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www.ildialogo.org NOI PARLAMENTARI PD PER IL NO AL REFERENDUM,di Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti, Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco

Referendum Costituzione
NOI PARLAMENTARI PD PER IL NO AL REFERENDUM

di Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti, Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco

Riceviamo i documenti che di seguito pubblichiamo dall'amico Carlo Castellini di Brescia, che li ha a sua volta ricevuti dall'on.le Paolo Corsini che accompagna questi documenti con la seguente nota esplicativa:

Cara amica, caro amico, mi permetto di sottoporre alla tua attenzione il documento con il quale, unitamente ad un gruppo di senatori e deputati del partito democratico, rendiamo pubblica la nostra decisione di votare no in occasione del prossimo referendum costituzionale. Mi rendo perfettamente conto che si tratta di una scelta che può suscitare e susciterà discussioni, polemiche e controversie. Una scelta che per quanto mi riguarda è tutta ed esclusivamente legata ad un giudizio sul merito della riforma. Da parte mia non interromperò certamente l'amicizia con quante o quanti non vorranno condividerla e spero che così avvenga da parte vostra. Allego anche una mia replica al giornalista Luciano Costa in merito ad una interpretazione della cultura costituzionale del compianto Mino Martinazzoli. A proposito del quale mi fa piacere informare che ha visto la luce, curato da me e da Pierluigi Castagnetti, il volume che raccoglie tutti i suoi interventi parlamentari (oltre 800 pagine). A cura mia è stata pubblicata anche una rassegna bibliografica che offre un quadro degli scritti e degli interventi di Mino Martinazzoli e di quanto è stato scritto su di lui. Volume dei discorsi parlamentari e rassegna bibliografica possono essere richiesti scrivendo o contattando l'Archivio della Camera dei Deputati. Con molte cordialità, Paolo Corsini
I firmatari di questo documento sono parlamentari del PD che voteranno no al prossimo referendum costituzionale. Con la consapevolezza che la propria è posizione in dissenso da quella deliberata dal PD, ma nella convinzione che essa possa essere da noi assunta grazie al carattere liberale dello statuto del partito, il quale mette in conto che non si dia un vincolo disciplinare quando sono in gioco principi e impianto costituzionale. Una posizione, la nostra, che confidiamo possa essere doppiamente utile. Da un lato, contribuendo a centrare il confronto sul merito della riforma, anziché su pregiudiziali posizioni di schieramento, come un po' tutti, a cominciare dal PD, dichiarano di auspicare. Dall'altro, ritenendo che non siano pochi, tra elettori e militanti democratici, coloro che coltivano una opinione diversa da quella "ufficiale" del partito, pensiamo sia bene che essi abbiano voce. Circostanza che conferisce autorevolezza e forza al PD come grande partito pluralistico, inclusivo e appunto liberale. Sinteticamente, le motivazioni del nostro no sono le seguenti:
1) le priorità in agenda. È nostra convinzione che le riforme costituzionali, pur necessarie, non rappresentino la priorità in agenda. Di più: che da gran tempo è invalsa l'abitudine - una sorta di alibi per la classe politica - di imputare alla Costituzione la responsabilità di insufficienze che semmai vanno intestate alla politica e all'amministrazione; nonché di spostare tutta l'attenzione dall'esigenza di dare attuazione a principi e diritti scolpiti nella Carta alla ingegneria costituzionale in una sorta di frenesia riformatrice;
2) legittimazione o, meglio, autorevolezza di questo parlamento. Conosciamo la sentenza n. 1 del 2014 che autorizza l'operatività del parlamento ancorché eletto con il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma una cosa è la sua operatività ordinaria, altra cosa è la riscrittura di ben 47 articoli della Costituzione, un ridisegno della sua seconda parte (per altro già rinnovata in taluni suoi articoli), per il quale si richiederebbero ben altra autorevolezza e forse un più esplicito mandato da parte degli elettori. Abbiamo la memoria corta: dopo l'esito delle elezioni politiche del 2013, dalle quali non è sortita una maggioranza, era opinione unanime che si dovesse dare vita a un governo istituzionale che portasse entro un anno a nuove elezioni, non a governi o a una legislatura costituenti;
3) metodo. È profilo cruciale. Le revisioni costituzionali sono materia parlamentare per eccellenza. Nel nostro caso, l'intero processo è stato ideato, gestito, votato dal governo, per altro facendo appello a motivazioni giuste ma francamente incongrue rispetto alla portata della riforma quali la riduzione dei costi. Un protagonismo esorbitante e improprio del governo, non privo di gravi conseguenze. Tra le quali quella di non giovare al fine di raccogliere una maggioranza larga, quale si conviene alla riscrittura della Legge fondamentale della Repubblica; quella inoltre di smentire il solenne impegno a non ripetere l'errore del passato di riforme varate da una stretta maggioranza di governo; quella infine di porre l'ennesimo, insidioso precedente foriero di altri futuri strappi da parte di maggioranze politiche contingenti, in un tempo che ci suggerisce di non escludere, per il futuro, governi dal segno illiberale. E ancora: quella di porre le premesse per un referendum costituzionale il cui oggetto slitta dal quesito di merito formale al quesito implicito sul sì o no al governo, dunque un plebiscito. Anche a motivo della non omogeneità dell'oggetto, come prescrive la giurisprudenza costituzionale e, prima ancora, l'art. 138 la cui "ratio" chiaramente sottintende revisioni mirate e puntuali;
4) il merito. In estrema sintesi, la nostra opinione è che la riforma non riesca a perseguire gli  obiettivi dichiarati: di semplificazione e di conferimento di efficienza e di efficacia al sistema istituzionale. Più specificamente, essa disegna un bicameralismo confuso - va da sé che siamo favorevoli al superamento del bicameralismo paritario - nel quale il Senato, privo per altro di adeguata autorevolezza e rappresentatività, rischia semmai di costituire un ulteriore ostacolo al processo decisionale (davvero si pensa che il problema sia quello di fare più celermente nuove leggi, anziché quello di farne meno e di scriverle meglio?); un procedimento legislativo farraginoso e foriero di conflitti; un Senato la cui estrazione locale mal si concilia con le rilevanti competenze europee e internazionali affidategli; una esorbitante ricentralizzazione nel rapporto Stato-regioni che revoca il principio/valore delle autonomie ex art. 5 della Carta (paradossalmente ignorando l'esigenza di ripensare le regioni ad autonomia speciale); una complessiva alterazione degli equilibri, delle garanzie e dei bilanciamenti di cui si nutre il costituzionalismo tutto a vantaggio del governo, un vantaggio ulteriormente avvalorato dall'Italicum; il conferimento ai futuri consiglieri regionali e sindaci senatori dell'istituto dell'immunità sino a oggi riservato ai soli rappresentanti della nazione in senso proprio;
5) elettività dei senatori. Nell'ultimo e decisivo passaggio della riforma al Senato la questione più dibattuta fu quella della sua elettività, motivata in ragione delle competenze ad esso assegnate - dalle leggi di revisione costituzionale alla materia comunitaria sino alla ratifica dei trattati internazionali - che palesemente presuppongono senatori eletti direttamente dai cittadini in quanto fonte della sovranità nazionale. Ne è sortita una elaborata mediazione sul testo che di fatto rinvia la questione a una legge elettorale (del Senato) ordinaria di attuazione. Sul punto, vi fu l'intesa di fare precedere il referendum costituzionale da un impegnativo atto politico se non dalla messa a punto di una bozza di tale legge attuativa, della quale non si ha più notizia. Rilasciando così nell'incertezza la cruciale questione della elettività dei senatori;
6) infine una ragione politica, che riguarda il PD e, più complessivamente, l'evoluzione del sistema politico. Non è un mistero che, anche a motivo della impropria drammatizzazione politica della questione, si attende il referendum come uno spartiacque. Al punto che vi è chi rappresenta il fronte del sì come il laboratorio di uno schieramento o addirittura di un partito che muova dal PD, ma che vada oltre il PD. Una sorta di partito unico di governo, posizionato al centro, che si concepisce come alternativo alla destra e alla sinistra. Una prospettiva, per noi, tre volte sbagliata: perché snatura il confronto referendario; perché allontana il sistema politico dalla fisiologia di una competizione tra centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle; perché altera il profilo costitutivo del PD quale partito di centrosinistra, ancorché non presuntuosamente autosufficiente, nel solco dell'Ulivo. Quel profilo e quell'assetto che, alle recenti amministrative, nel quadro di una bruciante sconfitta, ha consentito al PD di vincere la partita a Milano.
La nostra posizione per il no può riuscire utile sotto un altro, decisivo profilo. Quello delle gestione delle conseguenze a valle di una eventuale bocciatura della riforma. Il nostro è un no di merito alla riforma. La circostanza che anche elettori e militanti del PD possano avere contribuito al no non autorizzerebbe a stabilire un improprio automatismo: no alla riforma=crisi di governo. Qualcuno di sicuro lo sosterrà, anche perché, non certo noi, ma il premier, sbagliando, ha contribuito ad avvalorare tale tesi. Un automatismo che noi contestiamo, con il nostro no, rigorosamente distinto dal no al governo, che, lo ripetiamo, esula completamente dalle nostre intenzioni.
 
Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti, Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco

 

Paolo Corsini
Replica a Luciano Costa
Sono debitore di una replica a Luciano Costa che mi chiama in causa con un suo intervento (Riforme: il “no” di Corsini ed il “sì” di Martinazzoli) a proposito del prossimo referendum costituzionale. Ma, ancor più, l’occasione mi è propizia per chiarire la mia posizione quanto al merito del quesito che sarà sottoposto ai cittadini italiani. Due, in sostanza, gli argomenti cui Costa fa ricorso: il primo, abbastanza curioso e stravagante, e cioè il fatto che “solerti vacanzieri” gli hanno spiegato che “Paolo Corsini […] fonda le sue ragioni […] appellandosi nientemeno che al compianto Mino Martinazzoli”; il secondo invece evoca direttamente il fondatore del Ppi, facendosi mentore della circostanza che “Mino non avrebbe posto remore alla riforma costituzionale” in nome di uno Stato che “non ha bisogno di due camere contrapposte, autonome e anche costose, ma di un sistema vivo, rappresentativo e autorevole”, in grado di dare espressione a quel “Paese reale che poi è quello che non capisce i costi della politica”. Queste, in sintesi, a detta di Luciano Costa e, persino virgolettate, le convinzioni di Mino Martinazzoli. Procediamo, dunque, con ordine. Sono stato primo firmatario di un documento sottoscritto, per ora, da sette senatori e tre deputati del Pd, i quali motivano pubblicamente le ragioni del loro no alla riforma. Appunto le motivano con giudizi di cui si assumono in prima persona la responsabilità, senza chiamare in causa altri a proprio sostegno. Senza scomodare padri costituenti, insigni costituzionalisti, autorevoli esponenti politici - e Martinazzoli certamente tra questi - che, ormai deceduti, potrebbero avvalorare la scelta del no. Contrariamente a chi si appella a Berlinguer e Ingrao, a Dossetti o Elia, figli di una stagione del tutto diversa da quella attuale, palesamente decontestualizzati e addirittura stravolti nel loro pensiero a fini strumentali, i parlamentari del Pd così espongono le loro motivazioni. Anzitutto il deficit di autorevolezza morale di questo Parlamento viziato ab origine dal Porcellum; in secondo luogo il metodo, tutto in capo al Governo su materia genuinamente parlamentare, un Governo che ha concorso in modo determinante al varo di una riforma attuata mediante una maggioranza ristretta e ondivaga. Ancora: una riforma che non persegue gli stessi obbiettivi dichiarati di semplificazione e di efficienza del sistema istituzionale, senza contare che, anziché promuovere un reale superamento, per altro ampiamente condiviso, del vigente bicameralismo simmetrico e paritario, essa disegna un procedimento legislativo confuso e farraginoso. Basti leggere l’illeggibile articolo 70. Si viene altresì configurando un Senato nel quale si dà una palese contraddizione tra la nuova composizione (consiglieri regionali, sindaci, membri di nomina presidenziale) e le sue competenze, tanto in materia elettorale che costituzionale, oltre che sotto il profilo della politica europea e internazionale di sempre maggiore impegno. Infine: un esorbitante ricentralizzazione del rapporto tra Stato e regioni a scapito di un federalismo retto su di un autonomismo regionalistico ben calibrato e funzionale. Sullo sfondo i nodi del tutto ancora irrisolti della elettività dei nuovi senatori e il sovraccarico politico di cui si è voluto rivestire il referendum - sino al punto da configurare una sorta di plebiscito, un giudizio di Dio su Matteo Renzi ed il suo Governo - con evidenti implicazioni di snaturamento del profilo identitario del Pd e sui complessivi assetti del sistema politico. E veniamo a Martinazzoli, una personalità che a lungo ho frequentato e a lungo studiato. Ho infatti dedicato un anno di lavoro a leggermi tutti - ripeto proprio tutti - i suoi interventi pronunciati in 22 anni di attività parlamentare, interventi di imminente pubblicazione, a cura mia e di Pierluigi Castagnetti, che assommano a circa 800 pagine stampate. Ho altresì dedicato un libro alle sue penetranti riflessioni su “valore e limite della politica”. Naturalmente, dunque, la mia personale macerazione - sì proprio macerazione - sulla riforma costituzionale si è alimentata anche del suo pensiero e del suo magistero. Capisco che leggersi un malloppo tanto oneroso sia una fatica improba. Più semplice e agevole dare almeno un’occhiata ai suoi interventi in Consiglio regionale che, su lodevole iniziativa di Gianni Girelli, hanno visto la luce. Qui basterebbe una rapida scorsa per cogliere l’insistenza di Mino sulla “repubblica parlamentare”, sul sistema elettorale proporzionale, sulla critica anti bipolare, sul rapporto tra Governo e costituzione, tra potere esecutivo e legislativo - la Giunta regionale, alias il Governo centrale, che assurge a catering del Consiglio, alias le assemblee parlamentari - sulla durata storica delle costituzioni da sottrarre alle convenienze politiche immediate. A me per altro risulta del tutto inverosimile la citazione di un Martinazzoli soprattutto preoccupato dei costi della politica quanto all’esercizio delle funzioni di rappresentanza. Un problema cui va certamente posta mano, ma non dirimente in relazione al ben più rilevante spessore e alla portata della questione costituzionale. Al di là del fatto che i tanto reclamizzati risparmi sono esattamente un decimo di quelli propagandati, come dimostrano studi e fonti di provata affidabilità. Mi concederò dunque anch’io una citazione di Martinazzoli, certamente autentica, un refrain per lui insuperabile, una sorta di prologo tombale per la riforma che verrà sottoposta al vaglio popolare : “Nessun potere costituito può autoproclamarsi potere costituente”. Ma tant’è, lasciamo pure che Mino possa riposare in pace.



Domenica 18 Settembre,2016 Ore: 15:01
 
 
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