazione, non per cattiveria, ma per cattiva educazione, anzi per consuetudine e tradizione. Sono troppo educati ad essere religiosi per essere capaci di umanità. Dove le tecniche religiose della salvezza sono fallite, Cristo giunge come un Samaritano, disprezzato (cf Gv 8,48) e non accolto dai suoi che preferirono le tenebre alla luce (cf Gv 1,1-18).
La parabola è dunque una descrizione di Dio e come spesso avviene nel Vangelo, Dio si compiace di essere rappresentato adeguatamente da coloro che la religione ufficiale dichiara «immondi», come la donna peccatrice pubblica (cf Lc 7,36-50); il lebbroso straniero (cf Lc 17,11-19); il pubblicano nel tempio (cf Lc 18,9-14); il pubblicano Zacchèo (cf Lc 19,1-10); la vedova povera nel tempio (cf Mc 12,41-44) e la samaritana dai cinque mariti (cf Gv 4,1-42). E’ un Dio veramente strano, il Dio di Gesù e sarebbe interessante chiedersi: se venisse oggi dove e da che parte starebbe?
Non basta più nel contesto di Cristo che porta il comandamento dell’amore, amare il «prossimo», cioè quelli della propria casa, bisogna uscire dal particolarismo della propria identità, del proprio orizzonte e mettere come misura delle relazioni umane l’essere e il comportamento di Dio: bisogna amare gli altri come Dio stesso li ama. Non solo, possiamo anche prendere noi stessi come misura: «ama il prossimo come te stesso», ma sapendo che Dio ama perché ciascuno di noi sia in grado di amare come lui ci ha amati (cf Gv 13,34).
La carità/agàpe non è un atto morale per conquistare il paradiso o la vita eterna, come voleva il dottore della Legge, ma è un attestato e una testimonianza, un riflesso dell’amore di Dio che essendo sconfinato può amare senza confini. Qui ci troviamo un passo avanti verso quel vertice di amore che solo Giovanni saprà descrivere in maniera unica e paradossale nei discorsi di addio (cf Gv 13-16).  Ora possiamo comprendere perché la liturgia ci propone la prima lettura sulla vicinanza/lontananza di Dio: Dio è vicino ogni volta che amiamo come lui ci ama; Dio è lontano ogni volta che, pur vivendo di religione e di pratiche religiose, non siamo in grado di amare come Dio/Samaritano. Non ci resta che andare nel mondo e fare anche noi lo stesso se vogliamo vivere (cf Lc 10,28).
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

 
[breve pausa 1-2-3]
 
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.  [breve pausa 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti.         [breve pausa 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale [intenzioni libere]
 
Preghiamo (sulle offerte).Guarda, Signore, i doni della tua Chiesa in preghiera, e trasformali in cibo spirituale per la santificazione di tutti i credenti. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA III[7]
(Prefazio III del Tempo Ordinario:La nostra salvezza nel Figlio di Dio fatto uomo)
 
Il Signore sia con voi.                        E con il tuo spirito.     In alto i nostri cuori.             Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.                 É cosa buona e giusta.


 
E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.
Con l’aiuto dello Spirito Santo, obbediremo alla voce del Signore nostro Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti nel libro del Vangelo (cf Dt 30,10).
 
Abbiamo riconosciuto il segno della tua immensa gloria quando hai mandato tuo Figlio a prendere su di sé la nostra debolezza;
Tu, o Signore, ci convertirai e noi ci convertiremo a te con tutto il cuore e con tutta l’anima (cf Dt 30,10).
 
In lui nuovo Adamo hai redento l’umanità decaduta, e con la sua morte ci hai resi partecipi della vita immortale.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli. Kyrie, elèison! Christe, elèison! Pnèuma, elèison!
 
Per mezzo di lui si allietano gli angeli e nell’eternità adorano la gloria del tuo volto. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci:
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Santo, Santo, Santo, sei, Signore Dio dell’universo. Osanna nell’alto dei cieli.
 
Padre veramente santo, a te la lode da ogni creatura. Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, nella potenza dello Spirito Santo fai vivere e santifichi l’universo,
«Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose» (Col 1,15).
 
e continui a radunare intorno a te un popolo, che da un confine all’altro della terra offra al tuo nome il sacrificio perfetto.
Tu, o Santa Trinità, ci hai creato a immagine del Figlio e ci hai coronato di gloria e onore(cf Sal 8,6).    
 
Ora ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri.
La tua legge, Signore, è perfetta e rinfranca la nostra anima nella testimonianza dello Spirito (cf Sal 19/18,8).
 
Nella notte in cui fu tradito, egli prese il pane, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Il Signore Gesù «è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (cf Col 1,17).
 
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa, principio e primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose(cf Col 1,18).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Ameremo il Signore, nostro Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le nostre forze e il prossimo nostro come noi stessi (cf Lc 10,27; Dt 6,5).
 
Mistero della fede.
Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta.
 
Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo.
Sul nostro cammino, è passato accanto a noi Gesù, il Samaritano, ci vide ed ebbe compassione di noi (cf Lc 10,33).
 
Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito.
Nella santa Eucaristia, egli si fa’ vicino, ci fasciò le ferite con la Parola e  versa nei nostri cuori olio dello Spirito e vino del Messia; poi ci carica sulla cavalcatura dei sacramenti e ci portò nell’albergo della Chiesa, che si prende cura di ciascuno di noi, la santa Assemblea (cfLc 10,34).
 
Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri, e tutti i santi, nostri intercessori presso di te.
«Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”»(Lc 10,35).
 
Per questo sacrificio di riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero. Conferma nella fede e nell’amore la tua Chiesa pellegrina sulla terra: il tuo servo e nostro Papa …, il Vescovo …, il collegio episcopale, il clero, le persone che vogliamo ricordare … NN. ….e il popolo che tu hai redento.
Il ladro viene per rubare, uccidere e distruggere; tu, invece hai mandato il Signore Gesù perché abbiamo la vita in abbondanza (cf Gv 10,10).
 
Ascolta la preghiera di questa famiglia, che hai convocato alla tua presenza nel giorno in cui il Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale.
«Io-Sono il pastore bello che dà la propria vita per le pecore», dice il Signore (Gv 10,11).
 
Ricongiungi a te, Padre misericordioso, tutti i tuoi figli ovunque dispersi.
«Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, o beata Trinità» (cf Ord. Messa).
 
Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo; ricordiamo tutti i defunti… N.N. … concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria, in Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene.
«È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezzae che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,19-20).
 
Dossologia [è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
Tutti: Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, 
ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico:
Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:

Padre nostro che sei nei cieli
Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

Antifona alla comunione (Sal 84/83,4-5 + Lc 10,37): Il buon samaritano ebbe compassione: «Va’ e anche tu fa’ così».
 
Dalla Bibbia
Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio (Lv 19,34).
 
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,4-5).
 
Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio (Rm 15,7).
 


Da Bernard Häring, Nonviolenza. Per osare la pace
La storia dell’Antico Testamento ci mostra due correnti contrapposte, quella della nonviolenza, quale volto dell’amore di Dio, e quella dell’estrema crudeltà perpetuata in suo nome. Gesù ha scelto inequivocabilmente. Egli è l’adempimento della promessa del Servo di Jahvè, nonviolento. Ma spesso la cristianità si è comportata come “mondo senza Dio”, allorché è ricorsa a lui per avere il potere terreno, per la sua bramosia di dominio. Dando più fiducia alla spada che all’amore. Noi della chiesa cattolica abbiamo ufficialmente abbandonato un pericoloso fondamentalismo soltanto durante il concilio Vaticano II, con la dichiarazione sulla libertà di religione e sulla tolleranza. Ma tra i credenti non è scomparsa l’intolleranza violenta. Prima di criticare il fondamentalismo e il fatalismo islamici, dobbiamo chiedere a noi come ci comportiamo con il fondamentalismo violento e intollerante nelle nostre chiese. Di lì seguirà il prossimo passo. Osserviamo con attenzione come alcune parti del mondo islamico hanno reagito nel passato e nel presente al fondamentalismo religioso violento. Come possiamo scoprire nell’Islam anche una preziosa eredità che rende onore al “Misericordioso”. Solo per questa strada, che non è la più lunga, possiamo chiederci come reagire, insieme alle migliori forze e tradizioni dell’Islam, ad ogni fondamentalismo religioso violento. Dobbiamo tutti fare attenzione, affinché il nome di Dio e il nostro di cristiani non vengano mai usati per scopi egoistici, di natura personale o collettiva. Se rimaniamo esemplarmente fedeli al vangelo, rimarremo presto meravigliati di quanti preziosi collaboratori possiamo trovare nell’Islam, come anche nella comunità credente ebrea.
 
Preghiamo. Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la comunione a questi santi misteri si affermi sempre più nella nostra vita l’opera della redenzione. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore risorto sia con tutti voi.       E con il tuo spirito.
Il Signore che si è fatto nostro prossimo, ci guarisca dall’idolatria dell’egoismo,                              Amen.
Il Signore che è il capo del corpo che è la Chiesa, ci doni il gusto della condivisione.                    
Il Signore che si cela dietro ogni samaritano, ci apra occhi e cuore alla comunione.                 
Il Signore che ci svela la giustizia della misericordia, ci doni la gioia dell’universalità.                   
Il Signore sia sempre davanti a noi per guidarci sulla via del Vangelo.
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.                                                 
Il Signore sia sempre accanto a noi per confortarci e consolarci.                                               
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                Amen!
 
La messa come rito «è compiuta» nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia.
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
_________________________
Domenica 15adel tempo ordinario C– Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete
© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete – 11/07/2010– San Torpete,Genova
 
 
 


[1] Lettere alla mamma 1943-1967, Mondadori, Milano 1967, 324.
[2] «Alcuni uomini, designati per nome, si presero cura dei prigionieri. Quanti erano nudi li rivestirono e li calzarono con capi di vestiario presi dal bottino, diedero loro da mangiare e da bere, li medicarono con unzioni; quindi, trasportando su asini gli inabili a marciare, li condussero a Gerico, città delle palme, presso i loro fratelli. Poi tornarono a Samarìa» (2Cr 28,15). Il «midràsh» è un metodo esegetico che appartiene alla tradizione giudaica, iniziato durante l’esilio di Babilonia e sviluppatosi nei secoli successi. Al tempo di Gesù era un modo usuale di leggere e commentare la Scrittura. Il metodo è semplice: si basa sul principio di «leggere la Scrittura attraverso la stessa Scrittura», mettendo in relazioni, parole, frasi, testi uguali o anche solo assonanti per fare emergere significati nuovi e profondi.
[3] Leggendo questo testo, il pensiero corre al documento (motu proprio «Summorum Pontificum») con cui il papa Benedetto XVI liberalizza l’uso del Messale di Pio V del 1570 con il quale induce la Chiesa universale ad assumere l’atteggiamento demoniaco che hanno i nostalgici del passato fino al punto da denigrare e smentire il concilio ecumenico Vaticano II. Pur di accontentare questi «passatisti», non esita ad imporre a «tutta la Chiesa» l’obbligo di celebrare la Messa preconciliare per non chiedere la sottomissione al magistero del concilio che i «tradizionalisti» avrebbero negato. Si nascondo così la testa sotto la sabbia per non vedere lo scempio di coloro che vogliono una Chiesa a loro immagine e somiglianza fino al punto di considerare «eretico» un papa come Paolo VI e lo stesso concilio che loro giudicano «erroneo». Coloro che dovrebbero essere guida per indicare le vie del futuro, fanno la parte del demonio e servono la tentazione, piuttosto che offrire strumenti per superarla.
[4] Non è un gioco, ma la giustizia deve essere certa e giusta per questo, per evitare di sbagliarsi nel contare i colpi, si calcola di darne uno in meno.
[5] Per un esame esegetico del termine, cf. P. Farinella, Il padre che fu madre. Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2010, 170-172.
[6] Anche sulla questione delle pedofilìa dei preti nella Chiesa cattolica per tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, supportato da documenti ufficiali a firma di Joseph Ratzinger (poi Benedetto XVI), si è preferito salvaguardare l’immagine dell’istituzione piuttosto che prendersi cura dei bambini e bambine lasciati «mezzi morti» da chi ne ha abusato per una carenza quasi assoluta di identità affettiva, dovuta ad un sistema formativo basato sulla repressione della sessualità che ha generato mostri per la vita.
[7] La Preghiera eucaristica III è stata composta ex novo su richiesta di Paolo VI in attuazione alla riforma liturgica voluta dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Non ha un prefazio proprio, ma mobile e per questo, forse, ha finito per essere scelta, nella pratica, come la preghiera eucaristica della domenica.


Giovedì 08 Luglio,2010 Ore: 11:27
 
 
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