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www.ildialogo.org Domenica 4a Quaresima –C– 14 marzo 2010 –,

Domenica 4a Quaresima –C– 14 marzo 2010 –

A cura di don Paolo Farinella, prete


La 4a domenica di Quaresima è improntata al tema della gioia. Anticamente in questo giorno si interrompeva il duro digiuno che caratterizzava la Quaresima perché segna la metà del cammino. La prima parola della liturgia è infatti «Laetare – rallegrati» che inizia l’antifona d’ingresso costituita da due versetti del 3° Isaia: «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni» (Is 66,10-11)[1]. Il tema della gioia è il cuore della parabola del «padre che fu madre», di due figli ribelli. La parabola è comunemente conosciuta, in modo riduttivo, come parabola del figliol prodigo.
Al brano di Lc si potrebbero dare molti titoli: parabola della misericordia; parabola del padre misericordioso; parabola delle contraddizioni; parabola dell’impossibile che diventa possibile; parabola dell’amore sconfinato, ecc. Nessun titolo dato finora ha esaurito la prospettiva del capitolo lucano[2]ē» che traduce l’ebraico «rachàm» che richiama l’utero materno nell’atto di generare alla vita. Per questo è «Il padre che fu madre» (v. sotto, nota 6)..  Noi preferiamo il titolo «Il padre che fu madre» perché mette in luce non solo il protagonista principale che è il padre e non i figli che sono due comparse, ma anche perché mette in risalto l’amore generativo che muove il padre dall’inizio alla fine della parabola nei confronti dell’uno e dell’altro figlio. Parlando di questo amore, l’evangelista ricorre ad un verbo greco «esplanghnìst
Quello però che si può dire con certezza è che questa parabola (o meglio tutto il capitolo 15 di Lc) contiene  il cuore del messaggio evangelico e si potrebbe sintetizzare con vangelo di gioia nel senso di «annuncio di gioia» perché il comportamento di Gesù è scandaloso agli occhi del perbenismo moralistico e puritano: egli accoglie, s’intrattiene e parla e mangia con la «feccia dell’umanità» del tempo suo. Tutti coloro che erano al suo tempo condannati, evitati, emarginati, vilipesi, violati e anche odiati diventano i privilegiati del suo vangelo, i beniamini della sua predilezione ai quali annuncia un messaggio pieno di speranza e di gioia. Il tema della gioia, infatti, percorre l’intero capitolo 15 di Lc dall’inizio alla fine, ricorrendo ben otto volte (cf Lc 15,5-6.7.9.10.23. 24.32).
Se volessimo sintetizzare la liturgia considerando tutte le letture e il salmo, potremmo dire: «ritorno a casa». Il popolo d’Israele torna a casa, cioè prende possesso della «promessa» dell’alleanza dopo 400 anni di esilio in terra di Egitto e 40 anni di peregrinazione nomade nel deserto. Il figlio più giovane della parabola lucana lascia la casa e va in esilio «in terra lontana» (torna in Egitto) che scambia per terra della sua libertà. Anch’egli come i suoi antenati nel deserto confonde la libertà con le cipolle e i cocomeri d’Egitto (cf Nm 11,5-6). Vuole una libertà a basso costo, una libertà apparente. Baratta la realtà della sua casa e di suo padre con ciò che è «lontano», con il virtuale che ancora non esiste se non nella sua immaginazione[3].
Lontano dal padre suo, però, egli perde il residuo di libertà che aveva e sperimenta la schiavitù per sopravvivere, scivolando fino all’abisso dell’impurità totale: colui che voleva essere libero «dal» padre si ritrova a pascolare i porci che la Toràh proibisce di mangiare e di toccarne il cadavere perché «immondo» (cf Dt 14,8). I porci lo rifiutano come compagno: «Andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,15-16).
Il figlio ormai schiavo ha nostalgia non della casa di suo padre, ma del «benessere» che in essa aveva sperimento; egli non torna per amore del padre che vede come padrone, ma per necessità, per sfamare la fame: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!» (Lc 15,17). Anche se con motivazione insufficiente, «torna a casa», spinto non dalla sua disposizione del cuore, ma dalla forza del padre che non lo ha mai abbandonato e che come una calamita lo attrae a sé sempre di più. La chiave del «ritorno a casa» dovrebbe essere la consapevolezza del proprio stato come situazione di malessere e rimpianto di ciò che si è perduto e volere riprendere le relazioni spezzate. La Bibbia definisce ciò come «conversione» che in ebraico deriva dal verbo «shûb» che contiene l’idea del cambiamento dopo una discussione a cui segue un giudizio. E’ un termine forense che stabilisce un cambiamento di rotta, dopo ampia valutazione o dibattito. Da esso deriva il sostantivo «teshuvàh» che letteralmente significa «risposta», cioè prendere coscienza della realtà che è stata giudicata e decidere di darvi la risposta adeguata.
Nella 2a lettura san Paolo fa un passo avanti e definisce la «conversione/ritorno» come «riconciliazione» e usa il verbo composto «kata-allàssō» che indica una successione temporale di cambiamento: «io cambio dopo» oppure «cambio in ragione/per il motivo di…» o semplicemente «io cambio perché…». Nella lettura di oggi il verbo ricorre 3 volte e 2 volte il sostantivo «katallagê – cambiamento/riconciliazione». In 2Cor 5,20 si trova un significato particolare perché Paolo usa il verbo passivo: «lasciatevi/fatevi/riconciliare» oppure «permettete di essere riconciliati». E’ la versione paolina della «conversione/ritorno» che radica l’intervento decisivo del cambiamento non nello sforzo o nella volontà della persona, ma nella natura stessa di Dio perché è lui che converte, che cambia, che riconcilia: «ci ha riconciliati» (2Cor 5,18), «è stato Dio a riconciliare» (2Cor 5,19), «lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,20).
La conversione non è un atteggiamento morale basato sulla volontà, ma una disponibilità ad entrare nel «ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18) come opera di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Il profeta Geremia avrebbe usato l’immagine della creta nelle mani del vasaio che la modella e rimodella finché non trova la forma giusta (cf Ger 18,6; Sir 33,13). In termini di teologia, si dice che la conversione come la intende san Paolo è un atto cristologico e da parte dell’uomo acquista il senso antropologico di disponibilità all’incontro che genera il cambiamento: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,17-18).
Dedicheremo l’omelia alla parabola de «Il padre che fu madre» perché è densa, è unica, è un abisso di significati che nessun commento è riuscito ancora ad esaurire ed è anche una parabola sempre attuale. Al suo centro c’è la teologia di Paolo (la giustificazione gratuita) e la fatica dei primi cristiani giudei ad accettare i cristiani provenienti dal mondo greco e considerati pagani. L’accoglienza incondizionata di uomini e donne che i senzaLegge e i senza-Dio chiamano «extracomunitari»[4]«Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.» (Gv 3,18)., è conseguenza diretta della fede nel Dio di Gesù Cristo che non fa differenza tra «giudei e greci». Una sola è la discriminante: accogliere o rifiutare Cristo:
La Quaresima è il tempo dell’accoglienza di Dio che non guarda la nostra etnia, la nostra cultura, le nostre condizioni personali: egli irrompe nella nostra vita e ci chiede di accettare la scommessa dell’amore perché quando si ama si agisce di conseguenza. Chi ama cambia se stesso per adeguarsi alla persona amata alla quale non chiede alcunché come contropartita, ma solo la gioia di lasciarsi amare. Solo chi ama sa abituarsi al cambiamento e sa viverlo come atto d’amore che noi sperimentiamo nell’Eucaristia e che anticipiamo come premessa e promessa del mondo futuro che è la dimensione dello Spirito Santo che invochiamo, introducendoci con le parole dell’antifona (cf Is 66,10-11): «Rallégrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell'abbondanza della vostra consolazione».
 
Spirito Santo, tu ci restituisci la dignità che spesso perdiamo con noi stessi,                     Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu preparasti la prima pasqua per Israele nella Terra Promessa,                 Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu fosti la manna che nutrì Israele per quarant’anni nel deserto,                 Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei il Pane che nutre la Chiesa lungo i sentieri della Storia,                     Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu benedici la terra di Cànaan perché dia frutti abbondanti ,                       Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la benedizione che in noi loda il Signore in ogni tempo,                     Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu rallegri gli umili che ascoltano la Parola del Signore Gesù,                     Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la luce che ci illumina perché possiamo guardare il Signore,  Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci liberi da ogni timore e da tutte le angosce della vita,                           Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la novità del regno che viene a rinnovare la faccia della terra,           Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu sei la riconciliazione che Cristo Gesù ha portato in dono al mondo,          Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu non imputi a noi le nostre colpe, ma ci salvi da noi stessi,                        Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu hai affidato alla Chiesa il ministero della riconciliazione,             Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci disponi perché ci lasciamo riconciliare con Cristo Signore nostro,        Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci rinnovi perché diventiamo la giustizia di Dio ovunque viviamo,            Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu conduci per mano i pubblicani e i peccatori ad ascoltare Gesù,               Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu svuoti in noi ogni mormorio geloso del bene degli altri,                Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu colmasti il cuore del padre di amore infinito versi il giovane figlio,           Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu seguisti il figlio nel paese lontano e lo ancorasti al padre,                        Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu eri dentro il giovane dissoluto per vivificare la sua coscienza,                 Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu fosti la forza che spinse il figlio a decidere di ritornare a casa,                Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu donasti la vista al cuore del padre quando vide il figlio da lontano,           Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu mettesti in bocca le parole di pentimento al figlio ritornato,                     Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ha reintegrato il figlio perduto e ritrovato nell’eredità del Regno,             Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu hai provato a smuovere inutilmente lo sdegno del fratello maggiore,        Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu guidasti il padre ad andare incontro al figlio perduto nella sua casa,         Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci fai sempre ritornare alla mensa della Parola e del Pane,                     Veni Sancte Spiritus.
Spirito Santo, tu ci converti e ci doni la forza di lasciarci convertire da te,                        Veni Sancte Spiritus.
 
Il passaggio del Giordano per entrare in Canaan, la Terra Promessa, descritto nella 1a lettura, è vissuto dal-l’autore del libro di Giosuè come un nuovo passaggio del Mare Rosso con la stessa liturgia, gli stessi impegni e la stessa potenza di Dio che accompagna l’ingresso in quella Terra per la quale tutto ebbe inizio in Egitto. Gli Ebrei finalmente tornano in quella casa che non hanno mai avuto e per la quale hanno peregrinato quarant’anni nel deserto. Il figlio giovane e dissoluto del vangelo torna a casa, richiamato dall’amore del Padre che non lo ha abbandonato mai nemmeno quando chiedeva la sua morte. San Paolo c’invita a tornare sempre a casa attraverso la «parola della riconciliazione». La nostra casa è l’Eucaristia perché qui troviamo la fraternità, la Parola, il nutrimento, il perdono, la condivisione. Entriamo nella casa portando nel nostro cuore l’umanità intera,
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
[alcuni momenti effettivi e congrui di silenzio]
 
Signore, hai purificato Israele nelle acque del Giordano, purifica e perdona,                     Kyrie, elèison!
Cristo, in te il Padre ha voluto riconciliare il mondo che ama, purifica e perdona, Christe, elèison!
Signore, tu ci accogli ogni volta che chiediamo il tuo perdono, purifica e perdona, Pnèuma, elèison!
Cristo, tu non hai conosciuto peccato,ma chiami i peccatori, purifica e perdona,               Christe, elèison!
Signore, che fai festa in cielo per un peccatore pentito, purificaci e perdona,                   Kyrie, elèison!
 
Dio che pose Giosuè alla guida del popolo per introdurlo nella Terra promessa ai Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, che ha scelto il persecutore Paolo come ambasciatore di misericordia e di riconciliazione, che in Gesù Cristo ha riconciliato il mondo, per i meriti dei nostri padri che pellegrinarono nel deserto, che attraversarono il Giordano e per i meriti di Giosuè antenato di Gesù, riconciliazione del Padre nel mistero della Croce, abbia pietà di noi, perdoni i nostri peccati e ci dia la gioia della riconciliazione con lui e con i fratelli e le sorelle. Egli vie e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Preghiamo. O Dio, Padre buono e grande nel perdono, accogli nell’abbraccio del tuo amore, tutti i figli che tornano a te con animo pentito; ricoprili delle splendide vesti di salvezza, perché possano gustare la tua gioia nella cena pasquale dell’Agnello. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Mensa della Parola
Prima lettura Gs 5,9a.10-12. Il brano di oggi narra della sosta che gli Ebrei sotto la guida di Giosuè fecero a Gàlgala piccola montagna tra il Giordano e Gerico a sud-est della Palestina (oggi Djeldjulièh), dove celebrarono la prima Pasqua della Terra Promessa (Canaan). Nasce  così il primo e importante santuario che durerà per oltre due secoli, fino a Davide. Inizia la vita sedentaria dopo quarant’anni di peregrinazione nel deserto. E’ una svolta epocale di civiltà. L’esodo era iniziato con una Pasqua (cf Es 12) e si chiude con la Pasqua. Comincia la nuova creazione: come Adam fu posto nel giardino di Eden di cui è custode (Gen 2,15), così ora Israele è posto in una terra lussureggiante abbondante di frutti (vv. 11-12) di cui diventa responsabile. Cessa la manna perché inizia il compito dell’uomo come collaboratore del Creatore. Il pane e il vino sono i segni visibili del dono di Dio e del lavoro dell’uomo e della donna. Provvidenza e responsabilità vanno di pari passo.
 
Dal libro di Giosuè Gs 5,9a.10-12.
In quei giorni, 9 il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». 10 Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. 11 Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. 12 E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 34/33, 2-3; 4-5; 6-7. Salmo acrostico (ogni versetto è preceduto da una lettera dell’alfabeto ebraico) di cui la liturgia riporta solo la prima parte che è una berakàh – benedizione di ringraziamento a Dio per una liberazione che sfocia nella lode. La seconda parte, assente qui, è una riflessione didattica sul timore di Dio sullo stile dei Proverbi (cf 31,10-31). L’iniziale del primo e dell’ultimo versetto danno origine in ebraico alla parola «alàp» che significa insegnare, mentre il versetto centrale (v. 12) inizia con la lettera «lamed» la cui radice significa «imparare/insegnare»: da ciò i rabbini deducono che l’autore voleva farne un salmo didattico. L’Eucaristia è la grande «berakàh – benedizione» di Dio che ci offre la Parola: in essa conosciamo e impariamo la vera natura del Pane e del Vino.
 
Rit.Gustate e vedete com’è buono il Signore.
1 2 Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
3 Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino. Rit.
2 4 Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
5 Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato. Rit.
3 6 Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
7 Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce. Rit.
 
Seconda lettura 2Cor 5,17-21. Sappiamo che Paolo scrisse ai Corinzi  una «lettere delle lacrime» (2Cor 2,4), forse andata perduta, nella quale Paolo ha dovuto difendersi dalle accuse dei «falsi fratelli» (2Cor 11,26; Gal 2,4), cioè l’ala conservatrice giudaica della prima comunità che non gli perdonava l’apertura ai Pagani. Il brano di oggi è il culmine di questa difesa del ministero paolino che si fonda sull’amore gratuito di Cristo che lo ha chiamato al ministero apostolico, il cui contenuto è soltanto portare il vangelo al mondo. Per cinque volte ricorre il termine «riconciliare/riconciliazione» che ricostruisce le relazioni interrotte con Dio[5]. L’Eucaristia è il luogo privilegiato dove Dio celebra e attua la sua riconciliazione, applica cioè il mistero della Croce all’umanità intera attraverso il nostro ministero di credenti.
 
Dalla seconda lettera di Paolo apostolo ai Corinzi 2Cor 5,17-21
Fratelli, 17 se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. 18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. 19 Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. 20 In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 15,1-3.11-32. Tutto il capitolo 15 di Lc, detto il «vangelo della misericordia», è esclusivo del 3° evangelista che lo costruisce come un commento a Ger 31, dove si incontrano gli stessi temi: il pastore (cf Ger 31,7-14), la donna afflitta (cf Ger 31,15-17) e la «conversione» del primogenito Efraim (cf Ger 31,18-20). Questo procedimento di spiegare la Scrittura con la Scrittura è il metodo del midrash ebraico. Il capitolo contiene due parabole costruite a doppioni: la prima riguarda la coppia pastore-donna (uomo-donna) e riguarda tutta l’umanità; la seconda  riguarda la coppia di fratelli, Israele e la chiesa. Le due parabole servono per illustrare la teologia universalistica di san Paolo che vede il regno di Dio popolato da Giudei e Pagani senza più differenza di privilegi. La discriminante ora è la fede in Cristo o il suo rifiuto. La chiave di tutto il capitolo si trova in Lc 15,1-2: pubblicani e peccatori «si avvicinano» per ascoltare Gesù, mentre farisei e scribi «mormorano» gelosi della salvezza degli altri. Ancora una volta il vangelo ci apre al mistero del Dio di Gesù Cristo: egli è giusto perché perdona. A buon diritto questo capitolo può essere definito come «il vangelo del vangelo».
 
Canto al Vangelo Lc 15,18.
Lode e onore a te, Signore Gesù! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: / Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te. Lode e onore a te, Signore Gesù!
 
Dal Vangelo secondo Luca Lc 15,1-3.11-32
In quel tempo, 1 si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani 2 e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: 11 «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22 Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31 Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». - Parola del Signore.
 
Tracce di omelia
E’ evidente che sulla parabola del vangelo possiamo dedicare solo qualche sprazzo di esegesi[6], fermandoci solo su alcuni passaggi significativi. Una breve parola sul contesto. Il cap. 15 appartiene solo al vangelo di Lc comprende due parabole costruite in forma doppia (uomo-donna/pastore-casalinga e coppia di fratelli) e quindi si suppone che derivi da una fonte conosciuta solo da Lc. Si può dire che Lc 15 è il capitolo della novità del cristianesimo. Se uno domandasse ad un cristiano di fargli la sintesi di tutta la rivelazione in tre parole, egli potrebbe tranquillamente rispondere lapidariamente: leggi Lc 15.
Il capitolo si compone di trentadue versetti divisi nettamente in tre parti. La 1a parte comprende i Lc 15,1-2 che formano l’ambientazione e offrono l’orizzonte di quanto segue e costituisce un problema rilevante: i pubblicani e i peccatori sono contrapposti a farisei e scribi. I peccatori sono in movimento: «si avvicinavano»; i farisei invece sono fermi nella loro paura. I peccatori e i pubblicani si avvicinano per «ascoltarlo», i farisei e i pubblicani invece sono bloccati dal loro «mormorare». I primi rispondono ad un appello e sentono di essere bisognosi della Parola, i farisei e gli scribi invece giudicano e accusano: «mangia con i peccatori» (Lc 15,2). I primi vanno all’incontro, gli altri invece sono prigionieri della loro presunzione. I peccatori e i pubblicani riconoscono la «novità» che li coglie, i farisei e i pubblicani invece sono morti nelle certezze del loro passato. Questi si ritengono giusti e giudicano i primi impuri e indegni di stare accanto a loro, i pubblicani e i peccatori si riconoscono per quello che sono e «si lasciano riconciliare» da Gesù (2Cor 5,20).
            Già i primi due versetti ci dicono quale sia la posta in gioco che può essere formulata in questi termini: chi si salva? Si possono salvare anche i non Ebrei? L’ingresso nella fede, attraverso la predicazione di Paolo, dei cristiani di origine greca sconvolse i primi cristiani di origine ebraica: qual è il senso della promessa fatta ad Abramo se anche i «non-figli» di Abramo ricevono lo Spirito di Dio? (cf At 10). Qual è il senso dell’elezione d’Israele a popolo esclusivo di Dio se anche i pagani hanno accesso alla salvezza, senza alcuna mediazione della Toràh di Mosè? Lc risponde a queste domande con le due parabole di questo capitolo che costituiscono la 2a parte del capitolo con la prima parabola del pastore che ritrova la pecora e della donna che ritrova che ritrova la dramma (cf Lc 15,4-10) e la 3a parte con la parabola del «padre che fu madre» di due figli perduti.
Tutti i commenti parlano di tre parabole: il pastore e la pecora smarrita (cf Lc 15,4-7), la donna e la moneta perduta (cf Lc 15,8-10) e infine il padre i due figli, comunemente conosciuta come parabola del figliol prodigo (cf Lc 15,11-32). Questo è il segno che non si tiene conto del testo letterario che invece è esplicito e inequivocabile. Il testo, infatti, nella sua struttura letteraria che è la chiave più importante che ci consente di capire il pensiero dell’autore, ci rivela che le parabole sono solo due: la prima parabola espone due prospettive, quella maschile e quella femminile, mentre la seconda descrive gli atteggiamenti simili dei due figli «perduti» verso il padre che il vero ed unico protagonista della narrazione.
Se mettiamo in sinossi il testo della 1a parabola in doppia versione vediamo che il canovaccio è lo stesso:
 
3 Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA:

Uomo
Donna
La 2a parte del capitolo infatti comprende Lc 15,4-10 che riporta una sola parabola raccontata da due prospettive diverse: quella maschie (il pastore) e quella femminile (la donna). Il motivo di questa interpretazione è in Lc 15,3 dove espressamente si dice che «disse loro questa parabola» (al singolare) declinata in forma doppia. Infatti la prospettiva femminile non è introdotta da un verbo narrativo, ma da un semplice avverbio: «oppure».
 
8 Oppure
4 Chi di voi
 quale donna,
se ha cento pecore
se ha dieci dramme [monete]
e ne perde una,
e ne perde una,
non lascia le novantanove
non accende la lampada
nel deserto
e spazza la casa
e va in cerca di quella perduta,
e cerca accuratamente
finché non la trova?
finché non la trova?
5 Quando l’ha trovata,
9 E dopo averla trovata,
pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa
 
chiama gli amici e i vicini, e dice loro:
chiama le amiche e le vicine, e dice:
“Rallegratevi con me,
“Rallegratevi con me,
perché ho trovato
perché ho trovato
la mia pecora, quella che si era perduta”.
7 Io vi dico: così
10 Così, io vi dico,
vi sarà gioia
vi è gioia
in cielo
davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore che si converte,
più che per novantanove giusti i quali
non hanno bisogno di conversione.
 

 
La 3a parte del capitolo invece comprende la 2a parabola che rigorosamente parlando è limitata al rapporto tra il padre e il figlio minore (cf Lc 15,11-24) a cui fa da sponda o da corollario il rapporto dello stesso padre con il figlio maggiore (cf Lc 15,25-32) che ne diventa così un prolungamento con lo stesso insegnamento, ma da un diverso angolo di visuale[7]. Anche qui vi sono due prospettive: quella del figlio giovane che potrebbe rappresentare il mondo ellenistico, non ebreo e quella del figlio «anziano» che rappresenta la religione ufficiale dell’ebraismo e la religione perbenista di ogni tempo.
La parabola che abbiamo appena ascoltato potrebbe essere stata inventata di sana pianta da Lc per veicolare il messaggio della salvezza come «grazia gratuita» che rispecchia la predicazione di Paolo e la sua apertura al mondo pagano, non circonciso. Essa può essere considerata il «cuore» del terzo vangelo sia perché ne è quasi il centro fisico (su 24 capitoli, la parabola è al 15°) sia perché costituisce il cuore del messaggio di Gesù e della predicazione di Paolo.
Esaminiamo le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte (vv. 25-32), riportando solo i temi e non il testo che occuperebbe molto spazio[8]:
 
11 E disse:

Figlio giovane (lc 15,11-24)
Figlio maggiore (Lc 15,25-32)
Atteggiamenti
E’ in casa (= dentro)
E’ nei campi (= fuori)
I due figli, il più giovane e il maggiore sono simboli di due atteggiamenti: un abisso li separa dal padre, ma anche tra di loro vi è una somiglianza, ma non esiste alcuna comunicazione tra fratelli che non sia distruttiva: dall’atteggiamento del maggiore si capisce che i due si odiano di tutto cuore. Sono stranieri in «casa», la negazione della fraternità pur vivendo insieme con padre. Il figlio minore è lontano, ma pensa alla casa, il fratello che è sempre in casa, non è mai entrato nell’affetto di famiglia. Non basta «stare fisicamente» nella Chiesa per «essere col Padre»[9].
Lascia la casa (= fuori)
Torna a casa (= dentro)
Va’ in un paese lontano
Non entra, ma resta «vicino»
Commensale dei porci
Tu sei sempre con me (dice il padre)
Il padre gli corse incontro
Il padre uscì a chiamarlo
Padre, ho peccato contro di te
Non mi hai mai dato un capretto
Il padre fa festa
Il padre invita alla festa
perché «questo mio figlio»
perché «questo tuo fratello»
° da morto è tornato in vita
° da morto è tornato in vita
° da perduto è ritrovato
° da perduto è ritrovato

 
L’intero capitolo di Lc 15, a nostro avviso, è un «misdrash» di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo del profeta. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù. Ger 31,31 è il vertice dell’AT perché il profeta parla di alleanza nuova. Questa espressione agli orecchi di un ebreo suona come una abiura, una bestemmia perché non può esistere una «nuova» alleanza in sostituzione dell’unica e sola alleanza con Abramo, solennemente rinnovata al Sinai nel segno della Toràh (cf Es 19). Eppure Geremia annuncia una «alleanza nuova» che Gesù assume come caratteristica della sua missione, svelandone il contenuto della «novità»: la novità di Dio è la «misericordia»  che diventa così la cifra del Regno di Dio inaugurato da Cristo.
Nel momento supremo della sua vita, quando Gesù si consegna nel «memoriale» del pane e del calice, riprende le parole di Geremia: «Prese il calice e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue sparso per voi» (Lc 22,20). Il Dio di Adamo, di Abramo, di Mosè, il Dio dell’esodo è il Dio di Gesù Cristo che assume il volto del Padre «misericordioso» (Gv 1,18). Leggendo l’AT i primi cristiani annotavano in margine i riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica[10]. Lc per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato della nostra condizione, ci ha regalato il capitolo 15 del suo vangelo, la perla del NT, il monumento al Dio giusto perché ama che possiamo anche definire come «il vangelo del vangelo». Anche se perdessimo l’intera Bibbia e conservassimo solo il capitolo 15 del vangelo di Lc, pensiamo che nulla sarebbe perduto perché avremmo l’essenza della rivelazione, il cuore dell’anima di Dio.
            Nel testo di Geremia, Èfraim dichiara il suo smarrimento e il suo desiderio di ritornare, pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio-Padre risponde con accenti di tenerezza, dichiarandolo non solo «figlio prediletto» (Ger 31,20), ma evidenziando la commozione delle sue viscere. Allo stesso modo il figlio minore della parabola lucana si pente, fa i suoi calcoli e ritorna alla casa paterna, mentre il padre alla vista del figlio ancora lontano sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che quel figlio ha generato (cf Lc 15,20b).
In Geremia la conclusione di questo nuovo modo di agire di Dio porta ad una alleanza nuova (cf Ger 31,31) perché non più scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore: «Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31,33), un amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro che l’hanno perduta perché l’amore è generativo o è solo una mano di vernice buonista che oggi c’è e domani scompare:
 
«Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. 32 Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. 33 Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. 34 Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
 
Ecco alcune pennellate straordinarie:
1)      Il figlio minore secondo la legge ha diritto all’usufrutto non al patrimonio di cui può disporre solo alla morte del padre. Chiedendo «quello che gli spetta», egli invoca la morte del padre prima della morte: egli ha intenzione omicida. Il figlio vuole la natura del padre, la sua vita perché gli chiede di fare testamento, senza aspettarne la morte[11].
2)      Il testo greco non dice che il padre spartì le sostanze, ma dice che «divide tra loro “tòn bìon”» (Lc 15,12), cioè la vita sua. Il padre celebra l’eucaristia con i figli che bramano la sua morte: «Preso un pane [= la sua vita]… lo spezzo e lo diede loro: “Questo è il mio corpo che è dato per voi”» (Lc 22,19; cf Mc 14,22). Il padre sa che la sua vita non gli appartiene perché la sua vita sono i suoi figli tra i quali la divide. Egli è condannato dalla paternità a morire per essi: «Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (cf Gv 15,13).
3)      Il figlio raccolte «tutte le sue cose» non indugia, ma «partì per un paese lontano», abbandonando così la terra d’Israele e quindi il tempio, il Dio dei padri, in una parola l’alleanza. «Paese lontano» è sinonimo di «paese pagano». Andando lontano, infatti, «visse da dissoluto» che non rende la forza traumatica del testo greco che usa l’avverbio di modo «asôtos» che alla lettera significa «senza salvezza», cioè da apòstata e senza Dio.
4)      Il figlio minore non sperpera del suo, ma dilapida la vita del padre. Non si rende conto che egli è scappato lontano dal padre, ma si è portato dietro la sua vita che adesso lo segue dovunque egli vada. Il figlio crede di essere «grande» e non sa che la sua grandezza è nel padre che è dentro di lui e nel suo peccato perché egli sta vivendo non di vita propria, ma con la vita paterna che sta gettando via.
5)      Il figlio che «prese tutte le sue cose», si trova «nudo» e vuoto. Voleva tutto, ha niente, anzi meno di niente perché si riduce in schiavitù. La carestia è l’evento imprevisto della storia che dall’esterno lo costringe a pensare al di là dei progetti originari: ora avanza la fame e la miseria. Non c’è più nulla sperperare, la vita del padre si è dissolta e non gli resta che affidarsi ad un padrone «di quella regione», anzi ancora peggio: «ad uno qualsiasi di quella regione», che non trova di meglio che collocarlo al livello dei «porci». IL testo greco non dice che «si mise al servizio», ma che «s’incollò» al padrone dei porci: è il verbo che esprime l’unione sessuale tra uomo e donna, dunque il verbo dell’intimità che permette a due affini di aderire l’uno all’altro in vista di una comunione che è trasfusione di vita. Il degrado è totale: per un ebreo è proibito anche allevare porci e il contatto con loro rende inabili al culto e impuri. Gli stessi porci non lo riconoscono perché non gli lasciano nemmeno le carrube che egli pure desiderava.
6)      Il «ritorno a casa» non è un atto di conversione o di pentimento, ma il rimpianto del benessere: non ha più nulla e rimpiange quello che aveva lasciato. Il motivo iniziale non è di pentimento né di amore per il padre, ma un atteggiamento assolutamente egoista e interessato. Ha sperperato il padre e ora ne vorrebbe consumare anche le briciole. Non si chiede cosa vive e prova il padre, non pensa al suo dolore, egli ora vede ilo «padre» come «padrone»: i salariati stanno meglio di lui. Preferisce vivere da schiavo sazio, piuttosto che da libero affamato. Egli torna per sé, non torna per amore del padre.
7)      Anche se la motivazione iniziale di un comportamento spesso non è autentica, può però camminando specificarsi e diventare genuina: importante è arrivare alla fine del percorso e valutare nell’insieme. Una conversione può iniziare in modo improprio, ma può raggiungere vertici inauditi. Il figlio non torna perché spinto da motivazioni «alte» o dal pentimento della sua scellerata scelta e nello stesso tempo non si accorge che è la forza dell’amore del padre a chiamarlo e a spingerlo a tornare a casa. E’ il padre a salvarlo e tenere in vita l’esile filo della relazione affettiva che lo strapperà dal paese lontano, lo scollerà dal padrone dei porci e lo riporterà nell’alleanza e nel recinto del tempio dove potrà di nuovo diventare membro del suo popolo e figlio del comandamento, E’ la forza della presenza invisibile del padre che gli fa riprendere la strada del ritorno.
8)      Il padre non lo vede ancora fisicamente, ma da lontano lo «sente» perché non ha cessato di avere nel cuore quel figlio insensato. Gli corre incontro e gli «casca sul collo» (Lc 15,20) cioè gli si butta addosso coprendolo tutto con il suo corpo. Il verbo greco è «epèpesen» che deriva da «epipìptō», verbo onomatopeico che significa «mi getto/cado su/assalgo/scendo sopra» che esprime irruenza decisa e improvvisa. Si potrebbe dire «precipitò». Immediatamente prima il testo dice una cosa straordinaria perché spiega il motivo per cui il padre và all’assalto del figlio, investendolo con la sua persona. Il verbo usato è intraducibile: «esplanghnìsthē» che le Bibbie traducono con «commosso» che è povera traduzione. La «splànghna» traduce l’ebraico «raham/rahamìm» che indica l’utero materno in procinto di schiudersi per generare. L’idea espressa è la seguente: il padre riprende quel figlio che gli ha preso la vita e che ora ritorna senza vita e senza dignità, lo riaccoglie nel suo ventre paterno/materno e lo rigenera di nuovo.
9)      Il figlio prova a ripetere il discorsetto che aveva mandato a memoria, ma non fa in tempo a pronunciarlo perché è invaso dalla valanga della paternità che strozza anche l’imperfezione della motivazione del figlio. Non è figlio che ritorna o si pente, ma è il padre che ora lo riprende e lo ri-salva, alla lettera «lo fa risorgere». Il padre non ha bisogno delle parole del figlio: gli basta l’amore delle sue viscere. Per la cultura orientale un padre o uno esercitante l’autorità che si mette a correre perde la faccia e la sua credibilità. Il padre non si preoccupa di sé, della sua credibilità o del suo onore, ma solo del figlio che solo il suo amore ha portato alla vita. Il figlio prova ad impietosire il padre con la poesia che ha imparato a memoria, ma il padre non lo lascia finire e se lo abbraccia, rigenerandolo nuovamente alla vita. Non è mai padri/madri per caso.
10)   Segue la gioia che connota il rito dell’investitura attraverso tre gesti: anello, veste e calzari sono i simboli che porta l’erede legittimo: l’anello reintroduce nell’eredità, la veste ridona la dignità di figlio e i calzari restituiscono l’autorità del comando. Il figlio che non aveva e non avrebbe più alcun diritto, riceve di nuovo tutto solo per grazia e per amore. Ora è veramente l’erede ufficiale.
11)   Il figlio maggiore che il testo greco definisce «presbýteros – più anziano» è peggiore del fratello minore perché è più lontano lui da suo padre che non il fratello che si è allontanato di casa. Questi se n’era andato lontano fisicamente, mentre il maggiore, pur stando fisicamente in casa, è sempre stato lontano col cuore, aspettando che il padre morisse per ereditare «la roba». Tra i due figli degeneri, il peggiore è l’anziano, modello di ogni perbenismo interessato e della religione del dovere che non conosce alcun afflato d’amore.
12)   Egli scarica sul padre la sua taccagneria: lui che poteva prendere tutti i capretti che voleva e quando voleva, non lo ha preso per non impoverire la sua «roba» e ora accusa il padre della sua grettezza. Forse ha gioito quando il fratello è scappato via; e infatti ora è arrabbiato per il suo ritorno, fino al punto che non vuole entrare in casa e partecipare alla festa del ritorno. Strano comportamento dei due figli: il minore che sembra più spericolato esce ed entra da casa, mentre il maggiore, che formalmente  è sempre fuori della casa, tanto che ancora una volta è il padre a dovere andargli incontro.
13)   Il figlio «anziano/presbitero» è geloso della salvezza del fratello che non riconosce come tale perché non lo chiama mai «mio fratello», ma lo indica sempre come figlio del padre: «questo tuo figlio»: si sente estraneo in casa e sente gli altri estranei a sé stesso. Il padre invece lo rimanda sempre alla fraternità: «questo tuo fratello». A lui però non importa che il fratello si salvi, gli preme salvare la proprietà di cui è avido guardiano. Il padre va incontro anche a lui che resta fuori della casa e il testo ci lascia sospesi, lasciandoci l’amaro in bocca e quasi la certezza che quel figlio, il «presbitero» si sia rifiutato di entrare alla festa della vita.
 
Questa parabola richiama altre parabole del vangelo. I due fratelli dai comportamenti rovesciati: il padre li manda nella vigna e uno dice no e poi obbedisce, l’altro dice , ma poi non obbidisce (cf Mt 2128-31); il fariseo e il pubblicano al tempio: uno in fondo al tempio chiede perdono, l’altro si gonfia di vanagloria (cf Lc 18,9-14). Un altro elemento che attraversa la parabola è il capovolgimento delle situazioni: il minore prende il posto del maggiore cioè la grazia subentra al diritto. Il procedimento secondo cui il figlio minore subentra al fratello maggiore ribaltando i diritti naturali della primogenitura è una costante nella Bibbia tanto da formarne una ossatura. Il comportamento di Dio è la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale e chi crede di contare è espulso[12]. E’ una legge che pervade tutta la Scrittura anche attraverso celebri coppie di fratelli: Caino ed Abele (Gen 4,1-20); Esaù e Giacobbe (25,19-34); Zerach e Perez (Gen 38); Manasse ed Efraim (Gen 48, 14-20); Davide e i suoi sette fratelli (1Sam 16,1-13). Il cantico di Maria, il Magnificat, è il punto di arrivo di questo procedimento, quasi di questa regola biblica: «ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,51-55, qui 53).
L’insegnamento della parabola non riguarda il rituale di penitenza che di solito si fa nella Quaresima, prendendo come modello di conversione il «figliol prodigo» che è anche una violenza sul testo. Esso invece riguarda la natura stessa della fede radicata nella cristologia: con la venuta di Cristo non possono più esistere zone di emarginazione o categorie di persone escusse. Coloro che sembrano fuori sono parte dell’amore del Padre e pertanto nella chiesa ci deve essere posto per tutti, senza esclusione di lingua, razza, coloro, cultura, civiltà. La discriminante è la fede nel Padre di Gesù Cristo che si svela anche come Madre: Rembrandt (Hermitage, St. Petersburg) ha capito perfettamente questo perché raffigurando il padre misericordioso lo dipinge con una mano maschile e una femminile. Se siamo cristiani non possiamo che fare una cosa sola: andare sulle strade del mondo e fare come il padre della parabola lucana perché la Chiesa di Cristo è la casa di tutti, di tutta l’umanità. L’universalità della fede si traduce nella fecondità dell’amore sconfinato, un amore senza ragioni e senza paure. Per questo preferiamo parlare di «Padre che fu madre».
 
Professione di Fede (rinnovo delle promesse battesimali)
Nella 3a domenica di Quaresima, sostiamo alla sorgente del nostro battesimo e rinnoviamo le promesse della nostra fede perché il nostro cammino verso la Pasqua sia segnato dalla fede che illumina i nostri passi e le nostre decisioni, in comunione con i cristiani che oggi in tutto il mondo rinnovano la stessa professione di fede.
 
Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra? Credo.
 
Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? Credo.
Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? Credo.
 
Questa è la nostra fede. Questa è la fede della Chiesa. Questa fede noi ci gloriamo di professare in Cristo Gesù nostro Signore. Amen.
 
Preghiera universale [Intenzioni libere]
 
LITURGIA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
 
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24),
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna. Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiera sulle offerte. Ti offriamo con gioia, Signore, questi doni per il sacrificio: aiutaci a celebrarlo con fede sincera e a offrirlo degnamente per la salvezza del mondo. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA DELLA RICONCILIAZIONE I
LA RICONCILIAZIONE COME RITORNO AL PADRE
Il Signore sia con voi                 E con il tuo spirito.    In alto i nostri cuori       Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio                          E’ cosa buona e giusta.
 
E’ veramente giusto renderti grazie, Padre santo, Dio di bontà infinita. Tu continui a chiamare i peccatori a rinnovarsi nel tuo Spirito e manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono.
Ti abbiamo cercato, Signore, e ci hai risposto e da ogni timore ci ha liberati(cf Sal 34/33,5).
 
Molte volte gli uomini hanno infranto la tua alleanza, e tu invece di abbandonarli hai stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù, tuo Figlio e nostro Redentore: un vincolo così saldo che nulla potrà mai spezzare.
Poveri siamo e gridiamo a te, Padre misericordioso; tu ascolti e ci liberi da tutte le angosce(cf Sal 34/33,7).
 
Anche a noi offri un tempo di riconciliazione e di pace, perché affidandoci unicamente alla tua misericordia ritroviamo la vita del ritorno a te
Ci alzeremo dalla nostra pigrizia e ritorneremo dal Padre nostro che è nei cieli (cf Lc 15,17).
 
E aprendoci all’azione dello Spirito Santo viviamo in Cristo la vita nuova, nella lode perenne del tuo nome e nel servizio dei fratelli.
Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
 
Per questo mistero della tua benevolenza, nello stupore e nella gioia della salvezza ritrovata, ci uniamo all’immenso coro degli angeli, dei santi e delle sante del cielo e della terra per proclamare la tua gloria:
Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli. Kyrie, elèison! Christe, elèison!
 
Padre veramente santo, fin dall’origine del mondo tu ci fai partecipi del tuo disegno di amore, per renderci santi come tu sei santo.
In Cristo ci hai generati creature nuove: egli ci ha riconciliati con sé mediante il ministero della riconciliazione (cf 2Cor 5,17-18).
 
Guarda il popolo riunito intorno a te e manda il tuo Spirito, perché i doni che ti offriamo diventino il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, Gesù Cristo, nel quale anche noi siamo tuoi figli.
Tu, o Padre, hai riconciliato a te il mondo in Cristo, non imputandoci le loro colpe (cf 2Cor 5,19).
 
Eravamo morti a causa del peccato e incapaci di accostarci a te, ma tu ci hai dato la prova suprema della tua misericordia, quando il tuo Figlio, il giusto, si è consegnato nelle nostre mani e si è lasciato inchiodare sulla croce.
Veniamo alla santa Eucaristia perché ora è il momento favorevole, ora è il giorno della salvezza! (2Cor 6,2)
 
Prima di stendere le braccia fra il cielo e la terra, in segno di perenne alleanza, egli volle celebrare la Pasqua con i suoi discepoli.
Come i pubblicani e i peccatori ci siamo avvicinati a Gesù, Lògos eterno, per ascoltarlo invocando: Maranà thà! Signore nostro, vieni (cf Lc 15,1 e 1Cor 16,22).
 
Mentre cenava, prese il pane e rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzo, lo diede loro, e disse:
PRENDETE, E MANGIATENE QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Un uomo aveva due figli … Il Signore Gesù prese la sua vita e la divise tra i discepoli (cf Lc 15,11-12).
 
Prese il calice del vino e rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Noi alziamo il calice della salvezza e invochiamo il tuo Nome santo, Signore: Maranà thà! Signore nostro, vieni (cf Sal 116/115,13 e 1Cor 16,22).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
E’ la pasqua del Signore! Andiamogli incontro con i fianchi cinti, i saldali ai piedi e il bastone in mano (cf Es 12,11).
 
Mistero della fede.
Tu ci hai redenti con la tua croce e la tua risurrezione: salvaci, o Salvatore del mondo.
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, nostra Pasqua e nostra pace,  in attesa del giorno beato della sua venuta alla fine dei tempi, offriamo a te, Dio vero e fedele, questo sacrificio che riconcilia nel tuo amore l’umanità intera. 
«Il Signore Gesù non ha conosciuto peccato, ma tu, Padre, lo hai trattato da peccato in nostro favore, perché potessimo diventare per mezzo di lui tua giustizia  (cf 2Cor 5,21).
 
Guarda, o Padre, questa tua famiglia, che ricongiungi a te nell’unico sacrificio del tuo Cristo, e donaci la forza dello Spirito Santo, perché vinta ogni divisione e discordia siamo riuniti in un solo corpo.
Non vogliamo saziarci con le carrube che mangiano i porci, ma desideriamo il pane disceso dal cielo che è il corpo del Signore(cf Lc 15,16).
 
Custodisci tutti noi in comunione di fede e di amore con il nostro Papa …, il nostro vescovo …, con tutti coloro che oggi si convertono al tuo amore, le persone che incontriamo, i nostri cari… [silenzio] e quelli che non amiamo abbastanza. 
Per la forza della Parola ascoltata, ci convertiamo a te, Dio di misericordia: anche se pecchiamo contro il cielo e contro di te, abbiamo un avvocato che lo Spirito del Signore Gesù morto e risorto per noi (cf Lc 15, 17,18).
 
Aiutaci a costruire insieme il tuo regno fino al giorno in cui verremo davanti a te nella tua casa, santi tra i santi, con i Padri e le Madri d’Israele e con la beata Vergine Maria e gli Apostoli, 
Tu, Padre ci hai raggiunto, prima ancora che noi giungessimo al tuo altare e scosso nel tuo intimo ci hai accolti e rigenerati con il bacio della pace (cf Lc 15,20).
 
Ricordati, Padre, dei nostri defunti che affidiamo  a te… N. N…. ricco di grazia e di misericordia, di coloro che muoiono oggi e giungono davanti al trono del tuo giudizio, ma tu, nostro Redentore, cambia la misura della giustizia nella misura della misericordia.
Con la santa Eucaristia ci restituisci l’anello dell’ereditò, la veste della dignità e i calzari della’agàpe autorevole perché possiamo fare festa perché tu ci hai fatti tornare in vita (cf Lc 15,22-24).
 
Allora nella creazione nuova, finalmente liberata dalla corruzione della morte, canteremo l’inno di ringraziamento che sale a te dal tuo Cristo vivente in eterno.
 
Dossologia[è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
PER CRISTO, CON CRISTO E IN CRISTO, A TE, DIO, PADRE ONNIPOTENTE, NELL’UNITA DELLO SPIRITO SANTO, OGNI ONORE E GLORIA, PER TUTTI I SECOLI DEI SECOLI. AMEN.
 
Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i  nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishiàAmen!

Antifona alla comunione (Lc 15,32): «Rallégrati, figlio mio, perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
 
Dopo la Comunione (Da Giorno per giorno del 05 marzo 2007 della Comunità di base del Barrio, Brasile)
 
Proponiamo una proposta di riconciliazione storica, avanzata dall’ambasciatore Guaicaípuro Cuatemoc, un messicano di ascendenza indigena al summit Capi di Stato dell’Unione Europea-America Latina e Caraibi, tenutosi a Madrid il 16 e 17 maggio 2002. Il testo è bello, ironico, caustico e storicamente esatto.
 
«Consta nell’archivio della Compagnia delle Indie Occidentali che, solo tra il 1503 e il 1660, arrivarono a San Lucas de Barrameda 185 mila chili di oro e 16 milioni di chili d’argento, provenienti dall’America. [...] Frutto di un saccheggio? [...] Una frode? [...] Un genocidio? [...] No, questi 185 mila chili di oro e 16 milioni di chili d’argento sono stati solo il primo di tanti prestiti amichevoli che l’America ha destinato allo sviluppo dell’Europa. [...] Bene, vogliamo chiarire che non ci abbasseremo ad esigere dai nostri fratelli europei gli stessi tassi vili e sanguinarie del 20-30 % di interessi annui che i fratelli europei esigono dai popoli del Terzo Mondo. Ci limiteremo ad esigere la restituzione dei metalli preziosi, accresciuta di un modico interesse del 10%, accumulato durante gli ultimi 300 anni, condonandogli in tal modo 200 anni. Su questa base e applicando la formula europea degli interessi composti, informiamo i nostri scopritori che essi ci devono 185 mila chili di oro e 16 milioni di chili d’argento, entrambe le cifre elevate alla potenza di 300. Si tratta di un valore per esprimere il quale sarebbero necessarie più di 300 cifre, e perciò di un peso che supera abbondantemente il peso totale del pianeta Terra. Pesano molto queste quantità di oro e argento. Quanto peserebbero, calcolate in sangue? Ammettere che l’Europa, in mezzo millennio, non è riuscita a generare ricchezze sufficienti per pagare questo modico interesse, sarebbe come ammettere il suo assoluto fallimento finanziario e/o l’irrazionalità demenziale dei presupposti del capitalismo. Ma tali questioni metafisiche, evidentemente, non inquietano noi amerindi. Tuttavia esigiamo la firma di una Lettera d’intenti che disciplini i popoli debitori del Vecchio Continente e che li obblighi a mantenere i suoi impegni mediante una rapida privatizzazione o riconversione dell’Europa, che consenta loro di consegnarcela per intero, come primo pagamento del debito storico».
 
Da Don Primo Mazzolari, «Tu non uccidere»:
La nonviolenza non va confusa con la non-resistenza. Nonviolenza è come dire: “no” alla violenza. È un rifiuto attivo del male, non un’accettazione passiva. La pigrizia, l’indifferenza, la neutralità non trovano posto nella nonviolenza, dato che alla violenza non dicono né si né no. La nonviolenza si manifesta nell’impegnarsi a fondo. La nonviolenza può dire con Gesì: “Non sono venuto a portare la pace ma la spada”. Ogni violento presume di essere coraggioso, ma la maggior parte dei violenti sono dei vili. Il nonviolento, invece, nel suo rifiuto a difendersi è sempre un coraggioso. Lo scaltro, che adula il tiranno per trarne profitto e protezione, o per tendergli una trappola, non rifiuta la violenza bensì gioca con essa al più furbo. La scaltrezza è violenza, doppiata di vigliaccheria ed imbottita di tradimento. La nonviolenza è al polo opposto della scaltrezza: è un atto di fiducia dell’uomo e di fede in Dio, è una testimonianza resa alla verità fino alla conversione del nemico. [...] Spesso, più che al male, ci si oppone agli uomini che fanno il male, i quali sono degli infelici ancor prima di essere dei colpevoli. Il nonviolento rifiuta di portarsi sul piano del violento, costringendo piuttosto questi a salire sul suo e a combattere con la forza l’idea. La rotta del realismo politico incomincia quando il violento è obbligato a scoprirsi qual è, ed è allora che si butta massicciamente e da persecutore contro lo spirito. Tale comportamento fa cadere la maschera idealistica dell’egoismo, che è il vero movente di ogni violenza. Una volta caduta la maschera, la vittoria dello spirito albeggia, sia pure lontana. La nonviolenza è la cosa più nuova e la più antica; la più tradizionale e la più sovversiva; la più santa e la più umile; la più sottile e difficile e la più semplice, la più dolce e la più esigente; la più audace e la più savia, la più profonda e la più ingenua. Concilia i contrari nel principio; e perciò riconcilia gli uomini nella pratica. (Primo Mazzolari, Tu non uccidere).
 
Preghiera dopo la comunione
O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa’ risplendere su di noi la luce del tuo volto, perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore morto e risorto, di cui abbiamo celebrato il memoriale sia con voi.        E con il tuo spirito.
Il Dio che esercita la giustizia attraverso la misericordia, vi colmi della sua benedizione.  
Il Dio che accoglie e perdona senza misura, vi doni la sua pace evi apra alla speranza.               
Il Dio che gioisce per ogni peccatore pentito, ci preceda, ci accompagni e ci consoli.
Il Dio innamorato che non si rassegna alla perdita di un figlio, vi liberi da ogni egoismo.
Il Dio lento all’ira e grande nell’amore mandi lo Spirito a guidarci sulle vie del mondo.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                     Amen.
 
La Messa finisce come rito, la Messa comincia come testimonianza di vita. Andiamo incontro al Signore nella storia, diventando anche noi segni di misericordia e di pace.
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
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© Domenica 4a di Quaresima –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete – Genova Paolo Farinella, prete 14/03/2010
 


Appendice
Nell’omelia abbiamo accennato che i primi cristiani applicavano l’esegesi giudaica nella lettura della Scrittura sia dell’AT che era comune a Ebrei e Cristiani, ma anche alla vita e all’insegnamento di Gesù che si cominciava a mettere per iscritto. Uno di questi metodi è il «midrash» che in parole molto semplici si potrebbe definire come il metodo che spiega la Scrittura con la Scrittura. In ebraico midràsh (plurale midrashìm) deriva dal verbo «daràsh» che nell’AT e a Qumrân significa ricercare, scrutare, esaminare, studiare. La tradizione rabbinica poi l’ha utilizzato come metodo d’interpre-tazione della Scrittura: si parte dal senso letterale per giungere a quello profondo e nascosto per attualizzarlo adattandolo ai bisogni nuovi e trarne applicazioni pratiche per la vita. In altre parole, si legge la Sacra Scrittura alla luce della situazione nuova che si viene a creare attraverso il richiamo di una parola o di un detto. Se si mettono a confronto Lc 15 e Ger 31 si nota che l’evangelista ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi del profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio.
 
a)   Il pastore. Ger 31,10-14 presenta il Signore come un pastore premuroso alla ricerca delle pecore «disperse» per radunarle in un solo ovile con un cambiamento radicale della situazione: il lutto è cambiato in gioia e tutti partecipano al nuovo «Eden» (Ger 31,12). Ispirandosi a questo testo Lc 15,4-7 parla di un pastore che va alla ricerca di una pecora perduta per riportarla nel gregge messo al sicuro. Nel profeta e in Lc esplode la gioia dei radunati (Ger 31,12) e del pastore che festeggia la salvezza della pecora ritrovata e l’unità del suo gregge.
 

Ger 31,10-14
Lc 15,4-7
10b Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come un pastore il suo gregge, 11 perché il Signore ha redento Giacobbe, lo ha riscattato dalle mani del più forte di lui.
4 "Quale uomo di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?
12 Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion.., Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più. 13 Allora si allieterà la vergine della danza; i giovani e i vecchi gioiranno.
5 Ritrovatala, se la carica sulle sue spalle tutto contento, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora perduta”.
Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni. 14 Sazierò di delizie l’anima dei sacerdoti e il mio popolo abbonderà dei miei beni.
7 Io vi dico che così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

 
b)   La donna. Il profeta parla della matriarca Rachele che piange i suoi figli perduti come esuli in terra d’esilio, dove moriranno. Il disegno di Dio, però, non è questo: i figli dispersi ritorneranno e compiranno così la speranza della madre: rivederli di nuovo dentro i confini della casa/Israele. L’immagine di afflizione disperata diventa in Lc la donna che perde un «tesoro», ma non dispera di ritrovarlo fino a quando non lo avrà trovato.

Ger 31,15-17
Lc 15 8-10
15 Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più.
8 Oppure quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo:
16 Dice il Signore: “Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene;
“Rallegratevi con me,
essi torneranno dal paese nemico.
perché ho ritrovato la dramma perduta”.
17 C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini”.
10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

 
c)   Il figlio minore. Il profeta Geremia parla di Efraim, il figlio minore di Giuseppe e Asenèt sua sposa egiziana (Gen 41,52; 46,20; Nu 26,28). Efraim riceve la primogenitura al posto del fratello maggiore Manasse (Gen 48,1-22 [specialmente vv. 14.17-19]).

Ger 31,15-17
Lc 15 8-10
18 Ho udito Efraim rammaricarsi: Tu mi hai castigato e io ho subito il castigo come un giovenco non domato. Fammi ritornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore mio Dio.
12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
19Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto, mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza.
17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
20 Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente.
 
22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l`anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza”. Oracolo del Signore.
20b Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.

 
 
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© Nota. Supplemento a Domenica 4a di Quaresima –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete – Genova Paolo Farinella, prete 14/03/2010.
 
Associazione di promozione culturale «San Torpete»
Tel. 010 2468777 – e-mail: paolo_farinella@fastwebnet.it
 
CALENDARIO DELLE ATTIVITÀ CULTURALI
 
Per «I mercoledì di San Torpete» presentiamo cinque incontri di elevato spessore culturale che volentieri la Parrocchia di San Torpete offre alla città di Genova per resistere all’arroganza del potere sempre più ignorante. Il primo atto rivoluzionario per difendere la Costituzione e la Democrazia, è conoscere, pensare, approfondire, capire. A questo scopo proponiamo due conferenze, tre libri e una esposizione artistica, secondo il calendario seguente:
 
1.    Mercoledì 24 marzo 2010, ore 17,00 (17,15) il prof. Vittorio Coletti, docente di Storia della lingua italiana all’università di Genova ci intratterrà su «L’Italiano e le altre lingue». In un mondo multiculturale e interconnesso, prendere coscienze che le lingue non nascono a caso,m ma sono anch’esse figlie e sorelle di qualcuno, ci aiuta ad vivere meglio le realtà che viviamo.
 
2.    Mercoledì 7 aprile 2010, ore 17,00 Il dottor Domenico Calcagno, operativo all’ospedale di Sestri presenterà il suo libro: «Circoncisione. Dalla selce al bisturi» (Editrice Araba Fenice). Abbiamo scelto questo libro perché attraverso la storia e la medicina ci apre a mondi e culture non occidentali, ma dai quali proveniamo e dai quali ci siamo distaccati. Se vogliamo vivere il futuro, dobbiamo essere capaci di conoscere il passato. Avremo modo di vedere connessioni e legami tra ebraismo, musulmanesimo e cristianesimo.
 
3.    Domenica 11 aprile 2010, ore 10,00 in San Torpete vogliamo celebrare il 1° anniversario non compiuto di Ludovica Robotti che abbiamo accompagnato in cielo il giorno 5 febbraio all’età di mesi 9,5. Ludovica è nel nostro pensiero, nel nostro cuore e nella nostra preghiera. Come dimenticarla? Ora lei gioca con Mago Pasticca e noi vogliamo fare memoria dell’immenso dono che ci ha fatto, sebbene sia passata in mezzo a noi solo come una meteora, uno sprazzo di luce abbagliante.
 
4.    Mercoledì 14 aprile 2010, ore 17,00, la prof.ssa Margerità Pelaja presenterà il libro scritto in coppia con Lucetta Scaraffia «Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia» (Editori Laterza). Un tema di grande attualità perché ci introduce sulle ragione dell’uso della sessualità come dominio delle coscienze in funzione del potere.
 
5.    Mercoledì 5 maggio 2010, ore 17,00 il prof. Ignazio Farina del Dipartimento di Letteratura Arte e Spettacolo dell’Università di Salerno e specialista di Luigi Pirandello (e non solo) ci terrà una lezione «esegetica» sulla novella di Luigi Pirandello «Requiem aeternam» (Novelle per un anno). La scelta su questa novella è cogente in questi tempi di prevaricazione del potere lascivo: è la lotta tra i diritti fondamentali e la protervia di chi (il potente) quei diritti vuole conculcare in nome esclusivo del proprio interesse. In questo conflitto di civiltà, la chiesa gerarchica da che parte sta? L’attualità dei nostri giorni è assicurata.
 
6.    Mercoledì 13 maggio 2010 ore 17,00 Paolo Farinella, prete, prendendo lo spunto del suo ultimo libro «Il padre che fu madre». Una rilettura della parabola del “figliol prodigo”, (Il Segno dei Gabrielli Editori),legge la parabola di Lc alla luce del giudaismo e della tradizione biblica arrivando ad una valutazione della situazione attuale della Chiesa, nella quale ormai la gerarchia «mondanizzata» ha smarrito del tutto la profezia per appiattirsi al potere pagano e ai suoi detentori omicidi. Fuori del vangelo della misericordia non c’è salvezza.
 
7.    Mercoledì 19 maggio 2010, ore 17,00, il procuratore di Milano Armando Spataro, prendendo lo spunto dal suo libro «Ne valeva la pena - Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa» (Editori Laterza) in uscita a i primi di maggio, ci intratterrà sui temi «vietati» della legalità, della Legge e del suo disprezzo: la storia della mafia-politica, dei diritti e della sicurezza ci aiutano ad approfondire le ragioni della nostra «resistenza».
 
ESPOSIZIONE ICONOGRAFICA
 
8.    Da Martedì 6 a venerdì 16 aprile 2010, nei giorni di martedì – mercoledì – giovedì e venerdì dalle ore 15,30 alle ore 18,00 in San Torpete esposizione di «Icone» orientali, dipinte secondo le regole dell’ortodossia dal pittore genovese Alessandro Genta che sarà presente per tutto il tempo dell’esposizione e spiegherà l’arte, la tecnica, i colori e il simbolismo.
 


[1] «Laetáre, Ierúsalem, et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam; gaudéte cum laetítia, qui in tristítia fuístis, ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestrae».
[2] La Bibbia della Cei (1974) titola: «Il figlio perduto e il figlio fedele: “il figlio prodigo”», in parte travisando il contenuto della parabola come vedremo nell’omelia. La 2a edizione della Bibbia Cei (1997) corregge in «La parabola del padre misericordioso». La 3a edizione-Cei (2008) cambia ancora: «Il figlio perduto e il figlio fedele: “il figlio prodigo”». Questi tentativi dimostrano la difficoltà di acchiappare il testo biblico che supera ogni imbrigliamento.
[3] In questi ultimi anni assistiamo all’estensione dell’atteggiamento del figlio minore che sembra avere contagiato la maggior parte degli Italiani nei confronti dello Stato e della politica: scambiano la sudditanza per libertà, la rassegnazione per impegno: finendo per consegnare l’intero Paese nelle mani di governanti malati mentali, corrotti e corruttori. E’ strano come i cattolici che dovrebbero essere i custodi «primi» del senso della comunità, in politica sostengono e si alleano sempre con i fomentatori di divisione, con gli atei devoti, con i ladri di Stato, i frequentatori pubblici di prostitute a pagamento, con i distruttori delle Istituzioni, gli evasori fiscali, i mafiosi, i corruttori perché corrotti. Credono di averne qualche beneficio immediato, senza accorgersi che hanno venduto il senso della profezia perché sul male e sull’illegalità nessun bene può essere costruito. Chiamati ad annunciare un vangelo di libertà si ritrovano ad essere schiavi di un maniaco corrotto che li manoivra a suo piacimento, usandoli come strumento di peccato.
[4] Questo termine, di uso corrente, anche tra i cristiani per indicare persone provenienti da altre culture e nazioni, è un termine orribile e blasfemo che offende la persona stessa di Dio, la cui immagine è riflessa e scolpita nel volto di ogni persona, senza distinzione di «razza, popolo, lingua, nazione» (Ap 11,9). Coloro che riconoscono la paternità universale di Dio, non possono, senza rinnegare Dio stesso, dichiarare alcuno «fuori della comunità». Le parole sono pietre.
[5] J. Dupont, La Réconciliation dans la théologie de saint Paul, Publications Universitaires, Louvain 1953; R. P. Martin, Reconciliation: a study of Paul’s theology, Marshall, Morgan & Scott, London 1981.
 
[6] Per un commento più puntuale nel contesto del giudaismo, cf la rubrica biblica mensile «Così sta scritto» della rivista «Missioni Consolata» di Torino sul sito http://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?cat=25 dove per oltre due anni (2006-2008) abbiamo offerto il commento della parabola in questione, proponendo anche prospettive nuove. Il testo rivisto sarà pubblicato entro il mese di marzo 2010 dall’editore Il Segno dei Gabrielli Editori con il titolo «Il padre che fu madre».
[7] Che si tratti di due parabole lo dice anche la sintassi: in Lc 15,3 troviamo il primo verbo narrativo e l’indicazione di una sola parabola: «Disse loro questa parabola» e segue l’unica parabola ripetuta al maschile e al femminile. In Lc 15,11 per la seconda ultima volta ritroviamo lo stesso verbo narrativo  senza alcuna aggiunta o spiegazione: «E disse» a cui segue la parabola del padre e dei due figli.
[8] Il padre fa da perno ai due figli che sono speculari e l’uno non può esistere senza l’altro, perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro. Sia nella parabola essenziale (figlio minore) che nel suo prolungamento (figlio maggiore) la figura centrale è il padre: tutto ruota attorno a lui e mentre i figli fanno i propri interessi ciascuno dal proprio punto di vista, il padre è in continuo movimento: corre e si getta addosso al figlio (cf Lc 15,20), esce incontro al maggiore (cf Lc 15, 28). I figli e i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in fretta (Lc 15,22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi dalla paternità che li sostiene. Questa 2a parabola illustra il tema della misericordia sullo sfondo della storia della salvezza come si è realizzata, mettendo a confronto Israele e la Chiesa.
[9] E’ il ribaltamento della situazione: chi crede di essere dentro si trova fuori, e chi pena di essere fuori, invece è dentro. In Lc 8,19-21, la famiglia di Gesù, cioè i suoi parenti che sono preoccupati per la sua vita a causa della sua predicazione rivoluzionaria, vanno a cercarlo e annota l’evangelista che «non potevano avvicinarlo per causa della grande folla» (Lc 8,19) e quindi restarono fuori della «casa» dove si trovava Gesù: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti» (Lc 8,20).. La parentela di sangue non è garanzia sufficiente di fede perché questa non vive di rendita: il fatto di essere prete, cristiano, monaco, monaca, vescovo o papa non significa nulla sul piano della fede se questa non è una adesione libera e consapevole di rispondere alla grazia dello Spirito Santo (Lc 3,8; Mt 7,21). Gesù infatti prende le distanze dalla famiglia di sangue, mentre elegge a propri consanguinei coloro che «ascoltano la sua parola». Si può essere parenti e contemporaneamente estranei: «Ma egli rispose loro: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”» (Lc 8,21). Marco è più esplicito: «Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. 34Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”» (Mc 3,33-35). Per Mc la famiglia è un ostacolo alla missione di Gesù che essa giudica «fuori di sé» cioè pazzo (Mc 3,21).
[10] V., infra, Appendice p. xx
[11] Il termine «patrimonio» di Lc 15,14, in greco si dice «ousìa» che deriva dal participio presente femminile del verbo «eimì» che è il verbo dell’esistenza. Il termine indica la «natura», cioè la natura, la verità della persona.
[12] Cf Paolo Farinella, «La parabola del “Figliol prodigo” (6): la legge dell’impossibilità» in Missioni Consolata (= MC) 1 (2007) 24-26. In questo articolo si prende in esame, tra l’altro, lo schema biblico «maggiore/minore» (v. anche MC 6-7 [2006] 63): Caino ed Abele (cf Gen 4,1-20); Esaù e Giacobbe (cf Gen 25,19-34); Zèrach e Pèrez (cf Gen 38,30); Manasse ed Efraim (cf Gen 48,14.20); Davide e i suoi fratelli (cf 1Sam 16,1-13).


Mercoledì 10 Marzo,2010 Ore: 17:31
 
 
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