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www.ildialogo.org I record di Matteo Renzi,

I record di Matteo Renzi

* dopo essere riuscito a dare un colpi durissimi all'art.18 e ai diritti dei lavoratori;

* dopo aver sprecato diverse decine di miliardi di denaro pubblico (aumentando anche il debito pubblico dell'Italia);

* dopo aver defiscalizzato una parte degli aumenti salariali contrattuali destinati a sanità e welfare
(che è un'accelerazione della progressiva demolizione della SANITA' PUBBLICA);

* dopo aver cercato di demolire la democrazia costituzionale;

di seguito trovate altri record di Matteo Renzi.

Giuliano


unimondo.org
eddyburg.it

5 giugno 2017

Il vero record di Renzi: sestuplicato l’export di armamenti

L'esportazione italiana di armamenti - Grafico di G. Beretta


Lo sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale “Passo dopo passo” e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da “Italia in cammino”. Eppure è stata la miglior performance del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non parla: ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti. Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581% che significa, in parole semplici, che l’ammontare è appunto più che sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale, capeggiata dai colossi a controllo statale Finmeccanica-Leonardo e Fincantieri. E’ tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e, soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del nostro paese.

Renzi e il motto di Baden Powell
Un fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell: “Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”. L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’UE e della Nato (nel 2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro pari al 36,9%), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. E’ in questa zona – che pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori diretti o indiretti del jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.

Il basso profilo della sottosegretaria Boschi
Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016” inviata alle Camere lo scorso 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi. Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girl si è premurata di segnalare che “sul valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon realizzati in Italia”.  Al resto – cioè ai sistemi militari invitati in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: “Si è pertanto ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del triennio 2011-2013”. La legge n. 185 del 1990, che regolamenta la materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di armamento “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell'Italia”: autorizzare l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.

I meriti della ministra Pinotti
Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. E’ alla “sorella scout”, titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il riconoscimento di aver consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce apertamente, ma la principale azienda del settore, Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon: “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. “Il contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo” – aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante i slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi “a supporto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture”.

Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui “rapporti consolidati” tra Italia e Kuwait: rapporti – spiegava il comunicato della Difesa“che potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale”. Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia, insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche l’accordo di cooperazione militare con Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per promuovere “affari navali”: ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli.

Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni
Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. E’ lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare, che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera in riposta a due “Question Time”. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta ad un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che “… abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…” ha voluto evidenziare che “è importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati”. Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato.

Nel secondo, del 26 ottobre 2016, in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che “l’Arabia Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti”. Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo, votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”, in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di sostegno da parte del Governo italiano.

Ventimila bombe da sganciare in Yemen
Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere le “la ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa vigente”. Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili), ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi bombardamenti “may amount to war crimes” (“possono costituire crimini di guerra”).

Nella Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra queste figurano “bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro” e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per l’anno 2016 segnala un ordine “molto significativo” di “munizioni” per 411 milioni di euro da un “cliente della regione MENA” (Medio-Oriente e Nord Africa).

La legge n. 185/1990 vieta espressamente l’esportazione di sistemi militari “verso Paesi in conflitto armato e la cui politica contrasti con i princìpi dell'articolo 11 della Costituzione”, ma – su questo punto – nessun commento nella Relazione. E nemmeno da Renzi. Men che meno da Gentiloni. Che l’attuale capo del governo si sia dato come obiettivo quello di migliorare la performance di Renzi nell’esportare sistemi militari?

Giorgio Beretta giorgio.beretta@unimondo.org
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14 giugno 2017 - huffingtonpost
10 miliardi alle armi sottratti alla scuola e al welfare

di Giulio Marcon, Presidente del gruppo di Sinistra Italiana alla Camera


Oggi, 14 giugno, se non fosse stata messa la fiducia sulla riforma del processo penale la Commissione Bilancio della Camera si sarebbe dovuta occupare di un decreto della presidenza del consiglio che ripartisce 46 miliardi di investimenti nei prossimi anni, di cui 10 ai sistemi d'arma e agli interventi militari. Se ne parlerà domani o la prossima settimana.

Di che si tratta? L'ultima legge di bilancio (al comma 140) stabiliva un piano di investimenti (46 miliardi) da qui al 2032 su vari assi: trasporti, ricerca, periferie, difesa del suolo, lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, bonifiche, informatizzazione dell'amministrazione giudiziaria, etc. Di difesa e armi non si parlava nella legge di bilancio, anche se tra le priorità venivano citate le "attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni", che vuol dire tutto e niente.


Nella tabella del decreto in distribuzione scopriamo che 9.988.550.001 (in pratica 10 miliardi, il 22% del totale) saranno destinati al ministero della difesa. Ma le spese militari non erano inserite tra le priorità del comma 140 della legge di bilancio. Per cosa serviranno questi 10 miliardi? Come ricorda Milexsaranno usati per circa la metà dell'importo (5,3 miliardi) per produrre carri da combattimento Freccia e Centauro 2, le fregate Fremm, gli elicotteri da attacco Mangusta e tanto altro ancora.


Soldi che serviranno a realizzare (ben 2,6 miliardi) anche il "Pentagono de noantri" (un mega centro servizi e comandi) nel quartiere periferico di Centocelle, a Roma. L'aspetto ridicolo e paradossale è che questa spesa di 2,6 miliardi per il Pentagono nostrano viene inserita sotto il titolo del paragrafo del decreto: "edilizia pubblica, compresa quella scolastica". Scolastica?


Due riflessioni.
La prima: un fondo di 46 miliard
i per "assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese" cede il 22% della sua dote al Ministero della Difesa per fare carri armati ed elicotteri di combattimento e centri comandi. Che c'entra? Una scorrettezza politica e formale grande come una casa.
Secondo: si sacrificano gli investimenti civili a quelli militari. Mentre si destinano 10 miliardi alle armi, si concedono in questo piano pluriennale solo 500 milioni agli interventi in campo ambientale, meno di 600 ai beni culturali e 287 (sempre milioni) alla salute. E allo "sviluppo economico" (ci si aspetterebbe la fetta di torta più grande) vengono dati 3,5 miliardi di euro, appena poco più di 1/3 di quanto si destina a contraeree e fregate.

Nonostante le lamentele della ministra Pinotti e delle gerarchie militari, al Ministero della Difesa arrivano sempre tanti, troppi soldi.
Ma il Paese ha bisogno di lavoro, non di carri armati.
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30 aprile 2017 - il manifesto

Italia «a testa alta» nelle spese per la guerra
di Manlio Dinucci  

«L’Italia partecipa a testa alta all’Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore contributore, e conferma l’obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni. Proprio ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha così ripetuto quanto già detto al presidente statunitense Donald Trump, ossia di essere «fiero del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza», garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l’Italia rispetterà l’impegno assunto».

I dati sulla spesa militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell’Italia, all’11° posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni militari all’estero, extra budget della Difesa). Sotto pressione Usa, la Nato vuole però che l’Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil, ossia circa 100 milioni di euro al giorno.

Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha detto: «Andiamo, devi pagare, devi pagare…». E, nell’intervista, Trump si dice sicuro: «Pagherà». Non è però Gentiloni a pagare, ma la stragrande maggioranza degli italiani, direttamente e indirettamente attraverso il taglio delle spese sociali.

C’è però, evidentemente, chi ci guadagna. Nel 2016, l’export italiano di armamenti è aumentato di oltre l’85% rispesso al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Un vero e proprio boom, dovuto in particolare alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, che diviene primo importatore di armi italiane. Un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Roberta Pinotti, efficiente piazzista di armi (v. il manifesto del 23 febbraio 2016). Si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui casse entra la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4 miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti.

Si accelera così la riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per i grossi azionisti: nella classifica delle 100 maggiori industrie belliche mondiali, redatta dal Sipri, Finmeccanica si colloca nel 2015 al 9° posto mondiale con una vendita di armi del valore di 9,3 miliardi di dollari, equivalente ai due terzi del suo fatturato complessivo. L’azienda accresce fatturato e profitti puntando su industrie come la Oto Melara, produttrice di sistemi d’arma terrestri e navali (tra cui il veicolo blindato Centauro, con potenza di fuoco di un carrarmato, e cannoni con munizioni guidate Vulcano venduti a più di 55 marine nel mondo); la Wass, leader mondiale nella produzione di siluri (tra cui il Black Shark a lunga gittata); la Mbda, leader mondiale nella produzione di missili (tra cui quello anti-nave Marte e quello aria-aria Meteor); l’Alenia Aermacchi che, oltre a produrre aerei da guerra (come il caccia da addestramento avanzato M-346 fornito a Israele), gestisce l’impianto Faco di Cameri scelto dal Pentagono quale polo dei caccia F-35 schierati in Europa.

Poco importa che Finmeccanica – in barba al «Trattato sul commercio di armamenti» che proibisce di fornire armi utilizzabili contro civili – fornisca armi a paesi come il Kuwait e l’Arabia Saudita, che stanno facendo strage di civili nello Yemen. Come stabilisce il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, convertito in disegno di legge, è essenziale che l’industria militare sia «pilastro del Sistema Paese», poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati».

Poco importa naturalmente che si spendano per il militare, con denaro pubblico, oltre 70 milioni di euro al giorno, ormai in continuo aumento. Essenziale, stabilisce il «Libro Bianco», è che l’Italia sia militarmente in grado di tutelare, ovunque sia necessario, «gli interessi vitali del Paese». Più precisamente, gli interessi vitali di chi si arricchisce con la guerra.

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29 aprile 2017 - la Repubblica online "Economia e finanza"
Armi, cresce la spesa in tutto il mondo.
Italia da record in Europa: +11%

di Andrea Tarquini


Il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute.
A livello globale il livello sale dello 0,4%. Boom di Russia e Cina, in crescita anche Stati Uniti.

Paesi in forte espansione economica e paesi in grave crisi, democrazie e regimi autoritari, superpotenze industriali-postindustriali, paesi emergenti, paesi poveri. Il mondo è composto da tante realtà diverse, ma quasi tutte con un dato in comune: la tendenza prevalente all´aumento delle spese militari, che negli ultimi cinque anni per la prima volta sono giunte al massimo livello dalla fine della guerra fredda. In particolare, le spese militari nel mondo in totale sono aumentate dello 0,4 per cento in termini reali a 1686 miliardi di dollari.

Ma ben piú importante, in alcuni casi vertiginoso, è l´aumento dei bilanci per le forze armate negli Stati Uniti, in Cina, in Russia in India. Crescono le spese militari anche in Europa, Italia compresa anzi prima in percentuale tra i membri europei dell´Alleanza atlantica nonostante la spending review e l´alto debito sovrano, mentre tendono a calare in quasi tutti i Petrostati a causa dei bassi prezzi del greggio. Ecco la precisa diagnosi dell´ultimo rapporto annuale del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), forse la fonte piú attendibile in materia a livello mondiale.

Vediamo la situazione, caso per caso. In Europa occidentale l´aumento complessivo è stato del 2,6 per cento, a conferma della tendenza iniziata l´anno precedente. Significativo il fatto che secondo il SIPRI è l´Italia il paese in cui è stato registrato l´aumento più notevole con un piú 11 per cento tra il 2015 e il 2016. I dati sul nostro paese sono sostanzialmente confermati dalla Nato. Secondo cui la spesa militare italiana è aumentata l´anno scorso del 10,63 per cento.

Nell´Europa centrale le spese per la difesa sono cresciute complessivamente del 2,4 per cento. Piú marcatamente in paesi Nato come Polonia o Baltici, dove, rileva il SIPRI, è aumentata la percezione-allarme per la minaccia posta dalla politica aggressiva della Russia di Putin. Trend nuovo e forte anche nel pacifico Grande Nord: la Svezia ha appena deciso di ristabilire la leva obbligatoria per donne e uomini e di aumentare il bilancio della Difesa del 15 per cento, viste le continue, pericolose provocazioni aeree, navali, sottomarine, di cyberwar e fake news da parte del Cremlino.

Passiamo alle superpotenze. Gli Stati Uniti, dopo diversi anni di riduzione o contenimento, hanno aumentato le loro spese (611 miliardi di dollari) dell´1,7 per cento rispetto all´anno precedente. Ben superiore in percentuale è la crescita delle spese militari della Russia di Putin (69,2 miliardi di dollari, ma occorre tenere conto che il costo del lavoro anche nell´industria militare in Russia è infinitamente inferiore a quello negli Usa o in Europa) che registra una crescita del 5,9 per cento, e della Cina (analogo discorso come per la Russia sul basso costo del lavoro su cui “fare la tara”) con 215 miliardi e un aumento del 5,4 per cento. Putin ha rapidamente trasformato le sue forze armate dotandole di armamenti ultratecnologici dell´ultima generazione e di capacità operative dimostrate in modo devastante ad esempio con l´intervento in Siria. La Cina, che ha appena mostrato al mondo la sua prima portaerei fatta in casa, e dispone di migliaia di moderni jet da combattimento compresi tre modelli di cacciabombardieri stealth cioè invisibili ai radar nonché di una marina militare a crescenti capacità oceaniche di proiezione lontana della forza, ha a lungo termine capacità industriali e tecnologiche superiori a quelle russe, e si pone nel futuro come principale rivale degli Usa. Vola anche la spesa militare indiana, che aumenta dell´8,5 per cento, quinto paese nel mondo per investimenti nel settore militare) sia per l´arsenale nucleare coi primi missili intercontinentali, sia per modernissime armi convenzionali. Come il prossimo acquisto di circa 120 caccia invisibili Sukhoi PAK T-50, di produzione russa ma il cui sviluppo è reso possibile dalla collaborazione di team di ingegneri aeronautici indiani.

In Medio Oriente si registra una crescita solo in alcuni paesi come Iran e Kuwait, mentre in Arabia Saudita e Iraq la diminuzione è netta: in Arabia saudita il calo è addirittura del 30 per cento. Anche altri paesi petroliferi non mediorientali, ad esempio il Venezuela (meno 56 per cento) che recentemente si era lanciato in una pazzesca corsa al riarmo acquistando cacciabombardieri bisonici e tank russi, hanno dovuto contrarre le spese, per il calo del prezzo del greggio e per fattori di grave crisi economica interna. Quello che in decenni passati i migliori economisti critici americani battezzarono “il complesso militare-industriale”.
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25 aprile 2017 - Rete Italiana per il Disarmo, Campagna mondiale sulla spesa militare (GCOMS)

Aumentano ancora le spese militari:
la società civile internazionale domanda inversione di rotta

Diffusi i dati SIPRI per il 2016: la spesa militare mondiale si è attestata sui 1.686 miliardi di dollari, con incremento dello 0,4% annuo in termini reali. La spesa militare e cresciuta in Nordamerica per la prima volta dal 2010 mentre per quanto riguarda l'Europa occidentale si cresce per il secondo anno consecutivo, la Cina continua a far registrare aumenti robusti. In flessione i paesi produttori di petrolio. Come già mostrato dai dati recentemente diffusi dall'Osservatorio Milex anche il SIPRI registra aumento degli investimenti militari italiani (la maggiore crescita europea registrata dall'istituto svedese). La Campagna mondiale sulla spesa militare (GCOMS) e la Rete Disarmo chiedono di spostare gli ingenti fondi su utilizzi più socialmente utili.

Continua la crescita, anche se lenta, delle spese militari nel mondo: il totale è ora di 1.686 miliardi di dollari. Lo rivelano le elaborazioni pubblicate oggi dall'Istituto svedese SIPRI, che certifica inoltre un deciso balzo in avanti dell'Italia (+10% dal 2015 al 2016). I dati dell'Osservatorio Milex, nel primo Rapporto annuale pubblicato a metà febbraio, hanno già inoltre confermato una crescita prevista per le spese militari italiani del 2017. Le due tendenze, pur con alcune differenze di metodologie e conteggio, si confermano vicendevolmente.

Secondo i dati diffusi oggi le dinamiche della spesa militare variano considerevolmente tra diverse regioni del globo. La spesa ha continuato a crescere in Asia ed Oceania, nell'Europa centrale e dell'est e in Nord Africa; al contrario c'è stata una flessione per quanto riguarda l'America centrale, e soprattutto nel Medio Oriente (trend evidenziabile per i paesi dei quali è disponibile una stima). Le crescite più significative sono quelle già citate riguardanti gli Stati Uniti e il Nord America insieme all'Europa occidentale.

Per gli USA (sempre al vertice della classifica) si registra una crescita dell'1,7% (a 611 miliardi di dollari) mentre la Cina ha avuto un + 5,4% (in rallentamento rispetto al passato) con un totale di 215 miliardi di dollari. Al terzo posto la Russia (+5,9% a 69,2 miliardi di $) che ha superato l'Arabia Saudita costretta a diminuire i propri investimenti del 30% (63,7 miliardi di dollari). Seguono India, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Germania e Sud Corea prima dell'Italia.

La crescita della spesa militare statunitense nel 2016, pur rimanendo inferiore del 20% al suo picco del 2010, potrebbe segnalare la fine di un trend di discesa iniziato con la crisi economica e il ritiro delle truppe americane da Afghanistan e Iraq. “Nonostante la permanenza limitazioni complessive nel budget federale, il Congresso USA ha continuato a votare a favore di nuove spese militari” afferma la Dr Aude Fleurant, Direttrice del Programma SIPRI Arms and Military Expenditure (AMEX). “Le dinamiche della spesa futura rimangono incerte a seguito dei cambi nella situazione politica statunitense”.

Occorre invertire la rotta. Lo chiede gran voce Campagna mondiale sulla spesa militare (GCOMS), una mobilitazione internazionale nata nel dicembre 2014 e promossa dall’International Peace Bureau di cui anche Rete Disarmo è parte rilanciandola in Italia. L’obiettivo della Campagna é quello di far pressione sui governi affinché investano nei settori della salute, dell’educazione, dell’impiego e dell’ambiente invece che in quello militare. GCOMS include al suo interno anche le giornate di azione globale sulle spese militari (GDAMS), che quest’anno celebrano la loro settima edizione dal 18 al 28 aprile.

Come dimostrano i dati in tutto il mondo i governi stanno insistendo per aumentare la propria spesa militare. Negli Stati Uniti il presidente Donald Trump ha annunciato un ulteriore aumento di 54 miliardi di dollari che inciderà sulle spese legate alla diplomazia e agli affari esteri. Tutti i governi europei aderenti alla NATO hanno concordato in due occasioni, in Galles e a Varsavia, di spendere il 2% del PIL nazionale in difesa e parallelamente stanno creando un nuovo sistema di fondi per lo sviluppo e la ricerca militare. Dall’altra parte del mondo la Cina ha dichiarato di voler incrementare il proprio budget militare del 7% nel 2017. Tra gli altri Stati che sono in cima alla lista dei Paesi che maggiormente spendono nell'ambito militare troviamo l’Arabia Saudita e il Giappone che hanno seguito la scia degli aumenti. A questo si aggiungono le pressioni di Trump e di tutta l’Amministrazione americana, sebbene la crescita nella spesa militare degli Stati non sia del tutto un nuovo fenomeno di questi mesi.

La società civile del mondo vuole andare in altra direzione. Da anni la Campagna mondiale sulla spesa militare (GCOMS) propone un taglio del 10% delle spese militari e secondo i dati analizzati dal SIPRI questo sarebbe sufficiente per raggiungere importanti obiettivi per le popolazioni, quali l'eliminazione della povertà estrema e della fame (si vedano le infografiche allegate).

“Con lo scenario sopra descritto abbiamo molte buone ragioni per rinnovare la nostra determinazione nel richiedere un taglio nella spesa militare di tutti i governi e di avvicinarci maggiormente alla prospettiva della sicurezza umana che molti vorrebbero vedere” afferma Jordi Calvo Rufanges del Centre Delas di Barcellona coordinatore della Campagna internazionale. Di recente Donald Trump ha detto: "Dobbiamo ricominciare a vincere le guerre", noi dichiariamo che dobbiamo invece ricominciare a costruire la pace. E' fondamentale che si costruiscano in tutto il mondo strutture che favoriscano la sicurezza umana, e allo stesso tempo che vengano interrotte guerra e distruzione.

Senza dimenticare l'impatto negativo di questa scelta sulla salute globale del pianeta. “Nel 2014 oltre 17,5 milioni di persone si sono dovute spostare dalle loro case per disastri naturali legati al clima, e le cifre continueranno a crescere drammaticamente nei prossimi decenni. Eppure i Governi non hanno ancora deciso di impegnarsi su questo problema, sprecando ancora troppi soldi per le armi e pochi per curare il nostro pianeta – commenta Francesco Vignarca coordinatore di Rete Disarmo - Un recente studio internazionale stima che il rapporto di spesa tra la sicurezza militare e quella climatica sia di 28 a 1! Nella stessa analisi si sottolinea che per contrastare gli effetti del climate change servirebbero 55 miliardi di dollari all’anno, ma nel 2017 ne sono stati stanziati solo 21: 34 miliardi di dollari mancanti equivalgono però a solo il 2% della spesa militare annuale. E l'obiettivo fissato dagli SDG dell'Onu sul clima invece richiederebbe 100 miliardi di dollari all'anno, cioè solo il 6% della spesa militare”

Riducendo drasticamente il budget della difesa in tutti i Paesi avremmo due effetti: si ridurranno i livelli di militarizzazione e violenza contro i civili e, se i soldi verranno redistribuiti intelligentemente, si potranno trovare risorse per finanziare meccanismi di peace building per proteggere i diritti umani e per affrontare il cambiamento climatico in corso.

Tutti possiamo fare pressione sui governi in questo senso, ed in particolare la GCOMS fornisce alcuni strumenti: il rilancio dei dati e delle infografiche, il “selfie” di pressione alla politica per indicare in quali ambiti di spesa pubblica alternativa si desidererebbe spostare le enormi cifre a disposizione ogni anno degli investimenti militari

I flussi di rifugiati e altri spostamenti forzati delle popolazioni civili sono una delle conseguenze dirette della guerra, della disuguaglianza e della violenza: la crisi dei rifugiati é stata militarizzata in tutto il mondo. Invece di costruire muri, militarizzare le frontiere e ignorare i diritti umani, dovremmo offrire le “armi pacifiche” della tolleranza, della cooperazione, della giustizia globale e dell’integrazione. Invece di un bilancio militare, abbiamo bisogno di un bilancio sociale globale per affrontare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (SDG Goals). Invece del business degli armamenti e la militarizzazione dei confini, dobbiamo rispondere all’attuale crisi umanitaria con un vero e proprio budget per proteggere e promuovere i diritti umani.



Sabato 24 Giugno,2017 Ore: 15:48
 
 
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